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Sal e il medaglione del potere: La mappa di Ygorm
Sal e il medaglione del potere: La mappa di Ygorm
Sal e il medaglione del potere: La mappa di Ygorm
E-book499 pagine6 ore

Sal e il medaglione del potere: La mappa di Ygorm

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Info su questo ebook

La perfida signora Figertaum e le sue complici gestiscono un orfanotrofio come luogo di tortura e sfruttamento di piccoli abbandonati. Nessuno viene a conoscenza di ciò che accade entro quelle mura e quindi nessuno riesce a rompere le catene di quella terribile prigione. Finché, all'improvviso, fa capolino dalla porta principale un bambino con degli occhi verdi che incantano. È Sal, un piccolo predestinato, che verrà chiamato a dover combattere duramente contro il malefico Ygorm. Sal e la mappa di Ygorm è un libro che parla di rivincita. Sono molti i luoghi di rieducazione dove persone poco fortunate vengono a trovarsi sole e incapaci di costruirsi un futuro, ma dentro di loro esiste, come in ognuno di noi, la stessa, forse ancor più grande, energia combattiva in grado di farle divenire artefici del proprio destino. Sal, il piccolo protagonista del romanzo, ci insegna che ognuno di noi può essere, a suo modo, più speciale di quanto creda.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2014
ISBN9788867930852
Sal e il medaglione del potere: La mappa di Ygorm

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    Anteprima del libro

    Sal e il medaglione del potere - Sara Pellizzer

    http://creoebook.blogspot.com

    Sara Pellizzer

    SAL E IL MEDAGLIONE

    DEL POTERE

    LA MAPPA DI YGORM

    A tutti coloro che hanno il

    coraggio di provare.

    a chi non si arrende, nonostante le difficoltà.

    a chi decide d’esser l’artefice della propria fortuna.

    a Nano

    a Gaia, colei che più di chiunque ha creduto nel mio sogno

    a J.K. Rowling, un mentore indiscusso del quale è stato complicato NON seguire le orme…

    Provare e riuscire è più facile che convincersi di non esserne capace.

    La vita non è che una serie interminabile di scelte:

    fatte con criterio conducono alla sicurezza,

    fatte con saggezza confermano la certezza,

    fatte con fantasia portano alla conquista.

    Optare per tutte quante…

    conduce alla vittoria!

    S. PELLIZZER

    LA PROFEZIA DEGLI ALBERI OPPOSTI

    Anno 1300 - Reame Superiore

    La guerra tra i due Regni volse al termine con la morte di entrambi i sovrani: Herdon, il buon Re di Sertinada e Sater il malvagio imperatore delle Terre Oscure.

    Una guerra durata troppo a lungo: mille anni erano trascorsi prima che i due Regni potessero trovare la pace e con la morte degli Imperatori si anelava disperatamente a un mutamento di scenario.

    Purtroppo, Sater, il malvagio regnante, possedeva poteri immensi che sacrificò al momento della morte in cambio di una maledizione.

    Sater supplicò Apocal, il Gran Dragone dell’abisso infernale, di maledire l’intero Reame Superiore: un mondo parallelo fantastico e segreto, celato agli esseri umani.

    In cambio donò la sua vita e i suoi poteri al Dragone, per servirlo in eterno; divenendo così, una creatura né morta né viva.

    Apocal accettò l’offerta di Sater e dopo aver ucciso il buon Re Herdon, una massiccia nube nera si allargò a dismisura nel cielo già saturo dai fumi della guerra.

    Tutto si oscurò.

    Lampi rosso fuoco si scagliarono sul colle ricoperto di coraggiosi guerrieri caduti in onore della causa, schiantandosi accanto ai corpi ormai privi di vita dei due condottieri.

    Dalla nube oscura una voce simile al tuono echeggiò nel vuoto:

    Io maledico il Reame Superiore. Mai ci sarà pace fra i due Regni e questa valle non sarà più abitata da alcuno. Porrò un segno e farò sorgere un giovane, potente guerriero che arrecherà dolore e morte fino all’ultimo giorno di questo misero pianeta.

    Pronunciato questo decreto, Apocal ricoprì con terra rossa e sassi scuri il Re Sater, formando per lui un sepolcro; un albero altissimo e nero piantò le sue radici sul tumulo di terra e sassi.

    Il segno di Apocal fu reso evidente come promesso.

    Nuovamente il cielo si squarciò lasciando penetrare un raggio luminoso e pallido come la neve; una figura sfocata e lucente si avvicinò al Dragone e due creature alate, armate di lunghe spade affilate, si pararono tra il Dragone e l’esile figura argentata.

    Il Dragone si allontanò dal bagliore accecante e la figura parlò: Non permetteremo mai che il male trionfi sul bene dichiarò, ricoprendo con un cumulo di terra chiara e pietre bianche il cadavere del re buono, poi vi pose in cima un grande albero dorato i cui rami s’intrecciarono all’istante con quelli dell’albero nero.

    Uno dei rami dorati si trasformò in una spada splendente e si conficcò in un ramo dell’albero nero, il quale a sua volta mutò il suo aspetto in quello di uno scorpione.

