Elisa Maiorano
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Un giallo “quasi” classico, con numerosi personaggi che si esprimono sovente in dialetto siciliano e che sono capaci, pur nella drammaticità della vicenda, di strappare anche qualche sorriso al lettore.
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Anteprima del libro
Elisa Maiorano - Michele Zoppardo
EEE-book.
Capitolo I – Il belvedere
08 maggio 1975 (giovedì) - ore 1.35
L’auto che percorreva la strada costiera, giunta all’altezza di un vasto belvedere, si fermò.
Nel parcheggio, debolmente illuminato da quei pochi lampioni che conservavano le lampadine intatte, c’erano solo tre o quattro macchine. Attraverso i vetri appannati s’indovinavano delle sagome avvinghiate l’una all’altra, come rampicanti al loro traliccio.
L’uomo scese, attraversò lentamente la terrazza e si diresse verso la balaustra di protezione. Vi si appoggiò e inspirò profondamente l’aria salmastra che gli riempì le narici e i polmoni, frizzando piacevolmente. La notte era mite e, dai pini marini che costeggiavano la litoranea, giungeva a ondate il profumo balsamico della resina. Nel cielo stellato spiccava un quarto di luna nascente, che si riverberava sull’acqua appena increspata, mentre poche nubi, lattiginose e sfilacciate, giocavano a rincorrersi e, sfrontate, non si curavano di velare, a tratti, la falce splendente, passandole davanti. Il mare, punteggiato in lontananza da qualche lampara, era quieto; se ne avvertiva appena lo sciabordio ritmato e sonnacchioso.
Sereno era anche l’animo di quel solitario spettatore notturno, al quale la natura stava offrendo quello spettacolo incantevole, con cui egli, passata la tempesta che gli aveva attraversato l’esistenza rischiando di distruggergliela, si sentiva in piena armonia.
Da quando aveva preso quella decisione, era come chi, tornato alla vita dopo essere stato a lungo in coma profondo, vuol godere di ogni meraviglia del creato e apprezza ogni cosa, anche ciò di cui prima non si accorgeva neanche o che riteneva irrilevante, come quel quarto di luna o quelle stelle o quelle lampare. Eppure, un attimo prima, la sua vita era niente, come un foglio di carta appallottolato e fatto rotolare sulla strada, dove tutti potevano calpestarlo e prenderlo a calci, finché una scopa e una paletta non lo avessero raccattato e gettato nella spazzatura oppure come un guscio di noce finito nel mare in tempesta, percosso dalla pioggia battente, sferzato dall’impeto dei venti, scagliato verso il cielo dalla furia delle onde e poi scaraventato verso la profondità degli abissi. Ma proprio quando aveva visto spalancarsi davanti le porte dell’inferno e sentito l’alito fetido della morte, era approdato in una placida laguna, dove il suo animo aveva trovato ristoro. Ora, però, doveva liberarsi di quell’oggetto infilato nella cintura dei pantaloni e di cui, attraverso la camicia, avvertiva il freddo contatto metallico che lo faceva rabbrividire. Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno lo osservasse. Scavalcò il cancello chiuso e scese, con cautela, alcuni gradini della scala in pietra che portava alla scogliera. Giunto nel punto in cui la luce giallastra del lampione, che illuminava quella parte della terrazza, non arrivava più, l’uomo estrasse quella pistola che avrebbe dovuto decidere il suo e l’altrui destino e che ormai non serviva più ai suoi scopi, e la scagliò in mare, lontano più che poté. Qualche spruzzo d’argento e l’oggetto pesante s’inabissò rapidamente per andare a far compagnia ai pesci. L’uomo ritornò sulla strada, risalì in auto e riprese il cammino, con la certezza che nulla era perduto, come per un attimo gli era sembrato, e che la vita poteva tornare a sorridergli.
