L'eredità dell'abate nero
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L’autore italiano di thriller storici N°1 in Italia e più letto nel mondo
Firenze, 21 febbraio 1459.
Il banchiere Giannotto Bruni viene ucciso in circostanze misteriose nella cripta dell’abbazia di Santa Trìnita. L’unico testimone è Tigrinus, un giovane ladro di origini ignote, dai capelli neri striati di bianco, che paga caro l’avere assistito al delitto: immediatamente arrestato con l’accusa di omicidio, solo l’inspiegabile intervento di un uomo molto influente riesce a sottrarlo alla morte. Ma a quale prezzo? Da quel momento in poi Tigrinus sarà braccato e costretto a fronteggiare i tentativi di vendetta di Angelo e Bianca, il figlio e la nipote della vittima, convinti che meriti la forca. Mentre cerca di sfuggire ai parenti di Giannotto, il ladro scopre però qualcosa di decisivo per il proprio destino: la morte del banchiere è legata a un tesoro che si trova su una nave proveniente dall’Oriente. Per aver salva la vita, Tigrinus dovrà stringere un patto con il potente Cosimo de’ Medici e affrontare un incredibile viaggio per mare, alla ricerca di un uomo sfuggente e imprevedibile. Un uomo che pare conoscere tutto sul suo misterioso passato... Un uomo chiamato l’abate nero.
L'autore vincitore del Premio Bancarella
Oltre un milione e mezzo di copie
Nella Firenze del Quattrocento si aggira un oscuro personaggio dalle origini ignote di nome Tigrinus.
Il suo destino è intrecciato a quello dei potenti signori della città: i Medici.
«Io mi diverto molto con le storie di Marcello Simoni e ve le raccomando. Se avete amato sir Walter Scott, Il Signore degli Anelli e il poema di Ludovico Ariosto, ecco un loro pronipote.»
Antonio D’Orrico, Corriere della Sera
«Non ti fa sentire il peso di una storia di settecento anni fa, ma la rende attuale. Il presente storico è la cifra estetica più originale di Simoni.»
Vittorio Sgarbi
«La sua scrittura è un mix tra Il nome della rosa in salsa ferrarese e un Dan Brown con influssi salgariani...»
Leonetta Bentivoglio, la Repubblica
Marcello Simoni
È nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in venti Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni) e la Secretum Saga (L’eredità dell’abate nero, Il patto dell’abate nero e L’enigma dell’abate nero). Nel 2018 Marcello Simoni ha vinto il Premio Ilcorsaronero. Il segreto del mercante di libri è l’attesissimo seguito della Trilogia del mercante di libri, la saga che ha consacrato Marcello Simoni come autore culto di thriller storici.
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eNewton Narrativa
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Anteprima del libro
L'eredità dell'abate nero - Marcello Simoni
Indice
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
Prologo
Parte prima. Delitto nella cripta
1
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Parte seconda. Il monaco fuggiasco
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Parte terza. L’albero e il cappio
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Parte quarta. La voce del mare
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71
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Parte quinta. Secretum
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77
78
79
Epilogo
Nota dell’autore
Specchio cronologico degli eventi storici citati nel romanzo
Ringraziamenti
en1634
Prima edizione ebook: giugno 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0734-5
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Simoni Marcello
L'eredità dell'abate nero
Secretum Saga
ominoNewton Compton editori
Per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, […] chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri.
Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata x, novella ii
Che il navilio sia bene concio e bene stagnato, e che sia bene corredato, e bene guarnito di buoni alberi, e di buone antenne, e di buone sartie, e di buone agumine, e di buone vele, e di buone ancore […]. E che sia fornito d’armadure, cioè di corazze, e di balestra, e di ferramento, e di lance, e di dardi, e di mannare, e di pietre […], che se fusse in tempo di guerra, ha bisogno di più armadure per difensione della nave e della mercatanzia.
