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I tre moschettieri
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I tre moschettieri
E-book872 pagine12 ore

I tre moschettieri

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I tre moschettieri, scritto da Alexandre Dumas nel 1844, narra le avventure di Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan. I quattro devono lottare contro le trame del cardinale Richelieu e della sua agente, la perfida Milady de Winter. L’autore riesce mirabilmente a creare nel romanzo, grazie al ricco intreccio di personaggi e di avventure, un clima di suspense che rende piacevole la lettura, oltre che a catturare le esigenze del grande pubblico.
LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2013
ISBN9788874172696
I tre moschettieri
Autore

Alexandre Dumas

Alexandre Dumas (1802-1870), one of the most universally read French authors, is best known for his extravagantly adventurous historical novels. As a young man, Dumas emerged as a successful playwright and had considerable involvement in the Parisian theater scene. It was his swashbuckling historical novels that brought worldwide fame to Dumas. Among his most loved works are The Three Musketeers (1844), and The Count of Monte Cristo (1846). He wrote more than 250 books, both Fiction and Non-Fiction, during his lifetime.

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    Anteprima del libro

    I tre moschettieri - Alexandre Dumas

    Epilogo

    Informazioni

    In copertina: Antoon van Dyck, Triplo ritratto di Carlo I, 1635

    © 2017 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1935 di Alfredo Fabietti. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    Parte prima

    PARTE PRIMA

    I - I tre doni del signor D'Artagnan padre

    Il primo lunedì dell’aprile 1625, il. paese di Meung, dove nacque l’autore del Romanzo della Rosa, era in preda al più gran disordine, come se vi fossero giunti gli Ugonotti a fare una seconda Rochelle. Parecchi borghe­si, nel vedere le donne fuggire dalla parte della Grande- Rue, e nel sentire gli strilli dei bambini sulla soglia delle case, si affrettavano a indossare la corazza, e dan­do maggior sicurezza al loro contegno un po’ incerto con un moschetto o una, partigiani, si dirigevano verso la locanda Franc-Meunier, davanti alla quale c’era un gruppo compatto, rumoroso e pieno di curiosità, che in­grossava di minuto in minuto.

    In quel tempo i momenti di pànico erano frequenti, e ben pochi erano i giorni in cui una città o l’altra non registrasse nei suoi archivi qualche avvenimento di quel genere. C’erano i signorotti che guerreggiavano tra lo­ro; c’era il re che faceva la guerra al cardinale; c’era lo Spagnolo che combatteva il re. Poi, oltre a queste guerre nascoste o pubbliche, segrete o palesi, c’erano i ladri, i mendicanti, gli Ugonotti, i lupi e i servitori che movevano guerra a tutti. I borghesi si armavano sempre contro i ladri, contro i lupi, contro i servitori, —spesso contro i signori e gli Ugonotti, — qualche volta contro il re, — non mai contro il cardinale e lo Spagnolo. In conseguenza di questa abitudine presa, i borghesi, nel suddetto primo lunedì d’aprile 1625, sentendo tanto ru­more, e non vedendo nè la banderuola gialla e rossa, nè la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono dalla parte dell’albergo Franc-Meunier.

    Ognuno, arrivato lì, potè vedere e conoscere la causa di tanto pandemonio.

    Un giovane... — tracciamo il suo ritratto con due sole parole : — immaginate don Chisciotte a diciott’anni, un don Chisciotte scorticato, senza scudo e senza corazza, don Chisciotte ricoperto d’una giubba di lana il cui colore turchino s’era trasformato in una tinta im. precisabile, tra la fondata del vino e l’azzurro. Viso lungo e bruno; gli zigomi sporgenti, segno di astuzia; i muscoli mascellari enormemente sviluppati, indice in- fallibile per cui si riconoscono i Guasconi — anche sen­za cappello — e il nostro giovane ne portava uno ornato di una specie di piuma; l’occhio aperto e intelligente; il naso adunco, ma finemente disegnato; troppo alto per un adolescente, troppo basso per un uomo fatto, e tale che un occhio poco pratico l’avrebbe scambiato per il figlio di un fattore in viaggio, se non ci fosse stata la lunga spada che, sospesa a un balteo di pelle, batteva sui polpacci del proprietario quando era in piedi, e sul pelo ispido della sua cavalcatura quando era a cavallo.

    Poiché il nostro giovane aveva una cavalcatura, ed era così strana che fu subito notata; un cavallino del Béarn, di dodici o quattordici anni, di pelo giallastro, senza crine sulla coda, ma non senza chiovardi alle gam­be, il quale sebbene camminasse con la testa più bassa delle ginocchia, — cosa che rendeva inutile l’uso della martingala — faceva lo stesso le sue otto leghe al gior­no. Disgraziatamente le qualità di quel cavallo erano così nascoste sotto un pelame tanto strano e un anda­tura tanto brutta, che in un tempo in cui tutti si inten­devano di cavalli, l’apparizione del suddetto cavallino a Meung, dove era entrato circa un quarto d’ora prima dalla porta di Beaugency, produsse una impressione sfa­vorevole che si estendeva fino al cavaliere.

    Quell’impressione era stata tanto più penosa per u giovine d’Artagnan (così si chiamava il don Chisciotte di quel nuovo Ronzinante) in quanto che egli non si nascondeva il lato ridicolo conferitogli, per quanto buon cavaliere fosse, da una, simile cavalcatura; perciò accet­tando il dono fattogli dal signor d’Artagnan padre ave­va sospirato. Egli non ignorava che una simile bestia valeva almeno venti lire; vero è che le parole che ave­vano accompagnato il regalo non avevano prezzo:

    — Figlio mio, — aveva détto il gentiluomo guascone, i n quel puro dialetto di Béarn di cui Enrico IV non riuscì m ai a disfarsi del tutto — figlio mio, questo cavallo è nato nella casa di vostro padre, tredici anni fa, e vi è sempre rimasto, perciò lo dovete amare. Non vendetelo mai, lasciatelo morire tranquillamente e ono­ ratamente di vecchiaia, e se vi accompagnerà in guer­ ra, trattatelo come trattereste un vecchio servitore. Se avrete l’onore — continuò il signor d’Artagnan padre — di andare a corte, onore a cui, del resto, vi dà diritto la vostra vecchia nobiltà, sostenete degnamente il vostro nome di gentiluomo, che è stato degnamente portato dai vostri antenati da più di cinquecento anni, per voi e per i vostri. Per i vostri intendo i parenti e gli amici vostri. Non sopportate niente se non dal si­gnor cardinale e dal re. Un gentiluomo, oggi, si fa strada soltanto col proprio coraggio, capite bene, sol­tanto col proprio coraggio. Colui che trema per un se­condo, si lascia forse sfuggire l’esca che, proprio in quel secondo, la- fortuna gli tendeva. Siete giovane, do­vete essere coraggioso per due ragioni: la prima perchè siete guascone, la seconda perchè siete mio figlio. Non scansate le occasioni e cercate le avventure. Vi ho fatto insegnare a maneggiare la spada; avete garretti di ferro e polso d’acciaio; battetevi a ogni occasione; bat­tetevi, tanto più che i duelli sono proibiti, e che, per conseguenza, ci vuole doppio coraggio a battersi. Figlio mio, non ho da darvi che quindici scudi, il mio cavallo e i miei consigli che avete or ora appresi. Vostra ma- idre vi aggiungerà la ricetta di un balsamo, avuta da una». Boema, che ha virtù miracolose per guarire ogni ferita che non abbia leso il cuore. Traete profitto da tutto, e vivete felicemente e a lungo. Non ho da ag­giungere che una parola: vi metto davanti un esempio, non il mio, poiché non ho mai avuto l’onore, io, di andare a corte e non ho fatto che le guerre religiose come volontario; voglio parlare del signor di Tréville, che un tempo era mio vicino ed ha avuto l’onore di giocare, da bambino, col nostro re Luigi XIII, che Dio conservi! Qualche volta i loro giochi degeneravano in |; combattimenti, e in quei combattimenti il re non era sempre il più forte. I colpi ricevuti gli fecero stimare e amare il signor di Tréville. Più tardi Tréville si battè con altri, cinque volte, nel suo primo viaggio a Parigi; dalla morte del defunto re sino alla maggiorità del gio­vane (senza contare le guerre e gli assedi) sette volte; e da che fu maggiorenne ad oggi, si è battuto cento volte, forse! Per ciò, nonostante gli editti, gli ordini e gli arresti, eccolo capitano dei moschettieri, vale a dire capo di una legione di Cesari cui il re tiene moltissimo, e che il cardinale teme assai, lui che non teme nulla, come tutti sanno. Per di più, il signor di Tréville gua­dagna diecimila scudi all’anno, dunque è un gran signo­re. Ha cominciato come voi; andate a trovarlo con que­sta lettera, e comportatevi come lui, per riuscir bene come lui.

