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Dorian e la leggenda di Atlantide
Dorian e la leggenda di Atlantide
Dorian e la leggenda di Atlantide
E-book176 pagine2 ore

Dorian e la leggenda di Atlantide

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Info su questo ebook

Atene 399 a.C.
Il filosofo Socrate è stato condannato a morte. Il suo ultimo desiderio, esaudito, è quello di trascorrere la notte prima dell’esecuzione insieme all’amico e discepolo Platone. Prima di morire vuole confessargli un segreto che ha tenuto nascosto per tutta la vita, custodendolo gelosamente. “Quale segreto, maestro?”
“La leggenda di Atlantide!” L’indomani Socrate morì con l’anima purificata, sereno.
Ma perché era così importante tramandare quella storia?
Cosa era successo di così terribile e sconvolgente in quell’isola prima che s’inabissasse per sempre sul fondo dell’oceano?
LinguaItaliano
EditorePubGold
Data di uscita2 mag 2017
ISBN9788894839104
Dorian e la leggenda di Atlantide

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    Anteprima del libro

    Dorian e la leggenda di Atlantide - Demetrio Verbaro

    Tornabene

    PRIMA PARTE

    PROLOGO

    Un profondo silenzio avvolgeva Atene nell’ora dell’alba, il sole si risvegliava portandosi via il freddo della notte. Il cielo era un immenso azzurro, purissimo. Nella foschia mattutina ogni cosa sembrava sospesa, gli alberi, le strade, le case, i templi, tutto appariva in equilibrio tra realtà e fantasia.

    Correva l’anno 399 a.C. Socrate e Platone camminavano lentamente, fianco a fianco, percorrendo uno stretto sentiero fiorito che costeggiava il mare. Socrate era un uomo anziano, sulla soglia dei settant’anni, era calvo, con una lunga barba bianca e con un volto fiero scavato dall’età. Platone era uno dei suoi tanti giovani allievi, era il suo preferito perché aveva una grande voracità intellettuale, si appassionava di tutto e andava in profondità in ogni cosa, con entusiasmo contagioso.

    Indossavano entrambi il chitone, una lunga tunica formata da un rettangolo di stoffa di lana, fermato sulle spalle da due bottoni.

    «Fermiamoci amico mio, ho bisogno di riposo» disse Socrate con una punta di affanno, sedendosi su un grande masso vicino alla scogliera, osservando quella distesa infinita di mare.

    Il suo discepolo si sedette accanto a lui e abbozzò un sorriso. Che incanto il mare, è la più bella creazione che ci hanno donato gli Dei.

    Socrate alzò l’indice e scandì le parole: Guarda il mare vicino alla riva, nel punto in cui le onde baciano la spiaggia, cosa ti sembra?

    Un mondo acceso, ricco, rigoglioso, pronto ad accogliere l’uomo e la vita.

    Ora punta i tuoi occhi al largo, fino all’orizzonte, dove la linea di confine con il cielo ne attenua ogni onda e ne confonde il profilo. Cosa vedi?

    Platone rispose in un sussurro: Sembra che le distanze e il tempo perdano il loro valore reale, il mare appare immenso e irraggiungibile, come un segreto negato agli uomini.

    Socrate pronunciava ogni parola con forte accento, rimarcandola: È sempre lo stesso mare eppure lo hai descritto in modo opposto a seconda del punto in cui i tuoi occhi lo osservavano. Impara questa lezione, prima di giudicare qualcosa o qualcuno, financo te stesso, guarda sempre almeno da due diverse prospettive.

    Sei così saggio, perché non vuoi scrivere i tuoi pensieri, la tua filosofia? Saresti letto e ricordato dalle generazioni a venire.

    Socrate parlò piano ma con voce ferma: Solo la conversazione è interezza, concetto immediato, percezione che nasce e muore. Solo attraverso il dialogo nascono pensieri assolutamente personali, a differenza della parola scritta che vuole imporre le proprie idee, persuadendo chi la legge. Poi chiuse gli occhi e sentì il vento accarezzargli il viso e il calore del sole scaldargli la pelle, dalle sue labbra uscirono lentamente, quasi in un sospiro, parole cariche di rispetto, che sembravano un richiamo amoroso: Il mare, il mare, il mare!

    Platone disse con tono metallico: In Grecia corre voce che non hai mai navigato.

    Il maestro si fece malinconico. È la verità, poi abbozzò un sorriso pieno di nostalgia, ormai ho un’età in cui lontana è la vita e vicina la morte, è giunto il momento che ti racconti la storia segreta.

    Platone aveva profondi occhi castani e folte sopracciglia, nel suo viso pieno di giovinezza s’intravedeva l’esuberanza della sua età. Che onore maestro! Si narra che essa racchiuda il segreto della nascita di Atene.