Francesco Balducci Pegoletti, Pratica della mercatura
Questo è un romanzo d’avventura e la sua trama si basa su personaggi di pura invenzione. Corrisponde però a verità storica che nel 1459, durante un viaggio in Macedonia, il monaco Lionardo da Pistoia sia entrato in possesso di alcuni manoscritti sacri, e che in seguito li abbia consegnati ai due uomini più controversi vissuti nel tardo Medioevo: il cardinal Bessarione e Cosimo de’ Medici.
Ancora oggi quelle pagine vengono considerate la pietra miliare dell’alchimia e dell’esoterismo. Il loro titolo, Corpus hermeticum, deriva da una remota tradizione che le attribuisce a Ermete Trismegisto, ovvero il dio Mercurio conosciuto dai sacerdoti egizi con il nome di Thot e dai cristiani gnostici come Michele arcangelo.
Ma se la leggenda è sopravvissuta, non si può dire altrettanto delle avventure di chi lottò per impossessarsi di quella arcana sapienza. O di chi, semplicemente, fu coinvolto nella sua ricerca.
Prologo
Mar Ligure
15 aprile 1439, notte
Ci sono spiriti di mare e spiriti di terra. Cosimo de’ Medici se lo ripeteva di continuo, tenendosi saldo alla prua del caicco mentre il porto di Livorno, ormai lontano, si perdeva in un’oscurità liquida dominata dalla torre del Fanale. Benché anni addietro, tra i suoi molteplici uffici, avesse curato i traffici navali di Firenze, non si riteneva avvezzo a solcare distese d’acqua che potevano scatenarsi in tempesta al minimo capriccio. Il suo talento era il denaro, la sua passione le biblioteche. Quelle, sì, erano vastità su cui sapeva navigare, senza timore di perdersi o di cedere alle lusinghe delle sirene.
Eppure eccolo oscillare tra i flutti, con il freddo a morderlo sotto il mantello e il desiderio di posare i piedi sull’erba di Careggi. Della galea giunta da Bisanzio non vi era ancora traccia, ma Cosimo la sapeva lì, tra le onde, e scrutava con insistenza nel tentativo di scorgerne il barlume. Nessun cristiano tollerava di restare al buio per troppo tempo. Pur se si trattava degli scismatici d’Oriente.
Prima di distinguere la nave percepì il gemere della carena, poi vide una fila di lanterne palpitare nella notte. Lo scafo era di proporzioni enormi, un fuso d’ebano forse da cinquanta remi. Difficile essere più precisi con la luna oscurata e l’ansia per l’incontro con un uomo ambiguo, imprevedibile quanto il mare. Un uomo salpato dal Corno d’Oro insieme ai teologi greci diretti al concilio di Ferrara, spostato a Firenze dopo mesi di complicanze. Al contrario del patriarca e del basileus, sbarcati da giorni, lui, il folle, aveva preferito restare al largo. E aspettare.
Il caicco superò la gomena dell’àncora e si accostò al lato posteriore della galea. Appena poté sporgersi, Cosimo si aggrappò a una scala a pioli appesa alla spalla del cassero e prese a issarsi, in un oscillare di legni e cordami bagnati. Era ormai giunto in cima quando vide una mano spuntare dall’alto. L’afferrò per aiutarsi a superare l’ultimo tratto, trovandosi di fronte a un servo avvolto in un caftano.
«Il mio signore vi attende».
Il Medici annuì, muovendo d’istinto verso il gavone di prua.
«Dalla parte opposta», lo avvertì il servo, indicando la carrozza di poppa. Senz’altro aggiungere, lo guidò fino alla sala del consiglio, riservata al capitano e a pochi eletti della ciurma. Il bagliore di un candelabro lambiva una quantità di carte nautiche appese alle pareti, un mosaico di coste tratteggiate con l’inchiostro di seppia.
In un angolo in penombra c’era una persona avvolta in una cappa da viaggio. No, si ravvide Cosimo. Non una persona ma due. Un uomo e un bambino, il primo con le mani dell’altro premute sul capo. Il tempo che il servo prendesse congedo e si avvicinò.