* * *
08 maggio 1975 ore 3.10
L’auto che percorreva la strada costiera, giunta all’altezza di un vasto belvedere, si fermò. L’uomo la lasciò in sosta nel parcheggio vuoto, senza neanche chiuderla a chiave. Si diresse, lentamente, verso la balaustra di protezione. La terrazza era quasi deserta. Solo un paio di vagabondi, forse ubriachi, dormivano sdraiati sulle panchine, sotto la luce pallida della luna e cullati dal mormorio sommesso del mare. Due gatti attraversarono la piazza e si dileguarono rapidamente nell’oscurità, miagolando. Raggiunta la balaustra, l’uomo vi si appoggiò e fissò il suo sguardo verso un punto lontano, oramai indifferente a tutto ciò che gli stava intorno. La notte era mite, il cielo stellato, il mare calmo, ma lui non si accorgeva di nulla. Il suo animo si era inaridito, la sua vita oramai era niente, un foglio di carta appallottolato e fatto rotolare sulla strada, dove tutti potevano calpestarlo e prenderlo a calci, finché una scopa e una paletta non lo avessero raccattato e gettato nella spazzatura. La sua vita era come un guscio di noce finito nel mare in tempesta, percosso dalla pioggia battente, sferzato dall’impeto dei venti, scagliato verso il cielo dalla furia delle onde e poi scaraventato in basso, verso la profondità degli abissi. Le porte dell’inferno gli si spalancavano davanti ma non gli facevano paura, anzi, le trovava invitanti come quelle del paradiso terrestre. Vedeva la morte orrenda tendergli le braccia scheletriche e le dita ossute e non desiderava altro che abbandonarsi in eterno al suo freddo abbraccio, come un bimbo bisognoso di consolazione a quello della mamma. Ma, per lui, non poteva più esserci consolazione né pace; il peso della vita era diventato insostenibile. Come un automa salì, a fatica, sulla cimosa della balaustra. La brezza della notte gli accarezzava il viso e i capelli. Gli tornarono in mente brandelli di versi di una poesia di Pablo Neruda:
"Posso scrivere i versi più tristi stanotte.
Scrivere, per esempio. ‘La notte è stellata,
e tremano, azzurri, gli astri in lontananza’.
E il vento della notte gira nel cielo e canta.
Posso scrivere i versi più tristi stanotte.
Io l’ho amata e a volte anche lei mi amava.
In notti come questa l’ho tenuta tra le braccia.
L’ho baciata tante volte sotto il cielo infinito.
Lei mi ha amato e a volte anch’io l’amavo.
…
La mia anima non si rassegna d’averla persa.
...
È così breve l’amore e così lungo l’oblio.
...
E siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia,
la mia anima non si rassegna d’averla persa.
Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa,
e questi gli ultimi versi che io le scrivo."
All’improvviso si sentì leggero come mai gli era capitato prima, un albatro, che con un battito d’ali poteva raggiungere l’immensità di quel cielo stellato, dove una gamba zoppa non sarebbe più stato un handicap. Istintivamente chiuse gli occhi, protese le braccia in fuori e spiccò il volo.
Capitolo II - Elisa
Elisa Maiorano aveva due requisiti che la caratterizzavano e la rendevano irresistibile agli occhi degli uomini. Il primo era fin troppo evidente: un corpo da schianto, che madre natura le aveva regalato e che lei, col tempo, aveva imparato a valorizzare ancor di più, indossando abiti attillati che le modellavano i seni prosperosi, i fianchi sinuosi e il fondo schiena procace, e minigonne vertiginose che mettevano in risalto le gambe statuarie, facendola apparire estremamente seducente ma mai volgare. Tutto questo ben di Dio, se mai ce ne fosse stato bisogno, era impreziosito da un’andatura sensuale, in parte spontanea e in parte studiata, che era causa di imbarazzanti incidenti per i maschi di ogni età, e da un sorriso che appariva come un cocktail di ingenuità e malizia, quasi che in quella donna si fondessero, in una stupenda armonia, la natura angelica e quella demoniaca.