    Socrate si alzò, dalla sua tunica a mezza manica sbucavano due braccia smagrite. Questa storia narra di avvenimenti realmente accaduti, non è mia, non è di nessuno, essa non si può possedere, ma soltanto custodire e tramandare. Non dovrai mai scriverla, né raccontarla a qualcuno. Solo quando sarai anziano o prima di mettere la tua vita in pericolo, dovrai tramandarla a tuo figlio. Promettimelo!

    Te lo prometto maestro!

    Il narciso era in fiore e sprigionava un profumo intenso, penetrante, Socrate lo inspirò con voluttà, poi cominciò il suo racconto con voce bassa, quasi ipnotica: Nel corso dei secoli sono state narrate le gesta di uomini passionali, valorosi cavalieri, donne belle e coraggiose, bambini innocenti costretti a crescere troppo in fretta, stregoni malvagi, misteriose profezie, ma nessuna storia potrà mai essere paragonata con quella che ti narrerò adesso: Dorian e la Leggenda di Atlantide.

    Atlantide!? ripeté in un singhiozzo Platone, e tutta la sua anima si eccitò: stava per venire a conoscenza del mistero più antico e famoso di tutta la Grecia. Lui era stato il prescelto dal maestro e avrebbe custodito con gelosia ogni parola. Appoggiò i gomiti sulle gambe e portò le mani al viso, come un bimbo intento ad ascoltare dal padre la favola della buonanotte.

    Socrate ricominciò il suo racconto, le parole erano sussurrate appena, come se anche lui fosse emozionato per quello che stava per dire: "Niente comincia in un certo posto e in un certo momento, ma comincia tutto in posti diversi e in momenti diversi, alcuni avvenimenti risalgono a prima ancora della storia del mondo così come lo conosciamo.

    Questa storia ebbe luogo tanti anni addietro da non poterla datare, in un posto misterioso e sconosciuto, su un’isola molto distante da Atlantide, il cui nome era Zakonos. Un uomo e una donna correvano in preda al panico sulla spiaggia. L’uomo teneva in mano una spada, la donna un neonato. Raggiunsero una piccola barca, l’uomo fece salire la donna e con voce rotta dalla commozione pronunciò lentamente: «Buona fortuna, spero che starete bene e che avrete una vita serena.»

    La donna aveva occhi castani, labbra morbide e lunghi capelli biondi accompagnati da una tiara di diamanti. «Vieni con noi!» pronunciò.

    «Mi dispiace amore mio, ma è l’unico modo per salvarvi. Devo concedervi più tempo.»

    La baciò sulla guancia e sulla bocca, diede un bacio sulla fronte al bambino, e infine spinse in mare la barca.

    Il mare era così calmo che sulle placide onde non vi era nemmeno spuma, come se fosse pronto per accudire quelle due persone, un banco di piccoli pesci saltavano allegramente accanto alla barca per salutarla e proteggerla.

    La donna adagiò il bambino e cominciò a remare.

    L’uomo si strinse forte sul petto le mani, quasi a voler placare il dolore, diede un ultimo sguardo alla barca che ormai era lontana all’orizzonte e infine si voltò, andando a passi veloci verso il suo destino.

    Dopo qualche minuto fu circondato da un gruppo di venti soldati.

    «Arrenditi Isar! Il tuo regno è giunto al termine» tuonò un uomo dall’armatura scintillante e dal fisico imponente.

    «Fexsis, mio valoroso generale. Come hai potuto tradirmi?»

    L’uomo aveva gli occhi accesi di furore, la barba ispida e il viso spigoloso. «Sei poco ambizioso, io porterò Zakonos alla conquista del mondo. Consegnami la pietra di Riktho!»

    Isar aveva l’aria di chi aveva affrontato mille battaglie: spalle larghe, occhi fieri e intensi e viso solcato dalle cicatrici. «Fexsis tu non puoi essere…»

    L’uomo si rese conto che il re stava prendendo tempo e che non era lui ad avere la pietra: «Basta chiacchiere! Non ce l’hai tu, vero? L’hai data a tua moglie?»

    Dalle labbra di Isar spuntò un ghigno beffardo. «Sì, e non ce la farai mai a raggiungerli prima che la pietra faccia il suo effetto.»

    Fexsis con un gesto perentorio della mano ordinò a quattro uomini: «Fate partire la nave, raggiungeteli, non m’importa se sono vivi o morti, ma portatemeli qui, devo strappare la pietra di Riktho dal loro collo.»

    La spada di Fexsis lacerò l’aria e puntò la figura di Isar. «Arrenditi!»

    La sua voce era dura, il suo sguardo fiero. «Preferisco tornare dal mio popolo cadavere piuttosto che tuo schiavo.»

    «Sarai accontentato. Uomini, uccidetelo.»