    Sorgerà un secondo guerriero, un ragazzo dal cuore puro che distruggerà il male per sempre e riporterà la pace nel mondo. Apocal, il tuo momento è giunto. Ti concedo un’esistenza di altri mille anni: se non cambierai il tuo comportamento e non muterai il tuo cuore, per mano di questo guerriero sarà posta fine anche alla tua esistenza.

    Il Dragone si spaventò notevolmente a causa di quell’avvertimento e andò a rifugiarsi nell’Abisso Infernale in attesa che la sua profezia cominciasse ad avverarsi; aspettando l’occasione giusta per rendere il cuore del futuro guerriero, malvagio e dominato dall’odio.

    Il mondo, ora, aspettava l’adempimento della profezia…

    I GUERRIERI DEL DESTINO

    Guidati da Sal, il loro condottiero, sei ragazzi con doti portentose intraprenderanno un viaggio intricato di pericoli mortali, in cerca di un oggetto essenziale per la salvezza dell’umanità, della Terra stessa e dell’ignoto e segreto Reame Superiore…

    Sal

    In apparenza un ragazzo comune, cresciuto in un orfanotrofio tra infinite sofferenze, conoscerà il suo destino all’età di dodici anni e si dedicherà con cuore puro e colmo di coraggio a intraprendere la nuova strada… Il suo destino… Quello dell’umanità intera…

    Adam

    Cresciuto con Sal, Adam è il suo migliore amico, un ragazzo di dodici anni che nasconde un immenso potere e un compito essenziale.

    Lorel

    Figlia di uno straordinario guerriero, ucciso dai seguaci di Ygorm, Lorel rivelerà le sue capacità di trasformazione e mimetizzazione. Intelligente e caparbia, ad appena dodici anni mostrerà d’essere già una donna.

    Emma

    La più giovane del gruppo. Emma non ha ancora compiuto nove anni quando parte per la sua prima missione. Un carattere autorevole, una personalità macchiata da un dolore immenso e celato; Emma scoprirà pian piano, l’incredibile potere di vedere oltre ciò che è visibile...

    Tederik

    Ha tredici anni. Figlio di uno dei guerrieri più potenti di Sertinada; abile nuotatore e con notevoli capacità mentali, condurrà il gruppo per strade sicure.

    Liuis

    Misterioso e polemico, ma resistente e intelligente. Undici anni, un passato oscuro, un futuro celato.

    Dasty

    Undici anni di passione per il cibo. Perennemente affamato e dotato di un’intelligenza che si fa spazio faticosamente tra la timidezza e l’introversione.

    Capitolo 1

    CASA FIGERTAUM

    Passarono giorni, mesi e ancora anni, dalla dichiarazione di quella profezia.

    Una collina desolata ospitava i due Alberi Opposti e nessun’altra pianta cresceva nelle immediate vicinanze.

    La collina del bene e del male fu presto dimenticata e le profezie finirono per perdersi nella notte dei tempi.

    La vita procedeva, anche se faticosamente, e benché nessuno potesse vivere in prossimità di quel luogo infausto, il resto del mondo aveva ripreso le sue normali attività.

    Il male si nascondeva attendendo paziente di rivendicare il suo potere.

    Ciò nonostante, la sua influenza si faceva sentire: un alito di vento che si sollevava minaccioso in ogni angolo del pianeta.

    Erano ormai trascorsi più di seicento anni.

    Il vento del male cominciava a soffiare prepotente; le tenebre continuavano a dilagare…

    Ma la nostra storia comincia parecchio distante da quei luoghi infausti, in un fatiscente collegio francese, ove la vita scorre monotona e inesorabile…

    Francia 12 Febbraio 1989

    Avanti! Chi è il primo? Gregory muoviti, o faremo una figuraccia!

    La Signora Figertaum non lasciava tempo a dubbie interpretazioni: quando sbraitava un comando, quello doveva essere eseguito con massima celerità, pena la reclusione nella stanza del buio.

    Era una gelida mattina scura e uggiosa del mese di Febbraio.

    Una zona della Francia in cui procrastinava un intenso freddo tardivo.

    Il camino, piccolo e liso, al centro della sala di presentazione, fremeva incessante nell’intento di compiere il suo dovere, altamente limitato dalla scarsa quantità di legna presente al suo interno.

    Fuori, la pioggia scendeva sottile come capelli d’angelo, scivolando lungo le vetrate imbrattate di polvere e terra. La neve perdurava in uno strato sottile che ricopriva l’esile erba, ma poco a poco andava sciogliendosi.

    I ragazzi, appollaiati al passamano d’ottone della rampa di scale, un piano sopra, si sporgevano attendendo impazienti l’arrivo dei loro compagni alla sala principale. Uno per uno sfilavano avanti e indietro in una triste processione che terminava saltuariamente nella medesima conclusione: la perdita di uno del gruppo.

    Il più piccolo, un ragazzino dai capelli castani di nome Omar, arrischiava invano di arrampicarsi alla sinuosa colonna di marmo a sostegno del passamano, ma riuscire a raggiungere un’altezza adeguata a curiosare oltre il corridoio era impossibile per lui; sconsolato, si affidava ai compagni più grandicelli:

    Ehi Tom, che cosa fanno?