«Dubitavo che ti saresti lasciato persuadere dal mio messaggio», esordì l’uomo, scoprendo il volto celato dal cappuccio.
Cosimo provò un fugace disagio. Gli occhi, il naso e persino il sorriso che si trovava a contemplare erano identici ai propri. Due gocce d’acqua, se non fosse stato per le venature color argento che striavano i capelli corvini del viaggiatore. Segni dovuti non certo all’età né alle tribolazioni, lui lo sapeva bene. Stringendosi nelle spalle, prese il candelabro e lo usò per accendere una lampada a olio appesa al soffitto. «Il nostro ultimo incontro», disse, «risale a sedici anni fa».
«Diciassette», lo corresse l’altro. «Se ben rammento, a quel tempo ricoprivi la carica di console del mare. Oggi sei gonfaloniere».
«Non sono uso a farmene vanto», minimizzò Cosimo, rinfrancato dal diffondersi della luce. «La mia fedeltà va anzitutto agli interessi della famiglia».
«Interessi che ormai coincidono in toto con quelli di Firenze».
«E allora?», s’irrigidì. «Cessa quest’insulso indugiare e spicciati, dimmi quali smanie t’inducono a voler parlare con me a tutti i costi».
A rispondergli fu una risata piena di amarezza. «Credevi che mi fossi scordato da dove provengo? Che le terre d’Oriente mi avessero assuefatto al loro incanto?»
«Per carità, Damiano, io non insinuavo…».
«Lasciami dire», lo interruppe il viaggiatore, irritato dal sentir pronunciare il proprio nome. «Non sono qui per reclamare alcunché, né per osteggiarti. La casata, il banco, la città… Tieniti tutto, fratello. La mia esistenza si svolge altrove, in terre dove la favella fiorentina suona infida e forestiera». Accarezzò il fanciullo, incoraggiandolo ad avanzare d’un passo. «Se stanotte ho preteso d’incontrarti, è stato per lui».
Cosimo osservò il bambino per la prima volta. Non doveva avere più di tre anni, ma le sue iridi brillavano già di un’intelligenza non comune. Furono però i capelli a colpirlo. Neri, tagliati corti, erano striati d’argento alla guisa della pelliccia di una fiera. Come quelli di colui che l’accompagnava.
«Sua madre, la mia unica figlia», spiegò Damiano, colto da una fugace commozione, «è spirata l’anno scorso».
«Mi rincresce», disse il Medici, rendendosi improvvisamente conto di non sapere nulla sul proprio gemello. Nulla che non fosse uscito dalle storie bisbigliate dai suoi genitori al tempo della fanciullezza, o dalla voce di qualche messaggero giunto dall’Oriente. Ora invece eccolo, l’Esaù diseredato, a parlare di una figlia salita al cielo e di un nipote ancora infante. «Mi rincresce davvero», ripeté. «Tuttavia concedimi d’intendere bene cosa stia accadendo. Per quale motivo tu, dopo una lunghissima assenza, ti rivolgi proprio a me?».
Quasi per occultare i pensieri, Damiano si voltò verso le carte nautiche. «Perché Bisanzio non è più un luogo sicuro», sospirò. «I turchi sono alle porte e presto il mondo non sarà più lo stesso. Né il mio, né il tuo».
Cosimo colse nella sua voce un sentimento affine all’angoscia che, dopo anni di tumulti, aveva appreso a fiutare d’istinto. I turchi, i diavoli d’Oriente davanti ai quali Bisanzio sorgeva come una barriera d’intrighi e di ossessioni che pungolavano l’immaginario delle genti d’Occidente. Si chiese se quelle parole fossero state pronunciate con cognizione di causa o con l’intento di mascherare insidie ancor maggiori. Poi tornò al bambino. Si piegò sulle ginocchia e fissò i suoi occhi attenti, disegnati come mandorle. «Sa qualcosa delle sue origini?»
«No», rispose Damiano. «E io t’imploro che resti sempre così, all’oscuro. Fa’ di lui un artista, uno studioso o pure un chierico, se vuoi, ma tienilo lontano dai Medici».