    Detto questo il signor d’Artagnan padre cinse al figlio la propria spada, lo baciò teneramente sulle guance e gli diede la benedizione.

    Uscendo dalla camera paterna, il giovane trovò la madre che l’aspettava con la famosa ricetta che doveva tornar utile molte volte, seguendo i consigli che abbia­mo riferiti più su. Gli addii con la madre furono più lunghi e più affettuosi di quanto erano stati col padre, non che il signor d’Artagnan non amasse il figlio, che era l’unico erede, ma il signor d’Artagnan era un uo­mo, e gli sarebbe parso indegno di un uomo abbando­narsi all’emozione, mentre la signora d’Artagnan era donna e per di più era madre. Ella pianse abbondan­temente, e diciamolo a lode di d’Artagnan figlio, per quanti sforzi facesse per essere forte come doveva esser­lo un futuro moschettiere, l’emozione lo vinse, ed egli versò molte lacrime, di cui riuscì, a gran fatica, a na­scondere la metà.

    In quello stesso giorno, il giovane si mise in cam­mino, munito dei tre doni paterni che consistevano, lo abbiamo già detto, dei quindici scudi, del cavallo e della lettera per il signor di Tréville; come si può ben immaginare, i consigli erano stati dati per sopram­mercato.

    Con un simile vademecum, d’Artagnan si trovò ad essere — tanto fisicamente che moralmente — una copia esatta dell’eroe di Cervantes, cui l’abbiamo così felicemente paragonato quando il nostro dovere di storici ci ha costretti a tracciarne il ritratto. Don Chisciotte prendeva i mulini a vento per giganti e i greggi per eserciti, e d’Artagnan prese ogni sorriso per un insulto e ogni sguardo per una provocazione. Di modo che ebbe sempre la mano serrata a fragno da Tarbes sino a Meung, e portò la mano all’impugnatura della spada dieci volte al giorno; tuttavia la mano non si abbassò su nessuna mascella, e la spada non uscì dal fodero. La vista del malaugurato cavallo suscitava, sì, il riso nei passanti; ma siccome sopra il cavallo tintinnava una spada di notevoli dimensioni, e sopra la spada brillava uno sguardo più feroce che orgoglioso, i passanti reprimevano l’ila­rità, o, se l’ilarità aveva il sopravvento sulla prudenza, cercavano almeno di ridere da una parte sola, come le maschere antiche. D’Artagnan restò dunque maestoso e intatto nella sua suscettibilità fino alla sventurata città di Meung,

    Lì, mentre discendeva da cavallo dinanzi la porta del Franc-Meunier, senza che nessuno, nè il proprietario, nè un servo o un palafreniere fosse venuto a reggere la stana, d Artagnan scorse, a una finestra semiaperta del pianterreno,, un gentiluomo aitante della persona e dall’aspetto distinto, benché avesse il viso un po’ .acci­gliato, che discorreva con altre due persone le quali pa­revano ascoltarlo con deferenza. D’Artagnan natural­mente, come era kua abitudine, credette d’essere il sog­getto della conversazione, e ascoltò. Questa volta d’Artagnan s’era ingannato soltanto a metà: non parlavano di lui, bensì del suo cavallo. Il gentiluomo pareva enume­rasse tutte le qualità della bestiale siccome — l’ho già detto — gli ascoltatori parevano avere molta deferenza per il narratore, scoppiavano ogni tanto a ridere.

    Ora, se un mezzo sorriso bastava per offendere la su­scettibilità del giovane, si può immaginare che effetto producesse in lui quella rumorosa ilarità.

    Tuttavia d’Artagnan volle prima rendersi conto della fisonomia dell’impertinente che si burlava di lui. Fis­sò il suo fiero sguardo sullo sconosciuto, e vide che era un uomo dai quaranta ai' quarantacinque anni, dagli occhi neri e penetranti, pallido, dal naso fortemente accentuato, dai baffi neri e perfettamente tagliati; in­dossava giacca e corti calzoni viola, con stringhe del­lo stesso colore, senza altri ornamenti all’infuori de­gli spacchi dai quali passava la camicia. Quei calzoni e quella giubba, benché nuovi, parevano spiegazzati co­me abiti da viaggio che siano stati a lungo rinchiusi in una valigia. D’Artagnan fece tutte ^queste osservazioni con la rapidità dell’osservatore più minuzioso, e certa­mente con un sentimento istintivo che gli diceva che quello sconosciuto doveva avere molta influenza sul suo avvenire.

    Nel momento in cui d’Artagnan fissava lo sguardo sul gentiluomo dalla giubba violetta, questi faceva sul ca­vallino bearnese una delle sue più sapienti e profonde critiche; i due ascoltatori scoppiarono dalle risa, ed egli stesso, contrariamente alla sua abitudine, lasciò visibilmente entrare, se così si può dire, sulla propria faccia un pallido sorriso. Quella volta non c’era più dub­bio, d’Artagnan era realmente insultato. Allora si calcò il berretto sugli occhi e cercando di copiare l’espressione che aveva sorpresa qualche volta, in Guascogna, sul viso dei signorotti in viaggio, si fece avanti con una mano sull’elsa della spada e l’altra appoggiata sull’an­ca. Disgraziatamente man mano che si avvicinava allo sconosciuto, la collera l’accecava sempre più, e invece del degno e altero discorso che aveva preparato per for­mulare la sua provocazione, non trovò più sulla punta della lingua che un’espressione volgare, che accompa­gnò con gesto furioso:

    — Eh! signore, — gridò — signore che vi nascondete dietro quell’imposta! sì, voi, ditemi dunque un po’ per­chè ridete, così rideremo insieme.

    Il gentiluomo portò lentamente lo sguardo dalla ca­valcatura al cavaliere, come se gli fosse stato necessario un certo tempo per capire che proprio a lui erano ri­volti gli strani rimproveri; poi, quando non potè ave­re più nessun dubbio, le sue sopracciglia si aggrot­tarono leggermente, e dopo una pausa abbastanza lun­ga, con un accento d’ironia e d’insolenza impossibile a descrivere, rispose a d’Artagnan:

    — Non vi parlo, signore!

    — Ma vi parlo io ! — esclamò il giovane esasperato da quell’insieme di insolenza e di buone maniere, di cortesia e di disdegno.

    Lo sconosciuto lo guardò ancora un momento col suo leggero sorriso, e, ritirandosi dalla finestra, uscì lenta­mente dalla locanda per andare a piantarsi a due passi da d’Artagnan, di fronte al cavallo. Il suo contegno tranquillo e la sua espressione ironica avevano raddop­piato l’ilarità dei due coi quali parlava, i quali erano rimasti alla finestra.

    D’Artagnan, vedendolo arrivare, sfoderò di un piede la spada.

    — Certamente questo cavallo è, o meglio, è stato in gioventù ranuncolo giallo — riprese lo sconosciuto con­tinuando le osservazioni cominciate e rivolgendosi ai suoi ascoltatori della finestra, e pareva che non si ac­corgesse minimamente dell’esasperazione di d’Artagnan, che tuttavia si ergeva loro in mezzo. — È un co­lore conosciutissimo in botanica, ma finora molto raro nei cavalli.

    - Ride del cavallo chi non osa ridere del cavaliere!

    — grido l’emulo di TréviIle furibondo.