L’altro requisito non era altrettanto evidente, seppure ugualmente prorompente. Elisa Maiorano era una donna in credito d’amore e questo bisogno, quasi patologico, affondava le sue radici in un’infanzia triste e sofferta, che lei aveva voluto dimenticare, ma che le aveva lasciato, come un marchio indelebile, quella carenza d’affetto che non riusciva a colmare. Dall’età di sette anni, quando un male incurabile si era portata via la madre, nessuno più le aveva dato amore. Il padre, sempre in giro per affari, non aveva voluto accollarsi la bimba, che sentiva come un fardello che lo vincolava, impedendogli di continuare a vivere come voleva. Dopotutto, era ancora giovane e la vita se la voleva godere! Così l’aveva affidata a un lussuoso collegio e si tacitava la coscienza pagando una retta piuttosto alta. Morta la mamma, non c’era stato più nessuno a consolare Elisa quando piangeva perché aveva paura dei tuoni; anzi, in collegio, veniva severamente punita se, per la paura, si faceva la pipì addosso. Non c’era stato più nessuno a prepararle i panni caldi quando aveva mal d’orecchi o la borsa del ghiaccio da mettere sulla fronte, se aveva la febbre alta. Elisa aveva dovuto imparare a cavarsela da sola in ogni circostanza. A volte il padre non veniva a prenderla nemmeno per le feste di Natale e, tutto sommato, era meglio così, perché nelle rare occasioni in cui l’aveva portata a casa, la sua nuova moglie e i figli di lei l’avevano fatta sentire come un’intrusa venuta a usurpare un posto che non le apparteneva più. Durante le vacanze estive, quando il collegio chiudeva, la ospitava una zia del padre, anziana, arcigna e autoritaria, che l’accoglieva per carità cristiana, ma non le sapeva dare neanche una briciola di quell’affetto che, invece, riversava sui suoi gatti, che le riempivano la casa di peli e di puzzo.
Elisa rimase in collegio fino all’età di diciotto anni. Ne uscì con una maturità scientifica, un carattere deciso e un corpo che si faceva sempre più seducente. Andò a vivere in un appartamento compratole dal padre che, quanto a denaro, non gliene aveva mai fatto mancare, e s’iscrisse alla Facoltà di Matematica. Ben presto si rese conto delle attenzioni particolari che gli uomini le rivolgevano e, siccome non lo conosceva, scambiò più volte per amore il desiderio che gli uomini avevano del suo corpo, rimanendone appagata all’inizio, ma profondamente delusa alla fine, quando si rendeva conto che quello che volevano e le davano non era l’amore che lei cercava.
Elisa era in questa condizione dell’anima quando incontrò Angelo Giaconìa.
Angelo aveva più del doppio degli anni di Elisa e, quando la incontrò per la prima volta, era un uomo precocemente invecchiato, non tanto nel fisico quanto nello spirito. Dalla vita non si aspettava più nulla. Pensava che gli avesse ormai dato tutto quello che doveva, sia nel bene che nel male; per la verità, almeno negli ultimi quindici anni, più nel male.
Aveva ventisette anni Angelo, un posto fresco fresco di insegnante di scienze e una ragazza con la quale voleva formare una famiglia, quando il destino aveva dato una brusca sterzata, in negativo, alla sua esistenza. Era stato allora, per l’appunto, che la sorella Lucia, più giovane di lui di un paio d’anni, s’era ammalata di sclerosi multipla. I medici avevano detto ad Angelo che, in breve, avrebbe avuto bisogno di assistenza continua perché quella era una malattia progressiva e incurabile, destinata, purtroppo, a un esito letale. Angelo sapeva bene che sarebbe toccato a lui prendersi cura della sorella giacché non poteva pretendere che lo facesse la madre che, da tempo, soffriva di importanti disturbi cardiaci. Presto, Angelo si rese conto che la sua vita non sarebbe più stata quella di prima né tantomeno quella che immaginava per il futuro. La sua ragazza gli disse che sì, lo amava, ma c’erano da accudire due persone gravemente malate, e chissà per quanto tempo; insomma, non se la sentiva di sobbarcarsi un peso così gravoso. Lei era ancora così giovane! Angelo non gliene volle, capiva bene che non poteva chiedere a nessuna donna di assumere su di sé, sposandolo, una responsabilità così impegnativa. Si rassegnò a rinunciare all’amore di una donna e si dedicò alla madre e alla sorella sempre più assiduamente, man mano che le loro condizioni di salute peggioravano. Per quindici anni, Angelo trascorse la sua vita tra la scuola e la casa, imponendosi di non pensare a nessuna donna, perfino di non allacciare amicizie, perché ne sarebbero conseguiti impegni cui non avrebbe potuto far fronte.