    Non rompere nanetto! Ancora non lo sappiamo!

    Mh, se Gregory è già uscito, secondo me… Scelgono Pascal stavolta proclamò Thomas, voltandosi verso un compagno che giocava con una trottola di legno, facendola scivolare oltre le colonne di marmo, giù per le scale.

    Pascal era il più alto di tutti, benché non fosse il più grande, e scoccava immancabilmente una risposta fulminea e intelligente a ogni quesito. Inaspettatamente, quando toccava a lui presentarsi a colloquio con la Signora Figertaum, diventava più scemo di un bradipo.

    Certo, certo. Grazie! si udì una voce esagitata provenire dalla Sala di Presentazione.

    La porta si spalancò cigolando.

    Nell’atrio si sprigionò il delicato profumo di rose bianche poste in un appariscente vaso all’ingresso della Sala di Presentazione.

    Pascal uscì impettito e soddisfatto incamminandosi lungo il corridoio che conduceva alla sala principale, illuminato da vetusti candelabri drappeggiati da spesse ragnatele. Il viso raggiante; i pugni stretti nelle tasche come a nascondere un segreto gelosamente custodito. Alzò lo sguardo sulla scalinata, dove i suoi compagni si ammucchiavano quasi a cadere, e fece loro segno di vittoria.

    Grande! Sapevo che ce l’avrebbe fatta! esultò Thomas, ricambiando il gesto trionfante.

    Già, sembra tu abbia ragione… Bofonchiò Simon, un ragazzo magrolino dai rossi capelli riccioluti, che gli stava alle spalle.

    Certo di essere uscito dalla linea d’osservazione dei visitatori e della Signora Figertaum, Pascal corse su per le scale. Raggiunse gli altri e li oltrepassò, facendo loro segno di seguirlo.

    I compagni non si fecero pregare, e in un istante lo raggiunsero nella scura cameretta in fondo al corridoio: una stanza dalle pareti ghiacciate e ricoperte per buona parte di muffa verde striata di un preoccupante grigio peloso. Il pavimento polveroso era un ammasso informe di preistorici blocchi di pietra levigata. Sul basso soffitto si allungava da parte a parte una fitta rete di ragnatele colma di ospiti sgraditi, illuminate da una fievole luce che trapassava faticosamente luride finestre ad arco munite di grate di ferro arrugginito, tra le quali diversi animali di dubbia origine avevano stabilito le loro dimore. Circa quaranta brandine a castello, sudice e prive per la maggior parte di coperte, si alternavano lungo la stanza, stipandola come semi di grano all’interno di una bottiglia ricolma e sigillata.

    Pascal si lasciò cadere esausto sulla sua branda.

    Dai, racconta! Che ti hanno chiesto?

    Sì, dai… Sono simpatici? Lei è carina?

    Una marea di domande sommerse, in men che non si dica, il piccolo Pascal, che a fatica riuscì a dare a tutti una risposta soddisfacente nel breve tempo che gli rimase.

    Pesanti passi echeggiarono in corridoio, rammentandogli il motivo principale per il quale era salito in dormitorio.

    Agguantò rapidamente la sacca che nascondeva sotto il letto, e v’infilò dentro, alla rinfusa, i suoi miseri possedimenti: vestiti consumati dal tempo, la collezione di sassi, e un vecchio e malandato flauto afono.

    Signor Stevengard, è pronto?

    Cadde un silenzio gravido d’agitazione.

    Un acre odore di menta mescolato a tabacco, precedette l’entrata in scena di una corporatura quasi disumana per colore e fattezze. L’intimidatoria e possente figura della Signora Figertaum si stagliava sulla porta della camera come un grosso rapace all’ingresso di una minuscola fenditura; un’ombra d’irritazione e sdegno le disegnava il volto.

    I ragazzi si fecero da parte, osservando la scena ammutoliti.

    La figura austera della loro aguzzina più crudele incuteva parecchia soggezione: una sagoma alta e robusta, vestita notte e giorno di abiti consunti e dai tetri colori. Uno scialle marrone, scialbo e scolorito, adagiato sulle larghe spalle irsute e un frustino di crine di cavallo nella mano destra, quasi fosse un prolungamento della mano stessa: non se ne separava mai. Il viso, tondo come un pallone da calcio, sosteneva a fatica un paio di minuti occhiali chiaramente troppo stretti per la testona voluminosa; le guance, rosse e appiccicaticce, incorniciavano la fronte perennemente imperlata di sudore, e una patina di unto le ricopriva i capelli. Gli occhi grigi e spenti le donavano uno sguardo di ghiaccio in tutto simile ai suoi modi, e i ricci capelli neri striati di grigio, lunghi fino alle spalle, erano bloccati ai lati da minute forcine di metallo arrugginito.

    Nessuno concepiva perché, benché fosse incessantemente ricoperta di gioielli sfavillanti di pregiata manifattura, non levasse mai quelle orrende forcine e non indossasse abiti adatti al resto delle chincaglierie che ostentava vistosamente.

    Pascal era pronto a partire.

    Alcuni compagni piangevano, mentre altri indugiavano lo sguardo oltre le finestre, contemplando la neve che andava sciogliendosi, pur di non mostrare la propria sofferenza: un segno di debolezza che in quell’ambiente andava abilmente celato.