    - Io non rido spesso, signore, — riprese lo sconosciuto - come potete constatarlo dall’espressione del mio viso; ma tuttavia ci tengo a conservare il privilegio di ridere quando mi piace.

    — E io - gridò d’Artagnan — non voglio che si rida quando non piace a me!

    — Davvero , signore? — continuò lo sconosciuto più che mai calmo — ebbene, è giustissimo! — E girando sui talloni, si accinse a Rientrare nella locanda dalla porta grande, sotto la quale d’Artagnan arrivando ave­va notato un cavallo sellato.

    Ma d’Artagnan non era carattere da lasciar andare così un uomo che aveva avuto l’insolenza di burlarsi di lui. Sfoderò del tutto la spada e lo inseguì gridando:

    — Voltatevi, voltatevi dunque, signor beffeggiatore, non voglio colpirvi nella schiena.

    — Colpir me? — disse l’altro girando sui talloni e guardando il giovane con sorpresa e disprezzo. — Via, via, mio caro, siete pazzo! Poi a bassa voce, come parlasse a se stesso:

    - È seccante — continuò; che felice scoperta per Sua Maestà che cerca dei coraggiosi da per tutto per arruolarli nei suoi moschettieri!

    Aveva appena finito, quando d’Artagnan gli affibbiò un così furioso colpo di punta, che se non avesse fatto un repentino salto indietro, quella sarebbe stata, molto probabilmente, l’ultima volta che aveva scherzato. Lo sconosciuto capì allora che la cosa andava più in là della burla, cavò la spada e si mise gravemente in guar­dia. Ma nello stesso momento i suoi due ascoltatori, accompagnati dall’albergatore, s’avventarono su d’Ar­tagnan, menando gran colpi di bastone, di palettate di pinzetta. Questo fatto portò un cambiamento così ra­ pido e così assoluto nel combattimento, che l’avversa­ rio di d’Àrtagnan — mentre questi si voltava per far fronte a quella gragnuola di colpi — ringuainò la spa­da e, da attore, diventò spettatore del combattimento, con la solita impassibilità, borbottando nondimeno:

    — Che pèste questi Guasconi! Rimettetelo sul suo ca­vallo arancione e che se ne vada!

    – Non prima di averti ammazzato, v ile! — gridò D’Artagnan, sempre facendo fronte come meglio poteva e senza indietreggiare di un passo dai tre nemici, che lo caricavano di colpi.

    — Ancora una guasconata — mormorò il gentiluo mo. — Sul mio onore, questi Guasconi sono incorreg gibili! Continuate a ballare, giacché lo vuole. Quando sarà stanco, dirà che ne ha abbastanza.

    Ma lo sconosciuto non sapeva ancora con quale spec ie di testardo avesse a che fare; d’Artagnan era uomo da non domandar mai grazia. Il combattimento conti nuò per qualche secondo ancora; infine d’Artagnan sfinito, lasciò sfuggire la spada, che un colpo di basto! ne spezzò in due. Nello stesso momento un altro colpo che gli arrivò sulla fronte lo rovesciò a terra tutto san­ guinante e semisvenuto.

    In quel momento, da ogni parte, accorse la gente sul luogo della scena. L’albergatore, temendo uno scanda­lo, trasportò, con l’aiuto dei servi, il ferito in cucina, dove gli fu prodigata qualche cura.

    Il gentiluomo aveva ripreso il suo posto alla fine­stra e guardava con una certa impazienza tutta quel­la folla, che fermandosi proprio lì pareva gli mettesse addosso una viva contrarietà.

    — Ebbene, come va quell’arrabbiato? — riprese vol­tandosi al rumore dell’uscio che. s’apriva c rivolgendosi al locandiere che veniva a informarsi della sua salute.

    — Vostra Eccellenza è sano e salvo? — domandò.

    — Si, perfettamente sano e salvo, caro albergatore; sono io che vi domando che ne è stato del nostro gio­vane.

    — Sta meglio — rispose l’altro; — è svenuto del tutto.

    — Davvero? — fece il gentiluomo.

    — Ma prima di svenire ha radunate tutte le sue forze per chiamarvi e sfidarvi chiamandovi.

    — Ma, dunque, è il diavolo in persona quel giova­notto! — esclamò lo sconosciuto.

    — Oh! no, Eccellenza, non è il diavolo, — riprese l’albergatore con una smorfia di disprezzo — poiché durante lo svenimento lo abbiamo perquisito, e nel suo fagotto non ha che una camicia e nella borsa dodici scudi; ma ciò non gli ha impedito di dire che se simile cosa fosse successa a Parigi, ve ne sareste pentita subito, mentre qui non ve ne pentirete che più

    — Allora — disse freddamente lo sconosciuto qualche principe del sangue, travestito.

    — Vi dico questo, signore, perchè stiate in guardia

    _ Non ha nominato nessuno nei suoi sfoghi?

    — Sì, batteva sulla tasca, e diceva: «Vedremo cosa ne penserà il signor di Tréville di questo affronto fatto al suo protetto ».

    - Il signor di Tréville? — disse lo sconosciuto pre­ stando maggior attenzione; — batteva sulla tasca facen­ do il nome di Tréville?... Via, caro albergatore; men­ tre il giovane era svenuto, voi non vi siete, certamente, astenuto dal frugare anche in quella tasca. Che c’era?

    — Una lettera indirizzata al signor di Tréville, capi­tano dei moschettieri.

    — Davvero?

    — È proprio come ho l’onore di dirvi, Eccellenza. L’albergatore, che non era dotato di grande perspi­cacia, non notò l’espressione che le sue parole avevano dato al viso dello sconosciuto. Costui lasciò la finestra cui era sempre rimasto appoggiato coi gomiti, e aggrottò le sopracciglia come un uomo inquieto:

    — Diavolo! — mormorò fra i denti — che Tréville mi abbia mandato questo Guascone? è molto giovane! Ma un colpo di spada è un colpo di spada, qualunque sia l’età di colui che lo dà, e si diffida meno di un ragazzo che di un uomo; alle volte basta un debole ostacolo per mandare all’aria un progetto.

    E lo sconosciuto si immerse per qualche minuto nelle proprie riflessioni.

    — Vediamo, locandiere, — diss’egli — non potreste sbarazzarmi di quel forsennato? In coscienza, non posso ammazzarlo, e tuttavia, — aggiunse con un’espressione assai minacciosa — tuttavia mi dà noia. Dov’è?

    — In camera di mia moglie, dove stanno medican­ dolo, al primo piano.

    — I suoi vestiti e il suo sacco sono con lui? Non ha levato la giubba?

    — Altro che, tutto è giù, in cucina. Ma poiché vi dà Boia, questo giovane pazzo...

    — Certamente. Ha suscitato nella vostra locanda un tale scandalo che la gente onesta non può sopportare. Salite in camera vostra, fatemi il conto, e avvertite il mio servitore.

    — Che! Il signore ci vuole lasciare di già?

    — Lo sapevate bene, poiché vi avevo dato l’or dine di sellare il mio cavallo. Non sono stato ubbidito?

    — Sì, e, come Vostra Eccellenza ha potuto vedere, il suo cavallo è pronto per partire, sotto il portone.

    — Va bene, fate quello che vi ho finto, allora.

    — Oh! — disse fra sè l’albergatore — che abbia paura di quel ragazzo?

    Ma un’occhiata dello sconosciuto non gli permise di andare avanti. Salutò umilmente e uscì.

    — Non bisogna che milady si accorga di questo bric­cone —- continuò lo straniero; — non deve tardare a passare; è già in ritardo. È meglio ch’io monti a cavallo e le vada incontro... Se solamente potessi sapere cosa contiene la lettera indirizzata al signor di Tréville!

    E lo sconosciuto, sempre borbottando, si diresse verso la cucina.