Poi era finita. Cinque anni prima era morta la mamma e, da un anno, se n’era andata la sorella, lasciandogli dentro un vuoto incolmabile, poiché quella dedizione assoluta a loro era diventata tutta la sua vita.
* * *
Quella sera Angelo era stato invitato a cena dalla cugina Cristina, che si era messa in testa che doveva assolutamente dare una scossa a quell’uomo, tutto sommato ancora giovane e piacente, fargli capire che poteva ancora vivere, sperare di incontrare la donna giusta per lui.
Per questo, Cristina aveva invitato anche la sua amica Elisa, che era una gran bella ragazza, per la quale gli uomini perdevano la testa, e che le aveva confidato che avrebbe volentieri allacciato una relazione con un uomo maturo, dato che le sue esperienze con i giovani l’avevano profondamente delusa.
Angelo aveva accettato l’invito dopo molte insistenze da parte della cugina, poiché, come gli diceva sempre Cristina, era diventato un lupo solitario e non usciva quasi mai, se non per andare a scuola.
Quando Cristina gliela presentò ed Elisa gli regalò uno dei suoi sorrisi irresistibili, Angelo ebbe come una vertigine e si sentì avvampare. Cristina se ne accorse e si congratulò con se stessa. Se ne accorse anche Elisa e fu lusingata e intenerita del fatto che un uomo maturo si potesse emozionare così, per lei.
Dopo un anno e tre mesi da quella sera, Angelo condusse Elisa all’altare. All’inizio, l’uomo ebbe per lei la stessa dedizione assoluta che aveva avuto per la madre e la sorella. Le donava tutto il suo tempo libero, aiutandola anche negli studi; era protettivo, tenero, come solo la mamma, per quanto Elisa potesse ricordare, era stata con lei. La accarezzava continuamente con lo sguardo e quando la toccava, anche nell’intimità, lo faceva come se fosse una cosa preziosa e delicata, che bisognava fare attenzione a non rompere. Elisa sentiva che aveva trovato finalmente ciò che aveva sempre cercato: un amore vero che le sapeva scaldare il cuore. Il suo appagamento raggiunse il culmine quando, dopo essersi laureata, vinse il concorso e venne assunta come insegnante di matematica presso la scuola media statale Enrico Fermi.
Quella svolta ormai insperata aveva conferito ad Angelo nuove energie e lo aveva fatto sentire in grado di affrontare nuove sfide. Così venne preso dalla smania di trovarsi un lavoro più gratificante, specie sotto l’aspetto economico, per assicurare un futuro agiato alla donna che amava e ai loro figli, se ne fossero arrivati. Pertanto, quando un ex collega, che aveva fatto carriera in una nota casa farmaceutica del centro nord, gli propose di lavorare con lui come informatore scientifico, assicurandogli che avrebbe trovato quel lavoro appagante sotto ogni aspetto, Angelo accettò e lasciò l’insegnamento.
Quando Elisa seppe di quella decisione, presa dal marito in piena autonomia, senza neanche parlargliene, senza chiedere la sua opinione, rimase profondamente amareggiata, ma non disse né fece nulla per ostacolare i piani di Angelo.
Ad Angelo quel nuovo lavoro piaceva; gli consentiva di mettere a frutto le sue competenze, di conoscere ogni angolo della sua terra, di stare a contatto con gli altri, di allacciare quelle relazioni sociali che fino ad allora non aveva potuto coltivare. Non considerò che ogni medaglia ha il suo rovescio. Quel lavoro, infatti, lo impegnava sempre di più e lo conduceva sempre più lontano da Elisa, man mano che i suoi responsabili si rendevano conto delle sue attitudini e gli affidavano zone sempre più ampie e distanti. C’erano poi le convocazioni presso la sede centrale della ditta, i congressi, le cene di lavoro. E tra Angelo ed Elisa, inevitabilmente, qualcosa cambiò. Lui era sempre meno presente. È vero, le telefonava più