    Sì, signora. Tutto apposto!

    Bene! Allora mi segua, prego.

    La corpulenta figura s’incamminò lungo il corridoio e Pascal ne approfittò per voltarsi rapidissimo; cocenti lacrime soffocate gli rigarono le guance accaldate.

    Ok, allora, ecco... be’… addio ragazzi. Buona fortuna… Balbettò infine, salutando con il suo caratteristico segno di vittoria.

    I più piccoli, Gian e Andrè, gli si aggrapparono alle caviglie piagnucolando frasi incomprensibili; i più grandi, invece, lo salutarono con un rapido abbraccio o una seria stretta di mano.

    Il buio calò rapidamente quella sera; rintanati nelle fredde brande, i bambini di Casa Figertaum riflettevano sulla nuova strada che si apriva davanti a Pascal, e su quello che avrebbero dovuto affrontare loro nel frattempo.

    Trascorsero molti giorni da quel triste, e allo stesso tempo lieto, evento.

    Molte stagioni si susseguirono.

    Era nuovamente autunno.

    Il sole sbucava debolmente oltre le nuvole gonfie e cariche della pioggia stagionale; le foglie danzavano nel cielo rosato, roteando giocose e mostrandosi ai fiochi raggi solari in tutte le loro sfumature. L’aria fresca accarezzava i ruscelli smuovendo la superficie liscia dell’acqua limpida e cristallina. Il prato della proprietà si spegneva lentamente; i ragazzi si fermavano di frequente a osservarlo, fantasticando su cose grandiose e mai viste, o più semplicemente sulla prossima uscita, come faceva spesso Simon.

    Simon adorava starsene sdraiato per ore a godersi il sole. Che fosse autunno, estate o il timido sole d’inverno, a lui bastava il sole così com’era, anche perché da quelle parti sbucava di rado.

    Si guardava attorno, individuava il punto più morbido, dove cataste di foglie giacevano sparse o l’erba era più alta e incolta e vi si lanciava sopra con tutto il suo impeto. Si girava e rigirava, trasferiva alcune foglie con le mani, annusava la terra, e una volta soddisfatto si stendeva pacifico. Ricordava un cucciolo di cane intento a prepararsi il suo soffice giaciglio.

    Quel giorno, però, nessuno sarebbe uscito, ed era trascorso tantissimo tempo dall’ultima occasione in cui qualcuno aveva varcato la soglia del collegio per dirigersi in giardino.

    Non ne posso più! Voglio uscire! si lagnò Simon, esausto, lanciando occhiate sofferenti al sole che riluceva oltre le vetrate impolverate.

    Dai Simon, non ti lamentare. Lo sai che non è possibile… Da quel giorno sussurrò debolmente Thomas.

    I due compagni tacquero all’unisono alla voce della signora Tisenbarch che li richiamava al lavoro. Chini sul tavolo, intenti in una faticosa attività, non si rendevano conto, che di lì a breve, avrebbero fatto parte di una storia straordinaria…

    Tira meglio quello spago, Gregory! Non vedi cosa stai combinando? sibilò la signora Tisenbarch, accostando il naso adunco al viso del malcapitato.

    A quel rimprovero, Gregory, esasperato, rovesciò la scatola di fili colorati posata sul banco.

    Si voltò contemplando terrorizzato il disastro di fili che ruzzolava e si aggrovigliava sul lucido pavimento della sartoria, e urtò con il braccio il banco del compagno accanto. Una serie d’oggetti minuti si susseguì a terra, come una pila di carte appena messe in fila una dietro l’altra e sospinte da una folata di vento.

    Moccioso impertinente, guarda cosa hai fatto! Stasera rimarrai senza cena! E raccogli subito quel disastro! tuonò la signora Tisenbarch, aggiungendo ulteriore agitazione nel bambino, che a quel punto, nella fretta di recuperare tutto ciò che giaceva o rotolava sul pavimento, rovinò a terra, ferendosi una mano su una serie d’aghi infilati a caso in piccoli rotolini di filo.

    Simon fece per aiutare Gregory ma la signora Tisenbarch glielo impedì, minacciando di fargli saltare la cena come il suo compagno se avesse provato a fare anche un solo movimento.

    La vita a Casa Figertaum era sempre, tristemente, la stessa: tutti i giorni sveglia alle cinque; un tozzo di pane secco per colazione e via al lavoro.

    In quella scuola fittizia, i ragazzi non imparavano, non studiavano né facevano i compiti, bensì, erano costretti a produrre con le loro mani stoffe, tende e vesti per ricchi imprenditori del luogo o di città limitrofe.

    In realtà, ovviamente, nessuno all’esterno dell’orfanotrofio aveva la benché minima idea di quel che avveniva tra le sue possenti mura. Quello che si sapeva, era che delle gentili signore, prive di compenso alcuno, dedicavano anima e corpo all’istruzione e al sostentamento di piccoli fanciulli sfortunati, abbandonati dal mondo. La degna ricompensa per i loro sforzi, consisteva in cospicue donazioni della popolazione locale, la stessa che non sospettava minimamente che quel denaro non fosse utilizzato per la cura dei piccoli, ma piuttosto per gli innumerevoli sfizi delle loro aguzzine.