    Intanto l’albergatore, che ormai non dubitava più che era la presenza del giovane a far allontanare lo sconosciuto, era salito in camera della moglie, e vi aveva trovato d’Artagnan padrone finalmente dei propri sensi. Allora, pur facendogli capire che la polizia avreb­be potuto fargli un brutto scherzo, per aver provocato un gran signore, poiché, secondo il locandiere, lo sco­nosciuto non poteva essere che un gran signore, lo obbligò, nonostante la debolezza, ad alzarsi e a conti­nuare per la sua strada. D’Artagnan, mezzo stordito, senza giacca e con la testa tutta, bendata, si alzò, e, spin­to dall’albergatore, cominciò a scendere; ma arrivando in cucina, la prima cosa che vide fu il suo provocatore, che parlava tranquillamente sul montatoio di una pe­sante carrozza attaccata a due grossi cavalli normanni.

    La sua interlocutrice, della quale si scorgeva la testa incorniciata dallo sportello, era una donna dai venti ai ventun anni. Abbiamo già detto con quale rapidità investigatrice d’Artagnan abbracciasse completamente una fisionomia; vide dunque alla prima occhiata che la don­na era giovane e bella. Quella bellezza lo colpì mag­giormente perchè era perfettamente sconosciuta nei pae­si meridionali dov’egli era fino allora vissuto. Era una giovane pallida e bionda, dai lunghi capelli inanellati che le ricadevano sulle spalle, dai grandi occhi azzur­ri e languidi, dalle labbra rosee e dalle mani di ala­bastro. Parlava molto animatamente con lo sconosciuto.

    — Così, Sua Eminenza mi ordina... — diceva la gio­vane donna.

    —- Di tornare immediatamente in Inghilterra, e di avvisarlo direttamente se il duca lascia Londra.

    — E in quanto alle altre istruzioni? — domandò la bella viaggiatrice.

    - Sono rinchiuse in questa scatola, che aprirete soltanto quando sarete sull’altra sponda della Manica.

    - Benissimo; e voi che fate?

    - Io ritorno a Parigi.

    - Senza castigare quell’insolente ragazzo? — doman­dò la signora.

    Lo sconosciuto stava per rispondere, ma, mentre apri­ va la bocca, d’Artagnan, che aveva udito tutto, si slan­ciò sulla soglia.

    — È quest’insolente ragazzo che punisce gli altri!

    — esclamò — e spero bene che questa volta colui che devo punire non mi sfuggirà come la prima.

    — Non vi sfuggirà? — rispose lo sconosciuto aggrot­tando le sopracciglia.

    — No, davanti a una donna, non oserete fuggire, credo.

    — Pensate, — esclamò milady vedendo che il genti­luomo metteva mano alla spada — pensate che il mi­nimo ritardo può perdere tutti.

    — Avete ragione — esclamò il gentiluomo; — parti­te dunque, che io faccio altrettanto!

    E salutando la dama con un cenno del capo, si slan­ciò sul suo cavallo, mentre il cocchiere della vettura fru­stava energicamente il suo attacco. I due partirono al galoppo, allontanandosi da parti opposte.

    — Eh! il vostro conto — gridò l’albergatore, il cui affetto per il viaggiatore si cambiava in un profondo sdegno, vedendo che se ne andava senza pagare il conto.

    — Pagate, cialtrone — gridò il viaggiatore, sempre galoppando, al suo servitore, che gettò ai piedi del lo­candiere due o tre pezzi d’argento e seguì il padrone al galoppo.

    — Ah! vile, ah! miserabile, ah! falso gentiluomo — gridò d’Artagnan slanciandosi a sua volta dietro il servitore

    Ma il ferito era troppo debole ancora per sopportare una simile scossa. Non appena ebbe fatto dieci passi, le orecchie gli cominciarono a ronzare, fu preso da un forte capogiro, una nube sanguigna gli passò sugli oc­chi e cadde in mezzo alla strada gridando ancora:

    — Vile! vile! vile!

    _ Infatti è assai vile — mormorò il locandiere av­vicinandosi a d’Artagnan e cercando con questa adula­zione di rappacificarsi col povero giovane, come l’ai­rone della fiaba con la lumaca della sera.

    — S ì, molto vile — mormorò d’Artagnan; - ma lei, com’è bell

    - Chi, lei? — domandò l’albergatore.

    — Milady — balbettò d’Artagnan.

    E svenne per la seconda volta.

    — È lo stesso, — disse il locandiere — ne perdo due, m a mi resta questo qui, che sono sicuro dovrà fermarsi almeno qualche giorno. Sono sempre undici scudi guadagnati.

    Sappiamo che undici scudi erano giusto la somma che restava nella borsa di d’Artagnan.

    L’albergatore aveva fatto il conto su undici giorni di malattia a uno scudo al giorno; ma aveva fatto i conti senza il suo viaggiatore. L’indomani, alle cinque del mattino, d’Artagnan s’alzò, scese egli stesso in cucina, domandò — oltre ad altri ingredienti la cui lista non è giunta sino a noi — un po’ di vino, olio, rosmarino e, con la ricetta della madre sotto gli occhi, si preparò un unguento col quale si unse le numerose ferite, rin­novando le compresse da sè e non volendo consulta­re nessun medico. Per ’merito certamente dell’efficacia dell’unguento di Boemia, e forse anche per la man­canza assoluta di dottori, d’Artagnan si trovò in piedi la sera stessa, e il giorno dopo era quasi guarito.

    Ma al momento di pagare il rosmarino, l’olio e il vino, la sola spesa di d’Artagnan, che era stato a dieta assoluta, mentre invece il cavallo giallo, almeno secon­do l’albergatore, aveva mangiato tre volte di più di quello che si poteva supporre data la sua grossezza, il giovane non si trovò in tasca che la borsa di velluto consunto con gli undici scudi; la lettera indirizzata al signor di Tréville era sparita.

    Il giovane cominciò a cercare là lettera con molta pa­zienza, voltando e rivoltando venti volte le tasche e i taschini, frugando e rifrugando nel sacco, aprendo e richiudendo la borsa; ma quando si fu convinto che la lettera era introvabile, fu preso da un terzo acces­so di collera che per poco non gli fece consumare al­tro vino e altro olio aromatico; poiché nel vedere quel­la giovane testa balzana riscaldarsi e minacciare di fracassar tutto se non si ritrovava la sua lettera, l’al­bergatore s’era armato di uno spiedo, sua moglie di un manico di scopa, e i servi degli stessi bastoni che erano serviti due giorni prima.

    — La mia lettera di raccomandazione! — gridava D’Artagn an; la mia lettera di raccomandazione ! corpo di Bacco, o vi infilo tutti come uccelli!

    Disgraziatamente c’era un ostacolo che impediva al giovane di mettere in atto la sua minaccia: come ab­biamo detto, la sua. spada era stata rotta in due pezzi nel primo combattimento, cosa che egli aveva assoluta- mente scordato. Di conseguenza, quando d’Artagnan fece per sfoderare la spada, si trovò armato semplice- mente e puramente di un mozzicone di spada di otto o di eci pollici circa, che il locandiere aveva accuratamente rimesso nel fodero. Quanto al resto della lama, il ca­pocuoco l’aveva abilmente trafugata per farsene uno spiedo.

    Tuttavia, questo disinganno non avrebbe probabilmen­te arrestato il nostro focoso giovane, se l’albergatore non avesse riflettuto che le proteste del viaggiatore erano giustissime.

    — Ma, insomma, — diss’egli abbassando lo spiedo — dov’è questa lettera?

    — Sì, dov’è questa lettera? — gridò d’Artagnan. — Prima di tutto vi prevengo che quella lettera è per il signor di Tréville, e bisogna ritrovarla; e se non si ri- troverà, saprà ben farla ritrovare lui!

    Questa minaccia finì per intimidire del tutto l’alber­gatore. Dopo il re e il cardinale, il signor di Tréville era l’uomo il cui nome era ripetuto molto spesso dai mi­litari e dai borghesi. C’era, è vero, padre Joseph, ma il suo nome veniva pronunciato a bassa voce, tanto grande era il terrore che ispirava l’Eminenza grigia, come ve­niva chiamato l’amico di casa del cardinale.

    Di modo che il locandiere, gettando lontano lo spiedo e ordinando alla moglie di fare altrettanto del manico di scopa e ai servi dei bastoni, diede per primo l’esem­ pio mettendosi egli stesso in cerca della lettera smarrita.

