Testa di morto
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Info su questo ebook
Quattro racconti venati di nero, a tratti dark, a volte decisamente horror.
Quattro racconti da leggere.
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Anteprima del libro
Testa di morto - Giuseppe Agnoletti
Morto.
Nautai
Nautai
Siracusa 415 a.C., diciottesimo anno della guerra del Peloponneso.
Le sentinelle ci chiamavano cavalli per via di quel marchio sulla fronte, la K
rovesciata, che avevano impresso a fuoco nella nostra carne.
Eravamo tutto quello che rimaneva dell’orgoglioso esercito salpato due anni prima alla volta di Siracusa. Seimilaottocento ateniesi, argivi e alleati liberi, stipati adesso nelle cave di pietra calcarea, delimitate da una fenditura, l’infausta Spelaion, la caverna che spacca la scogliera, immediatamente fuori della città di Siracusa e ai confini col quartiere di Temenite.
Udivo Seirte urlare. Le grida provenivano dalla parte occidentale della cava. I guardiani lo stavano tirando su con una corda legata ai piedi, la testa stretta fra i gomiti per proteggersi dall’urto contro le rocce del dirupo. Una volta arrivato in cima il suo destino sarebbe stato segnato. Seirte ne era perfettamente consapevole, e per questo urlava.
La prima cosa che i siracusani avevano fatto era stata quella di eliminare tutti gli ufficiali. Quando ne individuavano uno lo portavano in cima alla cava, dove veniva sottoposto a indicibili sevizie anche per uno o due giorni di seguito. Sotto tortura gli ufficiali erano costretti a rivelare altri nomi, uomini che a loro volta subivano il medesimo destino. Seirte era un polemarco, un comandante di reggimento, l’ultimo ufficiale rimasto. Tale caratteristica gli garantiva una morte lunga e dolorosa, perché i nostri aguzzini non gli avrebbero mai creduto. Poi, una volta finito il lavoro sporco, avrebbero gettato il suo corpo giù, fra di noi. E chiunque avesse tentato di dargli sepoltura sarebbe stato bersaglio di frecce e giavellotti, oppure lapidato.
Le cave erano un inferno peggiore del pozzo dei morti ad Atene, il Barathron, dove venivano gettati i criminali. Erano come un Tartaro, un abisso oscuro sotto l’Ade, il luogo dove Zeus imprigionò i titani.
Guardai Medoco. Stava mangiando il pastone crudo accompagnato da una mezza tazza d’acqua, il cibo che costituiva la razione giornaliera. Aveva appena gettato via un pezzo di sterco, d'altronde i carcerieri urinavano regolarmente nei nostri recipienti. Tremava di rabbia e di paura, così mi avvicinai a lui.
— Non torneremo più a casa. Dopo gli ufficiali, cominceranno con noi, nessuno vedrà più le luci del Pireo — disse accompagnando le parole con uno sguardo vacuo e atterrito.
Io e Medoco eravamo gli ultimi sopravvissuti dei duecento uomini della Atropo, la trieres sulla quale prestavamo servizio. Lui un semplice nautai, un marinaio, mentre io appartenevo all’élite rappresentata dai fanti di marina corazzati.
Prima della spedizione in Sicilia ero stato un oplita e non avevo mai combattuto in mare. Le tecniche impiegate sull’acqua mi erano del tutto nuove: il due e uno, le concentriche, il diekplous, sfondamento, o il periplous, passo avanti. Non avevo mai lanciato un giavellotto stando inginocchiato, né ero corso in avanti lungo il ponte di una trireme in modo tale che il mio peso, e quello dei miei compagni, potesse fare inclinare il rostro tanto da aprire il fianco di una nave nemica sotto la linea di galleggiamento. Ma avevo imparato presto. E quante volte, con l’armatura sfavillante alla luce dell’alba, avevo osservato con disprezzo i nautai, le loro schiene curve sui remi quasi sul punto di spezzarsi per la fatica.
Poi, un giorno, la mia sicurezza s’infranse come l’oscurità della notte al primo sorgere del sole.
Il nostro tentativo di forzare il blocco del porto di Siracusa era sfociato in un combattimento. Io ero caduto in acqua quasi subito, colpito alla testa da un sasso lanciato da un fromboliere avversario. La pesante armatura mi spingeva verso il basso e, mentre sprofondavo, i miei occhi rimanevano fissi sull’azzurro del cielo che scompariva. Gli dei esaudirono la mia supplica servendosi di un semplice marinaio. Afferrò il mio braccio proteso verso l’alto, quasi che la mano