    Per rimpolpare gli introiti, le arpie vecchiette adottavano un ulteriore stratagemma, altrettanto redditizio.

    Nobili Signori della zona commissionavano loro la creazione di sfarzosi abiti di seta e velluto pregiato, conoscendo la rinomata abilità di sarte che le contraddistingueva. Le gentili signore però, ben capaci di compiere quel lavoro con le proprie mani, si erano ingegnate per trovare un metodo meno faticoso per ottenere il medesimo risultato: commissionare il lavoro a terzi.

    Purtroppo quei terzi, erano i bambini di Casa Figertaum.

    Questi ultimi erano costretti a lavorare per quattordici, quindici ore il giorno. Una sola, breve pausa, verso le tredici del pomeriggio, per ingurgitare la consueta, molliccia patata bollita e dissetarsi con dell’acqua di uno strano e poco rassicurante color giallognolo, e poi via, di nuovo al lavoro. Verso le otto di sera l’attività si fermava, e i bambini raggiungevano i dormitori. Stremati e affamati, si stendevano sulle brande sovente ancora del tutto o parzialmente vestiti e cadevano in un sonno profondissimo.

    Fino a qualche tempo prima, una volta la settimana era loro concessa l’uscita in giardino, per ben due volte nella medesima giornata. Ogni domenica, nell’orario preciso in cui i cittadini entravano o uscivano dalla funzione della messa mattutina e pomeridiana, i bambini si ritrovavano casualmente sul giardino, dinanzi all’ingresso principale del collegio. Giocavano a palla o a nascondino, strettamente sorvegliati dalle insegnanti che non li perdevano mai di vista e non permettevano ad alcuno di loro di avvicinarsi troppo ai cancelli.

    Richard sosteneva con intrepidezza di aver afferrato pienamente il motivo per cui erano loro concesse quelle uscite straordinarie e del perché, solo in quelle giornate, erano lavati e tirati a lucido, ma aveva riferito tale illuminante intuizione solo ai compagni più grandi, che condividevano appieno le sue deduzioni. In effetti, il piccolo e intelligente Richard ci aveva davvero visto giusto supponendo che, le vecchie megere, come le etichettava lui, li facessero uscire solo per conquistare i complimenti della popolazione e affinché non si notasse in maniera eccessiva la loro assenza dai giardini che tanto erano curati e ricolmi di giocattoli, grazie ai generosissimi contributi della cittadinanza.

    Era stato installato un piccolo parco giochi al centro del giardino, dono di un noto imprenditore della zona che ogni tanto passeggiava davanti al collegio sfoggiando bellissimi abiti di seta, sfarzosamente ricamati…

    La domenica, quindi, per i bambini di Casa Figertaum, era una bellissima giornata e loro la sfruttavano appieno anche se stremati dall’estenuante settimana di lavoro.

    A tutti loro, soprattutto ai più piccini, era stato imposto il silenzio assoluto su quello che facevano al collegio. Le punizioni assicurate in caso di disubbidienza erano terrificanti e nessuno di loro si sognava di proferire parola con alcuno al riguardo. I più piccoli erano a dir poco terrorizzati dalle insegnanti, e i più grandi, intuendo che il lavoro cui erano costretti non doveva essere poi tanto corretto, parlavano di certe cose esclusivamente tra loro.

    Nessuno mai si sarebbe ribellato.

    Erano perfettamente consci che se avessero provato a fare i furbi, sarebbero stati i più piccini a pagarne le conseguenze.

    Nessuno avrebbe tentato la fuga o sarebbe stata la fine.

    Nessuno avrebbe parlato… Nessuno tranne Gim, il piccolo dolce Gim, che quel fatidico giorno di qualche mese prima…

    Devo farlo. Devo provarci almeno! insisté con ostinazione Gim, scrutando fuori della finestra le foglie degli alberi mosse dal vento.

    Ma Gim, dico, sei impazzito? Lo sai che ti fanno se ti prendono? Come minimo finisci nella stanza del buio per un mese! lo redarguì Simon, basito e allarmato.

    Lo so, Simon, ma io non posso stare ancora qui. Hai visto quello che è successo a Tom oggi? Guardalo! Gim indicò il letto in fondo alla stanza, dove una sagoma scura si contorceva dal dolore. Thomas era stato picchiato di brutto dalla custode del collegio che lo aveva pescato a sottrarre un pezzo di pane da uno dei bidoni della spazzatura in cucina.

    Lo so, ma… cominciò timidamente Simon.

    Ho deciso! Né tu né nessun altro mi fermerà. È per stanotte! replicò Gim con fermezza.

    Quella stessa notte Gim non si addormentò. Restò immobile quando la signora Cloudette passò in rassegna le camere per assicurarsi che tutti fossero nei propri letti. Una volta accertato il ritiro delle insegnanti alle loro camere, sgattaiolò fuori dalla piccola, misera coperta bucherellata e si acciambellò per un momento sul bordo del letto. Era completamente vestito: indossava l’abito della domenica e le scarpe buone. Lo zaino, ricavato da due vecchi sacchi di patate rubati dalla cucina, era pronto, celato dall’ombra del letto.