    — La lettera conteneva qualcosa di prezioso? — do­mandò l’albergatore dopo un momento d’inutili ri­cerche.

    — Perbacco! lo credo! — esclamò il Guascone che contava su quella lettera per essere introdotto a corte; — conteneva la mia fortuna.

    — Son forse buoni sulla Spagna? — chiese l’altro in­ quieto.

    - Son buoni sul tesoro particolare di Sua Maestà — rispose D’Artagnan che, sperando entrare al servizio del Re, in grazia di quella raccomandazione, credeva di poter dare senza mentire quella risposta un po’ arrischiata.

    — Diavolo! — fece l’albergatore proprio disperato.

    — Ma non importa, — continuò d’Artagnan con la disinvoltura nazionale — non importa, e il denaro non è nulla; quella lettera è tutto. Avrei preferito perdere mille pistole che smarrire la lettera.

    Non arrischiava nulla a dire ventimila, ma un certo pudore giovanile lo trattenne.

    Un lampo passò a un tratto nello spirito del locan­diere che si disperava di non ritrovar nulla.

    — La lettera non è perduta — disse.

    — Ah! — fece d’Artagnan.

    — No, è stata presa.

    — Presa! e da chi?

    — Dal gentiluomo di ieri. È sceso in cucina, dov’era la vostra giacca. Vi è rimasto solo. Scommetterei che l’ha rubata lui.

    — Credete? — rispose d’Artagnan poco convinto, poiché sapeva meglio d’ogni altro l’importanza perso­nale della lettera, e non vi vedeva nulla che potesse su­scitar cupidigie. Infatti nessuno dei servi, nessuno dei viaggiatori presenti avrebbe guadagnato qualcosa pos­sedendo quel foglio.

    — Dite dunque, — riprese d’Artagnan — che avete dei sospetti su quell’impertinente gentiluomo?

    — Vi dico che ne sono sicuro; quando gli ho detto che eravate il protetto del signor di Tréville, e che ave­vate anche una lettera per l’illustre gentiluomo, è ap­parso molto inquieto, m’ha chiesto dov’era la lettera, ed è sceso immediatamente in cucina, dove sapeva che c’era la vostra giacca.

    — Allora, il ladro è lui — rispose d’Artagnan; — me ne lagnerò col signor di Tréville, e il signor di Tréville lo dirà al re. — Poi cavò maestosamente due scudi di tasca, li diede all’albergatore, che lo accompagnò, col cappello in mano, sino alla porta, montò sul cavallo giallo, che, senza altri incidenti, lo condusse fino alla porta Sant’Antonio a Parigi, dove U suo proprietario lo vendette per tre scudi, fin troppo per quel cavallo, tanto più che d’Artagnan l’aveva strapazzato assai nel­l’ultima tappa. Il sensale al quale d’Artagnan lo ce­dette per le suddette nove lire, non nascose al giovane che gli dava quella somma esorbitante soltanto per l’o­riginalità del colore.

    D’Artagnan, dunque, entrò in Parigi a piedi, coll’in­volto sotto il braccio, e camminò fin che trovò una ca­mera d’affitto che convenisse all’esiguità delle sue risorse. Quella camera era una specie di soffitta, in via des Fossoyeurs, vicino al Lussemburgo.

    Data la caparra, d’Artagnan prese possesso del suo alloggio, e passò il restò della giornata a cucire, sulla sua giubba e sui calzoni, dei passamani che sua madre aveva staccato dalla giubba del signor d’Artagnan padre, e gli aveva dato di soppiatto; poi andò al quai de la Ferratile a far mettere una lama alla sua spada; poi tornò al Louvre per informarsi, dal primo mo­schettiere che incontrò, dove fosse la casa del signor di Trévil le, che era posta proprio nelle vicinanze della ca­mera affittata da d’Artagnan: circostanza questa che gli parve di buon augurio per il successo del suo viaggio.

    Dopo di che, contento del modo come si era compor­tato a Meùng, senza rimorsi, fiducioso nel presente e pieno di speranza nell’avvenire, si coricò e s’addor­mentò del sonno del giusto.

    Quel sonno, ancora interamente provinciale, lo ac­ compagnò sino alle nove del mattino, ora in cui egli si alzò per andare dal famoso signor di Tréville, il terzo personaggio del regno, secondo il giudizio paterno.

    II - L'anticamera del signor di Tréville

    Il signor di Troisville, come si chiama ancora la sua famiglia in Guascogna, o signor di Tréville, come aveva finito col chiamarsi a Parigi, aveva veramente comin­ciato come d’Artagnan, cioè senza un soldo, ma con quell’audacia, quello spirito e quell’intelligenza, che fanno sì che il più povero nobiluccio guascone riceva spesso assai più, nelle sue speranze, di quello che in realtà non riceva, sull’eredità paterna, il più ricco gen­tiluomo del Berry o del Périgord. La sua temerarietà insolente, la sua fortuna ancora più insolente in un’e­poca in cui i colpi piovevano come grandine, l’avevano portato in cima a quella difficile scala che vièn chiamata il favore della corte, di cui egli aveva scalato i gradini a quattro a quattro.

    Era l’amico del re, che onorava assai, come si sa, la memoria del padre Enrico IV. Il padre del signor di Treville l'aveva servito così fedelmente nelle guerre contro la Lega che, non avendo denaro — cosa che mancò sempre al Bearnese , il quale pagò ognora i suoi debiti con la sola cosa che non aveva bisogno di chiedere in prestito, cioè con lo spirito, — che non avendo da­naro, dicevamo, l’aveva autorizzato, dopo la resa di Pa­rigi, a prendere per stemma un leone d’oro con questo motto: fidelis et fortis. Era molto per l’onore, ma pochi- no per la borsa. Così, quando l’illustre compagno del grande Enrico morì, lasciò per eredità al suo signor figlio soltanto la spada e l'uniforme. Per merito di que­sti due doni e del nome senza macchia che l’accompa­gnava, il signor di Tréville fu ammesso nella casa del giovane principe, dove adoperò così bene la spada e fu così fedele alla sua divisa, che Luigi XIII, una delle buone spade del regno, aveva l’abitudine di dire che, se ci fosse stato un amico che doveva battersi, gli avreb­be dato il consiglio di prendere per secondo, prima lui stesso, il re, e poi Tréville, e forse Tréville anche prima di lui.

    Luigi XIII nutriva un vero e proprio affetto per Tré- ville, affetto regale, affetto egoistico, è vero, ma non perciò meno tenacé. In quei malaugurati tempi tutti cercavano di circondarsi di uomini della tempra di Tré- ville. Molti potevano prender per motto la parola forte, che formava la seconda parte del suo, ma pochi gen­tiluomini potevano pretendere l’aggettivo fedele che ne formava la prima parte. Tréville era uno di quest‘ultimi; era uno di quegli esseri dall’intelligenza ubbidiente come quella dei dogi, dal valore cieco, dal­l’occhio sveglio, dalla mano pronta; la vita gli era stata data soltanto per vedere se il re era malcontento di qualcuno, e la mano soltanto per colpire quel seccante qualcuno, un Besme, un Maurevers, un Poltrot di Meré, un Vitry. A Tréville non era mancata l’occasione; ma egli la spiava e si riprometteva di afferrarla pei suoi tre capelli se mai gli passasse a portata di mano. Di modo che Luigi XIII fece di Tréville il capitano dei moschettieri, che erano per Luigi XIII, — per la devo­zione o meglio per il fanatismo — quello che i rego­lari erano per Enrico III e quello che la guardia scoz­zese era per Luigi XI.

    Da parte sua e sotto questo rapporto, il cardinale non era da meno del re. Quando aveva visto di quanta gen­te fedele si era circondato, quel secondo o meglio quel primo re di Francia, aveva voluto anche lui avere la propria guardia. Ebbe dunque i propri' moschettieri come Luigi XIII aveva i suoi, e si vedevano queste due potenze rivali scegliere, per metterli al proprio servizio, gli uomini più celebri, per i gran colpi di spada, in tutte le province della Francia e anche in tutti gli Stati stra­nieri. Così Richelieu e Luigi XIII si disputavano, spesso, la sera, facendo la partita a scacchi, il merito dei loro servitori. Ognuno vantava il coraggio e la fermezza dei propri; e pur pronunciandosi ad alta voce contro i duelli e le risse, li eccitavano a bassa voce a venir alle mani, ed erano capaci di un vero dolore o di una gioia smo­derata per la disfatta o la vittoria dei propri fedeli.