«Sei fin troppo sibillino», l’ammonì il gonfaloniere di Firenze, rialzandosi in piedi. «Rivelami almeno il nome del padre».
Il viaggiatore continuava a mostrargli le spalle. «Mia figlia non me ne ha mai fatto cenno».
«Suvvia! Ti scomoderesti per un bastardo?».
Damiano si voltò di scatto, trasfigurato dall’astio. «Anche se fosse, tradiresti il tuo stesso sangue? Come fecero i nostri genitori con me?».
Cosimo si mantenne impassibile. «Non è questo che accadde».
«Cosa vuoi saperne di cosa accadde! Non fosti tu a dover sopravvivere lontano dalla famiglia, né ad affrontare le vastità dei mari e dei deserti».
«Un’ingiustizia di cui non ho colpa».
Il fratello pareva lungi dal voler lasciare perdere. D’un tratto, però, si accorse di aver spaventato il bambino e allora, non senza sforzo, s’impose di moderare i toni. «Hai ragione», ammise. «Ma se ora mi negassi l’aiuto che t’imploro, diverresti a tua volta colpevole».
«Non mi chiedi molto», si ritrasse Cosimo, attraversato da un improvviso fremito di cupidigia. «Conosci bene, però, le regole dei Medici. Ogni favore ha un prezzo».
Damiano rimase immobile a fissarlo, mentre l’ira che gli bruciava sotto la pelle si temperava in fretta, dando forma a un sorriso. «So a cosa alludi, fratello. Ne parlammo durante il nostro ultimo incontro e non ti facesti certo riguardo di celare il tuo interesse. Ebbene, esaudisci la mia richiesta e giuro che l’avrai».
«Se davvero mi hai inteso», ribatté il Medici, «perché non mi accontenti subito?»
«Non adesso», sentenziò l’uomo di Bisanzio, quasi desse avvio a un delicato cerimoniale. «Solo quando mio nipote sarà diventato adulto. Allora sì, potrai ottenere la Tavola di Smeraldo. Ma a reclamarla dovrà essere lui». E con ritrovata freddezza, spinse il bambino tra le braccia di Cosimo. «Perciò prenditene cura», l’ammonì, «come se questo fanciullo fosse il tuo più prezioso segreto».
Parte prima. Delitto nella cripta
1
Firenze, abbazia di Santa Trìnita
21 febbraio 1459
Il monaco guardiano sollevò la lanterna e contemplò l’arazzo, un ordito in lana di Fiandra che dava forma a una scena marina. Indugiò sui ricami, alla ricerca delle creature mostruose seminascoste tra le onde e lo scafo di una galea in procinto d’inabissarsi, poi si lisciò la barba, forse chiedendosi cosa ci facesse un simile paramento nella cripta di un’abbazia. Continuò a osservarlo, in preda a un trasporto quasi infantile, finché la voce di un confratello non lo richiamò al dovere. Gettò allora un ultimo sguardo e sparì nell’ombra.
Non appena fu tornato il silenzio, l’arazzo oscillò. Due dita spuntarono da dietro il bordo, afferrarono un lembo di tessuto e lo scostarono con cautela, permettendo al ladro di uscire dal nascondiglio.
Intrufolarsi nei recessi di Santa Trìnita era stato facile, per lui. Esclusi i soliti rischi del mestiere, si era trattato anzitutto d’infischiarsene della dannazione eterna promessa a chi depredava i beni dell’Ecclesia. E di accettare che l’inferno fosse destinato a tutti, inclusi i monaci assuefatti allo sfarzo. Ho ragione buon Signore?, meditò ghignando. In fin dei conti, al mondo si commettevano scelleratezze ben peggiori dell’alleggerire messeri ed eccellenze delle loro scarselle. A voler poi fare i pignoli, prelevare lo stercus diaboli da un edificio sacro equivaleva quasi a una missione salvifica. Anzi, provvidenziale.