    Gim, non lo fare… Ti prego lo implorò Simon, che per fargli la guardia e impedirgli di compiere pazzie, non si era più addormentato.

    Ma Gim non voleva sentire ragioni.

    Si alzò, prese il suo zaino e c’infilò dentro la coperta malconcia. Salutò l’amico e qualche altro compagno che ancora non dormiva e s’incammino lungo la stanza con passo felpato, cercando tentoni di seguire il percorso che lo avrebbe condotto alla porta. Gli occhi di coloro che si erano accorti di lui, lo seguirono alla cieca, in totale silenzio. Tutti tifavano per Gim, ma allo stesso tempo erano atterriti dall’idea di quello che gli sarebbe potuto accadere se lo avessero scoperto.

    Gim riuscì a raggiungere la porta, la aprì con cautela e s’incamminò silenziosamente lungo il corridoio, restando a contatto con l’umida parete alla sua destra. Raggiunse le scale che conducevano al piano inferiore, e intraprese la discesa.

    Il cuore martellava come mai sotto la maglietta leggera; brividi gli correvano lungo il corpo, si sentiva colare il sudore dalla fronte, ma era deciso a non fermarsi, anche se avesse dovuto cominciare a correre per fuggire da quel luogo di disperazione. Raggiunse l’ingresso, ma non cercò di aprire il portone principale sigillato da diversi lucchetti e chiavistelli, bensì proseguì nella direzione opposta, passando sotto le scale dalle quali era appena disceso, dirigendosi verso le cucine. La porta che conduceva alla sala da pranzo degli insegnanti non era mai chiusa e quella che separava la sala dalle cucine era divelta da tempo immemore.

    Tutti i ragazzi lo sapevano.

    Più volte avevano fatto la ronda lì davanti per riuscire ad arrivare alle cucine e appropriarsi di qualcosa da mangiare. Solo passando di lì, si erano pienamente resi conto dello sfarzo che le insegnanti si concedevano.

    Se ai ragazzi era riservato il peggio del peggio, certo lo stesso trattamento non era offerto alle Signore di Casa Figertaum.

    Un giorno di qualche mese prima, infatti, Tom e Simon si erano lanciati all’avventura verso la cucina proibita, facendosi scudo del panciuto cuoco che trasportava svariate portate di cibo prelibato alla tavola delle insegnanti. La sala da pranzo risultò un lusso sfrenato, notevolmente differente dal resto della struttura dedicata agli studenti. Un lampadario di cristallo piuttosto voluminoso pendeva dal soffitto, proprio al centro della stanza, e su tutte le pareti, a distanza di poco meno di un metro l’uno dall’altro, candelabri d’oro a tre braccia si ergevano maestosi; le candele d’argento incessantemente accese per rendere l’ambiente nobile ed elegante. Colonne di marmo bianco rigato di grigio si alternavano sul perimetro della stanza, a basse credenze in mogano, finemente lavorate e stipate di delicatissima porcellana pregiata. I vetri lucidi e splendenti permettevano di rimirarne il prezioso contenuto.

    La tavolata in massiccio legno scuro si allungava per almeno dieci metri, ricoprendo gran parte del pavimento. Ogni singolo centimetro del piano del tavolo era decorato da ornamenti in rilievo raffiguranti motivi floreali. Alle pareti erano appesi numerosi quadri antichi dalle cornici d’oro lavorato che si alternavano metodicamente ai candelabri. In fondo alla stanza, una porta di legno scuro, semplice e priva di decorazioni, stonava completamente con il resto dell’arredamento, pendendo sui cardini rovinati dal tempo.

    Quel giorno, mentre camerieri e cuochi procedevano su e giù per la stanza, Tom e Simon, si erano ritrovati scomodamente rincantucciati e intrappolati sotto la lunga tavolata, che per loro fortuna era ricoperta da una tovaglia di lino che giungeva quasi fino a terra, impedendo a tutto il personale di scorgerli.

    Intrappolati lì sotto, appollaiati sull’umido e freddo pavimento, attendevano il momento buono per sgattaiolare fuori e arraffare qualcosa.

    Quello che videro transitare per quella sala, li lasciò esterrefatti.

    Adagiato su imponenti vassoi d’argento e ampi piatti di porcellana, vi era ogni tipo di prelibatezza. Enormi tacchini succulenti, fumanti e ricoperti di erbette; piatti di verdure multicolori e formaggi profumati e rari; prosciutto tagliato a fette quasi trasparenti e pasta condita con sughi prelibati. Patate al forno grosse come palline da tennis erano ricoperte di una cremosa e invitante salsa densa. Frutta fresca e prelibata splendeva invitante su vassoi argentati. Panini morbidi e caldi appena sfornati erano riposti con cura su ciotole di porcellana decorate da motivi blu scuro.

    Un profumo intenso e masticabile si spargeva in grosse nuvole di vapore per la stanza.

    Quando Tom e Simon riuscirono a tornare alle camere con il bottino accumulato, raccontarono ogni cosa ai compagni, che rimasero inebetiti e indecisi per parecchi minuti: non sapevano se fosse il caso di odiare ancora di più le arpie, vecchie megere, o se reprimere l’acquolina che si stava accumulando nella loro bocca, sognando tutto quel cibo succulento.