    Così almeno narrano le Memorie di un uomo che si trovò in qualcuna di quelle disfatte e in molte di quelle vittorie.

    Tréville aveva preso il padrone dal lato debole, e do­veva proprio, a questo suo modo di fare, il lungo e co­stante favore di un re che non ha lasciato fama di es­sere stato molto fedele alle amicizie.

    Egli faceva sfilare in parata i suoi moschettieri da­vanti al cardinale Armando Duplessis, con un’aria bef­farda che faceva rizzare dalla collera i baffi di Sua Emi­nenza. Tréville comprendeva benissimo la guerra di quell’epoca, in cui, quando non si viveva al soldo dei nemici, si viveva al soldo dei propri compatrioti; i suoi soldati formavano una legione di diavoli a quattro, in­disciplinata con tutti fuorché con lui.

    Scomposti, avvinazzati, sboccati, i moschettieri del re o meglio del signor di Tréville, invadevano le bet­tole, i passeggi, i luoghi di divertimento, gridando forte e rialzando i baffi, facendo tintinnare la spada, urtando con voluttà le guardie del cardinale quando le incon­travano; poi sguainavano la spada in mezzo alla strada, con mille scherzi; se qualcuno veniva ucciso, era sicuro di esser pianto e vendicato; se erano loro ad uccidere erano sicuri di non ammuffire in prigione, perchè Tréville era pronto a reclamare la liberazione. Il signor di Tréville era assai lodato da quegli uomini che l’adora­vano e che, per quanto fossero uomini scapestrati, tre­mavano davanti a lui come scolari davanti al maestro, lo ubbidivano al minimo cenno, pronti a farsi ammaz­zare per cancellare il più lieye rimprovero.

    Il signor di Tréville si era valso di quella potente leva, prima per il re e gli amici del re, poi per se stes­so e per i suoi amici.

    Del resto, in nessuna delle Memorie di quel tempo, — che ne ha lasciate tante — si legge che quel degno gentiluomo sia stato accusato, neanche dai suoi nemi­ci, e ce n’erano molti, tanto fra gli scrittori quanto tra gli spadaccini; in nessun documento si legge, diciamo, che quel degno gentiluomo sia stato accusato di farsi pagare la cooperazione dei suoi seguaci. Con una rara intelligenza di intrigante, che lo faceva stare al pari dei più forti intriganti, era rimasto un uomo onesto. Per di più, a dispetto delle grandi stoccate che sfianca­no e degli esercizi penosi che affaticano, egli era di­ventato uno dei più galanti libertini, uno dei più com­piti damerini, uno dei più lambiccati dicitori di involu­te istorie del suo tempo; si parlava della fortuna di Tréville come, vent’anni prima, si era parlato di quella di Bassompierre, ed è tutto dire. Il capitano dei moschet­to ri era dunque ammirato, temuto ed amato, cosa che costituisce l’apogeo delle fortune umane.

    Luigi XIV assorbì nel suo grande splendore tutti i piccoli astri della sua corte; ma suo padre, sole pluribus impar, lasciò il proprio splendore personale a tutti i suoi favoriti, e il valore individuale a tutti i suoi cor­tigiani. Oltre alla corte del re e a quella del cardinale, c’erano a Parigi più di duecento piccole corti un po’ ricercate. Fra i duecento piccoli cenacoli, quello di Tréville era uno dei più frequentati.

    Il cortile di casa sua, posta in via du Vieux-Coloinbier, fin dalle sei del mattino d’estate e dalle otto d’in­verno assomigliava a un accampamento. Cinquanta o ses­santa moschettieri, che pareva si dessero il cambio per essere sempre in un numero imponente, vi passeggiava­no sempre armati di tutto punto e pronti a ogni evento. Lungo una delle grandi scalinate in cima alla quale la nostra moderna civiltà costruirebbe un’intera casa, sa­livano e scendevano i sollecitatori di un qualsiasi fa­vore, i gentiluomini di provincia desiderosi d'essere ar­ruolati, e i lacchè ornati di passamani d'ogni colore, che venivano a portare al signor di Tréville le amba­sciate dei loro padroni. In anticamera, su lunghe pan­che circolari riposavano gli eletti, cioè quelli che erano stati chiamati. Dalla mattina alla sera era un continuo brusio, mentre il signor di Treville, in un gabinetto attiguo all’anticamera, riceveva le visite, ascoltava le querele, dava ordini, e, come il re al suo balcone, non aveva che da andare alla finestra per passare in rivista uomini e armi.

    Il giorno in cui d'Artagnan si presentò» l'assembra­mento era imponente, specialmente per un provinciale appena arrivato dalla provincia: vero è che quel pro­vinciale era Guascone e che soprattutto in quell’ epoca i compatrioti di d’Artagnan avevano fama di non la­sciarsi facilmente intimidire. Infatti, una volta oltre­passata la porta massiccia, munita di lunghi chiodi dalla testa quadrangolare, ci si trovava in mezzo a una folla di spadaccini che si incrociavano nel cortile, chiaman­dosi, disputando, e scherzando fra loro. Per aprirsi un varco fra tutto quell’ondeggiante turbinìo, bisognava es­sere ufficiali, o gran signorino belle dame.

    In mezzo a quel pigia pigia e a quel disordine, il no­stro giovane si fece avanti col cuore palpitante, reg­gendo la spada lungo le magre gambe, e tenendo una mano sul cappello con quel mezzo sorriso del provin­ciale che vuol darsi un contegno. Quando era passato attraverso un gruppo, respirava più liberamente; ma capiva che si voltavano per guardarlo e, per la prima volta in vita sua, d’Artagnan, che sino allora aveva avuto una buona opinione di sé; si trovò ridicolo.

    Arrivato ai piedi della scala, fu peggio ancora: sul primo scalino c’erano quattro moschettieri che si di­vertivano a fare il seguente esercizio, mentre dieci o dodici camerati aspettavano sul pianerottolo che venisse il loro turno per prender parte al gioco:

    Uno di loro, che stava sullo scalino superiore, con la spada sguainata, impediva o almeno cercava di im­pedire agli altri tre di salire.

    Questi altri tre si difendevano con la loro spada agi­lissima. D’Artagnan credette a tutta prima che quelle armi fossero fioretti da sellerina spuntati ; ma ben pre­sto s’accorse, a certe graffiature, che ogni arma era accuratamente affilata e appuntita, e ad ognuna di quel­le scalfitture, non solo gli spettatori, ma anche gli at­tori ridevano come matti.

    Colui che in quel momento stava sullo scalino supe­riore, teneva meravigliosamente in rispetto gli avversa­ri. Gli altri avevano fatto circolo intorno a loro; il patto era che, a ogni colpo, il toccato doveva lasciar la parti­ta e perdeva il suo turno di udienza a profitto del vin­citore. In cinque minuti tre furono feriti, uno al pol­so, l’altro al mento, l’altro all’orecchio, dal difensore dello scalino che però non fu raggiunto; abilità che gli fruttò, secondo i patti convenuti, tre turni di favore.

    Per quanto quel passatempo fosse meno difficile di quello che poteva apparire, sorprese il nostro giovane viaggiatore; egli aveva visto nella sua provincia, in quella terra dove pure le teste si scaldano così facil­mente, preparativi un po’ più laboriosi ai duelli, e la guasconata di quei quattro spadaccini gli parve la più audace di quelle udite fino allora, anche in Guascogna.

    Si credette trasportato nel famoso paese dei giganti, dove più tardi Gulliver andò ed ebbe tanta paura; e tuttavia d’Artagnan non era ancora giunto alla mèta; restavano ancora il pianerottolo e l'anticamera.