Continuando a rimuginare sulle sue teologie mordaci, il ladro sfilò una fiaccola da un anello di metallo e prese a esaminare l’ambiente dal punto in cui era stato interrotto. Vestiva interamente di nero, la faccia scurita con la pece da calafato e i piedi fasciati di sparto per non produrre rumore. Sarebbe stato un peccato, si disse, negare una sortita a un luogo sorvegliato da soli religiosi. Un peccato mortale, visto che il luogo in questione celava una camera in cui i monaci di Vallombrosa custodivano i loro tesori.
Trovata quella camera, l’unico problema sarebbe stato trasportarne il contenuto all’esterno. Ragion per cui il ladro si era assicurato la complicità di un furfante di strada, un nano di nome Caco appostato davanti a una finestra che separava la cripta dal piano della strada. Le inferriate, in quel punto, erano abbastanza larghe da potervi far passare fiorini, pietre preziose e forse anche qualche candeliere.
Meglio spicciarsi, però, dacché l’officio dei vespri non sarebbe durato in eterno e i sotterranei dell’abbazia erano più estesi di quanto avesse immaginato. Riprese pertanto ad aggirarsi tra le colonne di marmo fino a scorgere il contorno di un portone borchiato. Sfilò uno stiletto e un sottile calamo di cui si serviva per scassinare i chiavacci, poi si avvicinò, ansioso di scoprire cosa proteggesse quel battente.
Un risuonare di voci lo mise in allerta.
Ripose in fretta la torcia e si rannicchiò dietro una Madonna di legno, poco prima che due persone facessero il loro ingresso. Non erano monaci, stavolta.
«Lo sapete, lo sapete bene!», stava sbraitando il più basso. «Ci sono navi sciagurate, destinate al naufragio».
«E persone ancor più sciagurate», lo rimbeccò l’altro, «nate apposta per sfiancare la pazienza altrui». Avanzava a mento alzato, il profilo aquilino sormontato da un cappuccio a foggia. Il fisico alto, asciutto come una verga, era fasciato da un lucco di panno abbottonato fino al collo.
Sbirciando da dietro la statua, il ladro riconobbe messer Giannotto Bruni, banchiere e mercante fiorentino. L’altro invece gli era sconosciuto. A giudicare dall’accento e dal turbante avvolto intorno al capo si trattava di un forestiero.
«Non capite?», insisteva quest’ultimo con foga. «Sono rovinato!».
«Affari vostri».
«Affari della vostra compagnia, piuttosto, dal momento che mi ha garantito un risarcimento in caso di disgrazia».
La risata di Giannotto Bruni echeggiò sotto le volte della cripta. «Non state alludendo a una mia compagnia, bensì a una filiale associata. Rifatevi su di essa e lasciatemi in pace».
L’uomo col turbante l’afferrò per un braccio. «Siete uscito di senno?», protestò. «Vorreste che m’imbarcassi per Famagosta? In questa stagione dell’anno?»
«Ve l’ho già detto, affari vostri», esclamò il banchiere, liberandosi con uno strattone. «Se avessi saputo che intendevate assillarmi con simili fanfaluche, mai e poi mai avrei accettato d’appartarmi con voi».
«Duemila fiorini d’oro!», lo sferzò il forestiero. «Risarcitemi almeno di questa somma, che è nemmeno un terzo del valore di quanto ho perduto».
Messer Bruni rimase in silenzio, gli occhi che saettavano nell’ombra. Il suo sguardo era così acuto che il ladro credette per un attimo d’essere stato scorto. Poi lo vide passare oltre e tornò a rimuginare sulla questione dei duemila fiorini. Anzi, oltre seimila a giudicare da quanto sosteneva l’uomo col turbante. C’eran trafficanti di lana e di spezie che si dichiaravano rovinati per aver perduto molto meno.
«Pur fossi in vena di sborsare una simile cifra, e non lo sono», dichiarò Giannotto Bruni, puntando verso l’uscita della cripta, «non mi accontenterei certo di una semplice storiella. Ricevo ogni giorno rapporti da porti e dogane, e a esser franchi non mi è giunta voce di alcun naufragio».