    Gim giunse fino alle cucine.

    Camminò sfiorando pericolosamente un numero imprecisato di piatti e pentole di rame e scovò un pezzo di pane scivolato a terra, che raccolse e infilò in tasca. Si spinse fino alla porta che dava sul retro, prese lo zaino e lo depose nella piccola feritoia dedicata alle fughe del gatto della signora Figertaum, che da qualche tempo era stata allargata per farvi passare delle scatole di dubbia provenienza che giungevano alle cucine al calar della sera.

    Per un momento gli venne in mente un bizzarro episodio.

    Rammentava con dovizia di particolari quello che era accaduto l’ultima volta che era stato loro ordinato di fare il bagno al gatto di casa: Nerone, così ribattezzato da Tom.

    Simon si era organizzato con tuta protettiva e armi da guerra improvvisate.

    Quel giorno faceva caldo. L’aria fresca della primavera appena trascorsa lasciava una lieve scia di ricordi. Il sole si sforzava di rendere l’impresa, se possibile, anche più difficile del previsto.

    La signora Figertaum era entrata in sartoria e aveva annunciato il doveroso compito alla classe.

    Forza pidocchiosi! Oggi è il giorno di Noisette. Vediamo a chi tocca fargli il bagno questa volta la donna si aggirò tra i banchi con aria imperiosa, fissando intensamente i ragazzini, uno per volta.

    Dal canto loro, i piccoli tenevano gli occhi bassi, incollati al pavimento, per evitare di incrociare lo sguardo indagatore della terribile aguzzina.

    Dunque, l’ambito compito sarà oggi svolto da… Gim, Simon, e Thomas sentenziò, dopo quelli che sembrarono interminabili attimi di attesa.

    I tre ragazzi si lanciarono occhiate disperate.

    Gim aveva la nausea e Simon rintracciava in giro cerotti e disinfettante.

    Il gatto Noisette, maschio nonostante il nome (anche se, in effetti, molti mettevano in dubbio che fosse veramente maschio) non era proprio definibile un micino docile e coccoloso. Era piuttosto un felino feroce, soprattutto se si trattava di fare il bagno. Un lavaggio per il felino implicava un ricovero in infermeria per chiunque avesse partecipato alla pulitura.

    Ma Simon si era preparato.

    Scovando in biblioteca alcuni libri che trattavano l’argomento Gatti e il modo migliore per far loro il bagno, si presentò all’appuntamento armato da capo a piedi.

    La bacinella dall’acqua era pronta in giardino. Il sole cocente avrebbe permesso almeno di evitare una lunga asciugatura a mano del pelo. I ragazzi si erano preparati secondo le disposizioni date da Simon. Lui, in piedi di fronte alla tinozza, leggeva le istruzioni per l’uso, dal libro Animali selvatici che teneva fra le mani.

    Allora, la prima cosa da fare se si vuole lavare un gatto è… cominciò Simon.

    …Cambiare idea e darsela subito a gambe… lo interruppe Tom.

    …Vestirsi adeguatamente… proseguì Simon.

    Indossare un abbigliamento adatto, che permetta di muoversi al meglio ed evitare i graffi del micino.

    Siii… Micino! Come no… Fece eco Gim.

    Questo primo passo lo avevano già fatto, anche se l’interpretazione di Simon si era adattata al tipo di gatto in questione. Per andare sul sicuro, infatti, oltre a essere ricoperti da almeno tre strati di magliette a manica lunga e due paia di pantaloni invernali, gentilmente donati da altri compagni - che se ne stavano a debita distanza nascosti dietro agli alberi ad assistere spaventati alla scena -, Simon aveva confezionato per ciascuno di loro una specie di armatura da guerra. Con delle pentole sottratte alla cucina, aveva creato speciali elmetti, legati al collo con lo spago che si usava per chiudere i sacchi delle patate. Imbottiti guanti da cucina decisamente voluminosi e fuori misura erano stretti ai polsi con lo stesso tipo di spago e Thomas, su indicazione di Simon, aveva costruito parastinchi e pettorali, ricavati dalla corteccia di alcuni (ormai nudi) tronchi d’albero.

    Più che a lavare un gatto sembravano diretti in trincea.

    Il secondo passo consiste nel riuscire a convincere il gatto in questione a entrare nella vasca… Lesse ancora Simon.

    Per riuscire in questo intento, i ragazzi avevano teso un agguato al felino, proprio appena fuori dalla porticina della cucina, adescandolo con un filo legato a un sasso. Simon gli era quindi sbucato alle spalle e l’aveva afferrato saldamente infilandolo dentro una federa. L’animale si era talmente infuriato che per trasportarlo avevano ritenuto opportuno legare a un’estremità della federa uno spago e trascinarlo a terra. Le unghie del felino sbucavano da ogni lato del tessuto, fendendo l’aria in cerca di prede e piantandosi come un aratro sul terreno per lasciarsi dietro lunghi e profondi solchi.

    In quel momento si trovava saldamente incatenato a un albero, furente e urlante, strappava voluminosi pezzi di corteccia come si fosse trattato di morbido burro.