    Sul pianerottolo più nessuno si batteva, si racconta­vano storie di donne, e nell’anticamera fatti di corte. Sul pianerottolo d’Artagnan arrossì, nell’anticamera rabbrividì. La sua sveglia e vagante immaginazione, che in Guascogna lo faceva temere dalle cameriere e dalle giovani innamorate, non aveva mai pensato, neanche nei momenti di delirio, la metà di quelle meraviglie amo­rose e la quarta parte di quelle prodezze galanti, rese più importanti dai nomi noti e dai particolari meno velati. Ma se sul pianerettolo fu assai scosso il suo amore pei buoni costumi, il suo rispetto per il cardi­nale fu scosso in anticamera. Lì, con sua gran sorpre­sa, d’Artagnan sentì criticare ad alta voce la politica che faceva tremare l'Europa, e la vita privata del car­dinale, quella vita per cui tanti alti e potenti signori, avendo cercato di scandagliarla, erano stati puniti; quel grand'uomo, riverito da d’Artagnan padre, serviva da zimbello ai moschettieri del signor di Tréville, che de­ridevano le sue gambe a x e la sua schiena ricurva; qualcuno cantava delle canzoni sulla signora d’Aiguillou, sua amante, e sulla signora de Combalet, sua ni­pote, mentre altri leggevano brani contro i paggi e le guardie del cardinale-duca, tutte cose che a d’Artagnan parevano mostruose invenzioni.

    Tuttavia, quando, in mezzo a quei frizzi contro il cardinale, veniva fatto improvvisamente il nome del re, una specie di bavaglio chiudeva per un momento tutte quelle bocche beffarde; guardavano esitanti in­torno a loro, e parevano temere l'indiscrezione della parete del gabinetto del signor di Tréville; ma ben presto un'allusione riportava la conversazione su Sua Eminenza, e allora si ripetevano gli scoppi di risa, e su ogni sua azione non veniva risparmiata la luce.

    — Ecco della gente che certamente vuol essere impri­gionata e impiccata, — pensò d'Artagnan con terrore - e io con loro, senza dubbio, poiché, dal momento che li ho sentiti e ascoltati sarò ritenuto loro complice. Che direbbe il mio signor padre, che mi ha tanto raccoman­dato di rispettare il cardinale, se mi sapesse in mez zo a simili pagani?

    — Di modo che, come ognuno può immaginare senza che io lo dica, d’Artagnan non osava entrare nella conver­sazione; soltanto era tutt’occhi per guardare e tutt’orecchi per ascoltare, tendendo avidamente i cinque sensi per non perdere nulla e, nonostante la fiducia nelle racco­mandazioni paterne, si sentiva portato, dai suoi gusti e dal suo istinto, a lodare invece che a biasimare le cose inaudite che si dicevano in quel luogo.

    Tuttavia, siccome egli era assolutamente estraneo alla folla dei cortigiani del signor di Tréville, ed era la pri­ma volta che compariva lì in mezzo, gli fu doman­dato che cosa desiderasse. A quella domanda, d’Arta­gnan disse il suo nome con umiltà, si fece forte del ti­tolo di compatriota, e pregò il cameriere, che era venuto a fargli quella domanda, di chiedere per lui al signor di Tréville un momento di udienza, richiesta che il came­riere promise con tono protettore di trasmettere a tem­po e luogo.

    D’Artagnan, rimessosi un po’ dalla prima impressio­ne di sorpresa, ebbe agio di studiare un po’ i costumi e le fisonomie.

    Centro del gruppo più animato, era un moschettiere di grandi proporzioni, dall’espressione altera e vestito così bizzarramente che attirava l’attenzione generale. Non portava, in quel momento, la casacca regolamen­tare, che del resto non era obbligatoria in quell’epoca di libertà minima, ma di grande indipendenza, bensì un giustacuore azzurro, un poco sbiadito e consunto e, so­pra, un balteo magnifico, ricamato d’oro, che luccicava come le scaglie di cui pare si ricopra l’acqua sotto il sole ardente. Un lungo mantello di velluto cremisi ricadeva con grazia dalle spalle, lasciando scoperto soltanto da­vanti lo splendido balteo, da cui pendeva una spada gi­gantesca.

    Quel moschettiere era smontato di guardia proprio allora, si lagnava d’essere infreddato e tossiva ogni tan­to con affettazione. Per ciò aveva preso il mantello, così diceva a quelli che gli stavano intorno, e mentre parlava dall’alto, arricciando sdegnosamente i baffi, gli altri ammiravano con entusiasmo il balteo ricamato, e d’Artagnan più di tutti.

    — Che volete, — diceva il moschettiere — ora viene questa moda; è una pazzia, lo so bene, ma è la moda. D’altra parte bisogna pur adoperare per qualche cosa i denari della propria legittima.

    - Ah! Porthos! — esclamò uno degli astanti — non cercare di farci credere che codesto balteo ti viene dalla generosità paterna; ti sarà stato regalato dalla dama velata con la quale ti ho incontrato domenica scorsa nei pressi di porta Sant’Onorato.

    — No, sul mio onore e sulla mia parola di gentiluo­mo, l’ho comperato io stesso, coi miei denari — rispose colui che era stato chiamato col nome di Porthos.

    — Sì, come io ho comperato — disse un altro mo­schettiere — questa borsa nuova, con quello che la mia amante aveva messo nella borsa vecchia.

    — È vero, — disse Porthos — e la prova è che l’ho pagato dodici pistole.

    L’ammirazione si fece più viva, benché si dubitasse ancora.

    — Non è vero, Aramis? — fece Porthos, rivolgendosi a un altro moschettiere.

    Quest’altro moschettiere formava un perfetto contra­sto con quegli che l’interrogava e che lo aveva chiama­to Aramis; era un giovane di ventidue o ventitré an­ni appena, dal viso ingenuo e buono, dall’occhio nero e dolce, e dalle gote rosee e vellutate come una pesca d’au­tunno; i suoi baffi sottili disegnavano sul labbro superio­re una linea perfettamente diritta; le sue mani pareva avessero paura di abbassarsi pel timore che le vene si gonfiassero, e ogni tanto si pizzicava l’estremità delle orecchie per mantenerle di un incarnato tenero e tra­sparente. Di solito parlava poco e lentamente, saluta­va molto, rideva silenziosamente, mostrando i denti, che erano belli e di cui pareva avere grande cura co­me del resto della persona. Egli rispose con un cenno affermativo alla domanda dell’amico.

    Quella risposta parve dissipare tutti i dubbi sul con­to del balteo; si continuò ad ammirarlo, ma non ne parlarono più, e per uno di quei mutamenti rapidi del pensiero, la conversazione passò improvvisamente su un altro soggetto.

    — Che pensate di quello che racconta lo scudiero di Chalais? — chiese un altro moschettiere senza rivol­gersi direttamente a nessuno, ma interrogando tutti.

    — E che cosa racconta? — domandò Porthos con tono borioso.

    — Racconta che ha trovato a Bruxelles, Rochefort, l’anima dannata del cardinale, travestito da cappuccino; quel maledetto Rochefort, grazie a quel travestimento, aveva turlupinato il signor di Laigues da quel grullo che è.

    — Come un vero gonzo — disse Porthos; — ma la cosa è sicura?

    — Me l’ha riferita Aramis — rispose il moschettiere.

    — Davvero?

    — Eh, lo sapete bene, Porthos, — disse Aramis — l’ho raccontato anche a voi, ieri; non parliamone più, dunque.

    — Non parliamone più, ecco la vostra opinione — riprese Porthos. — Non parliamone più! Diamine! co­me concludete presto. Come! il cardinale fa spiare un gentiluomo, fa rubare la sua corrispondenza da un tra­ditore, un brigante, un pezzo di galera; fa, con l’aiuto di quella spia e grazie a quella corrispondenza, ta­gliar la testa a Chalais, sotto lo stupido pretesto che ha voluto uccidere il re e sposare il signore con la regina. Nessuno sapeva una parola di questo enigma, voi ce lo diceste ieri, con grande soddisfazione di tutti, e mentre siamo ancora tutti sbalorditi per questa notizia, venite a dirci: cr Non parliamone più! ».