«La Saturnia è affondata!», sbraitò l’altro, sbarrandogli il passo. «Colata a picco, vi dico».
Il banchiere lo spintonò senza riuscire a scostarlo. «Andate al diavolo, messere. Lasciatemi passare».
Il seccatore, più basso e tarchiato, non si mosse. «Al diavolo ci andrete voi, vecchio usuraio».
«Come osate?», s’infiammò Bruni. Provò per la seconda volta a farsi strada, ma non riuscendo nell’intento estrasse un pugnale e minacciò un affondo. «Vi ordino di togliervi dai piedi, o in nome di Dio…».
Anziché intimidirsi, l’altro gli afferrò il polso. In un crescendo di sdegno, messer Giannotto gli si gettò addosso, facendolo rovinare a terra sotto il suo peso.
Il ladro valutò se restare dietro la Madonna o intervenire per dividere i due folli. Ancora poco e sarebbero accorsi i sorveglianti. Allora sì, le cose avrebbero preso una brutta piega. Meglio sgattaiolare fuori dalla cripta finché era in tempo, nella speranza di non essere…
Il grido gli gelò l’anima.
Vide l’uomo col turbante rialzarsi di scatto, pulirsi le mani addosso e fuggire a gambe levate. Giannotto Bruni restava a terra, a contorcersi come se avesse il diavolo in corpo.
A quel punto l’osservatore si decise a uscire allo scoperto e si precipitò sul banchiere, che in un lampo di stupore trovò requie dall’agonia. Poi l’infelice riprese a gemere, premendo le mani sull’elsa del pugnale che gli era stato conficcato nel ventre. «Signore salvami…», implorava. «Beata Vergine salvami…».
Ma la lama affondava nella carne ben oltre una spanna, nemmeno il miglior cerusico di Firenze avrebbe saputo porvi rimedio. Messer Bruni pareva esserne consapevole. Digrignava i denti in un misto di rabbia e orrore, da cui trapelava pure la vergogna. Ucciso in una rissa, sembrava voler dire. In una rissa, come un cagnaccio del volgo.
C’era però dell’altro nel suo sguardo, e fu quel qualcosa a far indugiare il ladro un attimo di troppo.
Il tempo sufficiente perché i guardiani del monastero piombassero su di lui.
2
Oltrarno, palazzo Bruni
Notte tra il 21 e il 22 febbraio
Angelo Bruni stava ritto davanti al catafalco, intento a osservare la salma del padre. Anche nella morte, messer Giannotto serbava l’aria arcigna che l’aveva contraddistinto in vita, incutendo rispetto persino agli avversari più accaniti. Il naso adunco e le sopracciglia inarcate richiamavano il profilo di un’aquila, mentre il pallore del volto enfatizzava il taglio di una bocca quasi priva di labbra. Angelo aveva sempre avuto paura di lui e ora, di fronte a quel corpo privo di vita, non riusciva a provare dispiacere. Al lato opposto del catafalco, sotto le volte che adombravano la cappella privata del palazzo, la cugina Bianca versava lacrime di dolore.
Dovrei essere io, pensò Angelo, a logorarmi in un simile strazio. Io a versare lacrime amare. Invece era ben altro a fomentare la sua angoscia. Ora che ereditava la potestà sulla famiglia e sulla compagnia dei Bruni, si sentiva schiacciato da un fardello di cui fino al giorno prima non aveva lontanamente immaginato il peso. Forse per il fatto di non possedere, come Giannotto, il talento per l’arte della mercatura. Il suo scarso interesse verso un’attività fondata su lettere di cambio e divise commerciali l’aveva convinto fin da ragazzo di non essere lui il degno successore del padre. Partito più meritevole sarebbe stato lo zio Teodoro, se non fosse perito durante un recente viaggio in Francia. E adesso che restava solo, senza nessuno a elargirgli consigli, Angelo s’interrogava su quali misure adottare per gestire un patrimonio che, negli ultimi anni, aveva rischiato più volte la bancarotta.