    Dunque, chi lo tira fuori? chiese evasivo Simon, deglutendo spaventato, mentre la bestia feroce si dimenava e continuava a sradicare brandelli d’albero pur trovandosi all’interno della federa.

    Fallo tu Thomas! Ti lasciamo volentieri questo grande onore… lo incitò Gim tremante.

    Non ci penso nemmeno! sbottò Thomas allontanandosi di qualche metro dal tessuto scalpitante.

    Va bene, va bene, lo faccio io… si offrì coraggiosamente Simon, avvicinandosi cauto alla stoffa miagolante. Prese un cuscino e lo spiaccicò sopra la federa; il gatto vi si avvinghiò in un nanosecondo, divenendo tutt’uno con il cuscino. Infilò una mano tremante all’interno della federa e afferrò la bestia selvaggia per il collo; quello si agitò come un pazzo e tentò di agguantare la mano ben protetta di Simon. Riuscirono a infilare il gatto nella tinozza solo dopo numerosi tentativi di fuga da parte di quest’ultimo ed esclusivamente tenendolo pigiato tutti e tre insieme.

    Allora, qui dice che abbiamo pochi secondi di tempo per insaponarlo, tra un tentativo di fuga e l’altro. Diamoci dentro! riassunse velocemente Simon, tenendo la creatura con la testa spiaccicata su un lato della tinozza e il corpo pressato all’interno.

    I tre si misero a insaponare l’animale, il quale, ogni volta che poteva cercava di lanciarsi verso uno di loro per ferirlo mortalmente. Finalmente riuscirono a sciacquarlo e lo tirarono fuori dalla vasca, ma nel fare questo, il gatto si divincolò dalla stretta di Tom, graffiandolo. Il micio assatanato si avvinghiò quindi alla gamba (fortunatamente ricoperta di vari strati di vesti e corteccia) di Gim, che invano tentò di divincolarsi dalla presa. Riuscire ad asciugarlo non fu poi un’impresa così complicata; in effetti, il felino furibondo e umidiccio fu alquanto risoluto a non staccarsi dalla gamba di Gim, e lì vi restò per quasi due ore intere, fissando il malcapitato con sguardo omicida.

    Gim pregava disperato che il felino furioso non anelasse a un suo arto o alla vita di qualcuno dei suoi compagni come vendetta per il torto subito. Nessun tentativo di rimozione funzionò con il subdolo micino: la gamba di Gim sembrava essere divenuta la sua nuova dimora. Decise di staccarsi solo quando la fame divenne più forte della sete di vendetta, ma non si arrese. Nei giorni successivi fu visto aggirarsi furtivo ovunque ci fossero Gim, Simon e Thomas. Li osservava all’ombra delle colonne o celato dagli alberi, seminascosto dietro qualche angolo ombroso, con sguardo oscuro e feroce iniettato di rabbia.

    Per sicurezza, i tre ragazzi non furono mai lasciati soli, e l’animale, resosi conto della sua evidente inferiorità numerica per sferrare un attacco, smise di pedinarli.

    Da quel giorno, le tecniche per lavare un gatto poco domestico, descritte nel libro trovato in biblioteca, furono sostituite dal nuovo trattato, riveduto e molto più accurato, presentato

    dall’eminente esperto di gattologia Dott. Simon.

    Gim sorrise ricordando quella giornata.

    Era un ragazzino di piccola statura, piuttosto minuto per la sua età.

    I rossi capelli ricci gli arrivavano quasi fino alle spalle e i brillanti occhi azzurri rendevano ancor più delicati i suoi lineamenti. Il viso pallido ed emaciato pareva non aver visto la luce del sole da diversi anni. L’esile corpicino non fece eccessiva fatica a passare per la puzzolente feritoia di Nerone, e Gim uscì dalla cucina, ritrovandosi con le mani appoggiate sull’umida erba bagnata dalla rugiada della sera.

    L’aria fresca inebriava i sensi; il profumo degli alberi riempiva il palato.

    Ormai era fuori, mancava pochissimo alle sbarre che separavano i suoi dolori dalla tanto agognata libertà.

    Era vicinissimo, già ne pregustava il dolce sapore, quando alla sua sinistra sentì il rumore di foglie calpestate.

    Sì voltò di scatto.

    SBAM!

    Intorno, tutto divenne buio, freddo… Umido…

    Tra brividi e dolorose fitte agli arti e alla testa, Gim sì risvegliò su un gelido e umido pavimento, immerso in un buio silenzio. Frugò alla cieca, tastando il pavimento ma il suo zaino e la giacca erano scomparsi. Si raddrizzò, mettendosi a sedere faticosamente, lottando contro il dolore tremendo che gli pulsava in testa come un martello pneumatico; moscerini lucenti baluginavano davanti agli occhi ogni volta che li chiudeva; aveva la nausea e ogni cosa vorticava senza sosta.

    Non riusciva a vedere un granché, se non una debole, fioca luce, che filtrava da una piccola apertura posta in alto sulla parete frontale.

    Un intenso fetore di urina ed escrementi animali si alzava dalla pietra fredda.

    Non è un bel posto dove soggiornare, pensò.

    Poi, l’intuizione.

    Sapeva, dove si

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