    Isar avanzò ad ampie falcate verso i nemici, lanciandosi all’attacco, combatté con abilità e coraggio, ma erano troppi anche per un guerriero forte come lui.

    Dieci soldati caddero sotto gli affondi della sua spada, prima che il re venisse colpito dove la sua dura corazza e il suo elmo non offrivano protezione. Due frecce codarde scagliate da lontano lo ferirono al collo a alla gamba destra.

    Gemette e cadde stancamente sulla sabbia fine.

    Fexsis gli strappò la corona e la infilò di forza sulla sua testa tozza, cosparsa di capelli arruffati come rovi e urlò: «Io sono il nuovo re di Zakonos. Il vecchio re è morto e presto anche il suo seme verrà cancellato.»

    Isar restò a terra con lo sguardo rivolto verso il mare, in direzione di quella piccola barca che solcava l’orizzonte e verso quella grande nave piena di nemici che era partita all’inseguimento e filava veloce come sparata da una catapulta. «Addio amori miei» pensò, prima che la luce svanisse dai suoi occhi.

    La barca intanto scivolava sopra quella distesa sconfinata di blu. C’era un grande silenzio, interrotto solo dal grido di due gabbiani e dal gorgoglio dell’acqua che accarezzava il fianco della barca.

    Ma non appena la nave dei soldati di Fexsis raggiunse il largo, tutto cambiò: il sole si oscurò, l’aria s’incendiò, onde enormi, che diventavano sempre più alte, si levarono dal mare e si scagliarono contro di essa.

    I soldati, divenuti pavidi di fronte alle intemperie, urlavano e imploravano perdono.

    La tempesta gridava la sua forza, le onde sommergevano e inghiottivano, la nave venne ridotta in pezzi.

    Aggrappati al timone o agli alberi restavano in bilico dinanzi al proprio destino, a ogni onda sparivano dalla vita per poi riemergere, infine la morte smise di prendersi gioco di loro, e un’onda più alta delle altre portò i loro corpi inermi negli abissi profondi.

    La tempesta si placò subito dopo, non aveva nemmeno sfiorato la donna e il bambino che erano ancora sulla piccola barca intatta, erano stati salvati dall’abbraccio del mare, l’oceano non voleva le loro anime.

    La pietra che il bambino aveva al collo s’illuminò di un bianco accecante e la barca sparì, inghiottita dall’orizzonte.

    CAPITOLO 1

    "L’isola di Atlantide sorgeva oltre le Colonne d’Ercole, nel ventre dell’Oceano, laddove mai nessun greco aveva osato spingersi. Vista dall’alto aveva la forma di un grande triangolo placidamente adagiato sul mare.

    Il suo perimetro era ricoperto di spiagge così ampie e lunghe che non si riusciva a scorgerne la fine.

    Era divisa in tre grandi aree: a sud, dove la spiaggia e il mare erano più floridi, vi era il villaggio di Apodirot, l’entroterra era occupato dalla foresta di Taseras, un’intricata e infinita estensione di verde interrotta solo dal vulcano Ante e dal deserto di Koap, infine nella zona nord vi era la grande città di Kron.

    Nessuno osava passare per la foresta di Taseras poiché era un luogo mistico e chi si era avventurato in quella terra primitiva non aveva fatto più ritorno. Per questo, l’unica via accessibile che collegava Apodirot con Kron era una striscia di spiaggia a ovest.

    Nella città di Kron vi era il palazzo di Tolemac, dimora del re Tesibio.

    Il resto della città era formato da grandi e raffinate case dove vivevano i nobili, le dame e i cavalieri. Essi rappresentavano i Cittadini, non lavoravano mai ed erano sostentati del re.

    Apodirot era un invece un piccolo villaggio formato da modeste case, i suoi abitanti erano i Sudditi, persone semplici e gran lavoratori, resi schiavi dai tributi che il re esigeva da loro. Era un villaggio dall’aria malandata, abbarbicato sulle colline dietro la spiaggia, nelle sue strade si alternavano case restaurate e solide a case semi diroccate. Erano edifici immersi nella vegetazione da cui si intravedevano i panorami della baia, dalle albe dalle tonalità di rosa chiaro, ai tramonti infuocati, alle notti da ammirare sotto un manto di stelle.

    Gli abitanti di Apodirot passavano vite intere a tessere orizzonti di sopravvivenza dignitosa. C’erano solo due possibilità di uscire dalla schiavitù: gli uomini che dimostravano abilità nel combattimento venivano arruolati nell’esercito regolare oppure nel corpo speciale del Knesa e in quel caso ricoperti di onori e privilegi.

    Le donne dotate di grande bellezza venivano scelte dal re come Sacerdotesse dell’Amore per sé e per i membri del Knesa, vivevano nel lusso e nel benessere in un’ala del palazzo reale, ma dovevano sottostare ai voleri di un uomo

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