Baciò la fronte algida del genitore e si voltò verso la terza persona presente nella cripta. Si trattava di un monaco di Vallombrosa, il venerabile Montano da Bagnone. Era stato lui a recare notizia della disgrazia, bussando al portone del palazzo in testa a un gruppo di confratelli intenti a reggere il cadavere avvolto in un drappo.
«Non vi ho ancora ringraziato, padre, per aver agito con discrezione».
«Ho provveduto il più in fretta possibile», sospirò il religioso, «prima che le voci si diffondessero».
Angelo annuì. Nonostante l’ora tarda, aveva saputo che l’abbazia di Santa Trìnita era stata assediata da una torma di curiosi attratti dalla notizia del delitto. Per la famiglia Bruni sarebbe stata un’onta se il cadavere di messer Giannotto, ancora lordo di sangue, fosse stato esposto allo sguardo del popolo.
«Del resto, la sua anima mi è sempre stata cara», aggiunse padre Montano, increspando la pelle di un viso che pareva scolpito nel legno. «Mi sono sentito in dovere di riportarlo subito qui, affinché trovasse pace».
«Lo credete davvero, padre?», intervenne Bianca, uscendo dall’ombra con voce rotta. Il bel volto, rigato di lacrime, si era appena infuocato per lo sdegno. «Credete davvero che mio zio abbia trovato pace?».
Il monaco si fece il segno della croce. «È nell’abbraccio di Dio, in questo momento».
«Il suo assassino è ancora vivo, però».
«Domate il risentimento, monna Bianca», l’ammonì con dolcezza padre Montano. «Prendete a esempio messer Angelo, così contenuto nel suo dolore».
Lei scosse il capo, facendo uscire una ciocca castana dal velo. «Anche mio cugino esige vendetta», proferì combattiva. «Non è forse vero?».
Angelo sobbalzò. A esser franchi, il suo unico desiderio sarebbe stato rintanarsi in biblioteca per dedicarsi alla lettura. Amava le gesta dei cavalieri e le cronache dei viaggiatori, nei quali spesso s’immedesimava per dimenticarsi della propria goffaggine. Non certo come Bianca che, pur essendo femmina, aveva ereditato la tempra di Giannotto Bruni. Chiuse le mani e intrecciò le dita grassocce. «Io…», balbettò.
«Vergogna!», l’accusò la cugina. «Tuo padre è morto e te ne stai muto come un pesce».
«Il responsabile è già stato arrestato», intervenne padre Montano, per sedare gli animi. «È nelle prigioni delle Stinche, in questo momento».
«Il responsabile?», ripeté Bianca piena di bile. «E chi sarebbe costui?»
«Un ladro, mi è stato riferito».
Angelo sbarrò gli occhi, incredulo. «Un… ladro?».
Il monaco annuì. «Il suo nome è Tigrinus. Pare fosse sceso nella cripta di Santa Trìnita per rubare i tesori dell’abbazia».
«E mio padre cosa c’entrerebbe?»
«Si trovava anch’egli nella cripta, messere. Probabilmente i due si sono incontrati per caso e… be’, il resto lo potete immaginare».
«Io non m’immagino un bel niente», tornò alla carica Bianca. «Voglio guardarlo in faccia, questo dannato Tigrinus! Guardarlo in faccia mentre gli auguro la morte più barbara».
«Figliola, calmatevi», provò a farla ragionare padre Montano. «Le Stinche non sono luogo adatto a una signora».
Ma la donna era più indomabile di una fiera. «Vorrà dire che non andrò sola», sibilò. «Verrà Angelo con me».
3
Prigioni delle Stinche
Tigrinus appoggiò i gomiti sul tavolo di legno, fregando le mani immobilizzate dai legacci. Le percosse ricevute dai guardiani dell’abbazia, e poi dai fanti di quartiere, gli impedivano di tener la schiena ritta sullo sgabello. Il tragitto