    — Parliamone, dunque; vediamo, giacché lo deside­rate — riprese Aramis pazientemente.

    — Quel Rochefort! — esclamò Porthos — se io fossi lo scudiero del povero Chalais, passerebbe con me un brutto quarto d’ora.

    — E voi passereste un brutto quarto d’ora col duca Rosso — riprese Aramis.

    — Ah! il duca Rosso! bravo, bravo, il duca Rosso! — rispose Porthos battendo le mani e approvando con cenni del capo. — Il duca Rosso è incantevole. Diffon­derò la frase; mio caro, siatene tranquillo, non manca di spirito, questo Aramis! Peccato non abbiate potuto seguire la vostra vocazione, mio caro! che delizioso aba­te sareste stato!

    — Oh! non è che un ritardo momentaneo, — ripre­se Aramis — un giorno lo sarò; sapete bene, Porthos, che continuo a studiare teologia per questo.

    — Lo sarà, come dice, — riprese Porthos — lo sarà presto o tardi.

    — Presto — fece Aramis.

    — Non aspetta che una cosa per decidersi definitiva­mente e per riprendere la sottana, che è appesa dietro l’uniforme — riprese un moschettiere.

    — E che cosa aspetta? — domandò un altro.

    — Aspetta che la regina abbia dato un erede alla corona di Francia.

    — Non scherziamo su questo, signori — disse Porthos; — grazie a Dio, la regina è ancora in età di darlo.

    — Si dice che il signor di Buckingham sia in Francia — riprese Aramis con un riso ironico che dava a questa frase, apparentemente semplice, un significato scandaloso.

    — Aramis, amico mio, questa volta avete torto, — interruppe Porthos — e la vostra mania di far dello spirito vi porta sempre oltre i limiti; se il signor di Tré- ville vi udisse, vi pentireste di parlare così.

    — Volete farmi la predica, Porthos! -— esclamò Ara­mis, nel dolce occhio del quale passò come un lampo.

    — Mio caro, siate moschettiere o abate. Siate l’uno o l’altro, ma non tutt’e due — riprese Porthos. — Del resto, Athos ve l’ha detto anche l’altro giorno, che mangiate a tutte le greppie. Ah! non inquietiamoci, sarebbe inutile, sapete bene quello che è stato conve­nuto tra voi, Athos e me. Voi andate dalla signora d’Aiguillon e le fate la corte; andate dalla signora Bois- Tracy, la cugina della signora Chevreuse, e si dice che siate molto innanzi nelle grazie della signora. Oh! mio Dio, non confessate la vostra fortuna, non vi si doman­da il vostro segreto, conosciamo la vostra discrezione. Ma poiché possedete questa virtù, che diavolo! adope­ratela in favore di Sua Maestà! Si occupi chi vuole e co­me si vuole del re e del cardinale; ma la regina è sacra, e se se ne parla, sia per dirne bene.

    — Porthos, siete presuntuoso come Narciso, ve ne av­verto — rispose Aramis; — sapete che odio le prediche morali, salvo quando son fatte da Athos. Quanto a voi, mio caro, avete un balteo troppo magnifico per essere molto forte in fatto di morale. Sarò abate se mi converrà.; nell’attesa, sono moschettiere; e come tale dico quello che mi piace, e in questo momento voglio dirvi che mi seccate.

    — Aramis!

    — Porthos!

    — Eh! signori! signori! — gridarono molte voci in­torno.

    — Il signor di Tréville aspetta il signor d’Artagnan

    — interruppe il servitore aprendo l’uscio del gabinetto.

    A questo annuncio, durante il quale la porta restò aperta, tutti tacquero, e in mezzo al generale silenzio il giovane Guascone traversò in parte l’anticamera ed entrò dal capitano dei moschettieri, ben contento di ri­tirarsi in buon punto per non assistere all’epilogo della bizzarra disputa.

    III - L'udienza

    In quel momento il signor di Tréville era di umore molto cattivo; nondimeno salutò cortesemente il giovane, che s’inchinò fino a terra, e sorrise nell’udire le sue riverenti parole, poiché l’accento bearnese gli ri­cordava ad un tempo la gioventù e il proprio paese, du­plice ricordo che fa sorridere l’uomo a tutte le età. Ma, avvicinandosi quasi subito all’anticamera e facendo un cenno con la mano a d’Artagnan come per doman­dargli il permesso di finire con gli altri prima di co­minciare con lui, egli chiamò tre volte, alzando ogni volta sempre più la voce, di modo che toccò tutti i toni, da quello imperativo a quello irritato:

    — Athos! Porthos! Aramis!

    I due moschettieri coi quali abbiamo già fatto cono­scenza e che rispondevano ai due ultimi dei tre nomi, lasciarono subito il gruppo di cui facevano parte e si diressero verso il gabinetto, la cui porta si richiuse dietro a loro appena ne ebbero varcato la soglia. Il loro contegno, pieno di dignità e di sottomissione nello stesso tempo, benché non fossero del tutto tranquilli, suscitò ugualmente l’ammirazione di d’Artagnan che ve­deva in quegli uomini dei semidei, e nel loro capo un Giove olimpico armato di tutte le sue folgori.

    Quando i due moschettieri furono entrati, quando la porta fu richiusa dietro a loro, quando il brusìo rumo­roso dell’anticamera, — al quale l’improvvisa chiama­ta aveva dato certamente nuovo alimento — fu ricomin­ciato, quando infine il signor di Tréville ebbe misu­rato tre o quattro volte a gran passi — in silenzio e con le sopracciglia aggrottate — la lunghezza del suo studio, passando ogni volta davanti a Porthos e ad Ara­mis, rigido e muto come alla rivista, si fermò di colpo in faccia a loro e squadrandoli dai piedi alla testa con uno sguardo irritato:

    — Sapete che cosa m’ha detto il re, — esclamò — non più tardi di ieri sera, sapete, signori?

    — No — risposero dopo un istante di silenzio i due moschettieri; — no, signore, non lo sappiamo.

    — Ma spero che ci farete l’onore di dircelo — aggiunse Aramis molto cortesemente e facendo una rive­renza.

    — M’ha detto che d’ora in avanti recluterà moschet­tieri fra le guardie del signor Cardinale!

    — Fra le guardie del signor Cardinale! e perché ? — domandò vivacemente Porthos.

    — Perchè vede che il suo vino cattivo ha bisogno di essere corretto con un miscuglio di vino buono.

    I due moschettieri arrossirono fin nel bianco degli occhi.

    D’Artagnan non sapeva che fare e avrebbe voluto essere cento piedi sotto terra.

    — Sì, sì, — continuò il signor di Tréville animan­dosi — e Sua Maestà aveva ragione, poiché, sul mio onore, è vero che i moschettieri fanno brutta figura a corte. Il signor Cardinale raccontava ieri mentre gio­cava col re, con un’aria di condoglianza che mi dispiac­que molto, che ieri l’altro questi dannati moschettieri, questi diavoli a quattro (e diceva queste parole con tono ironico che mi dispiacque ancor più), questi am­mazzasette, aggiunse guardandomi coi suoi occhi di gatto-pardo, si erano attardati in Rue Féron, in una bettola, e che le sue guardie di ronda erano state co­strette ad arrestare i perturbatori. Perbacco! dovete sa­perne qualcosa, voi! Arrestare dei moschettieri! C’eravate anche voialtri, non difendetevi, vi hanno ricono­sciuto e il Cardinale vi ha nominati. Ecco, è colpa mia, sì, è colpa mia perchè scelgo io i miei uomini. Vedia­mo, voi, Aramis, perchè mi avete chiesto di indossare la casacca, quando stareste tanto bene sotto la sottana? Vediamo, voi, Porthos, avete un così bel balteo d’oro soltanto per appendervi una spada di paglia? E Athos! non vedo Athos. Dov’è?

    — Signore, — rispose tristemente Aramis — è ma­lato, molto malato.

    — Malato, molto malato, dite? e di che malattia?

    — Si teme sia vaiolo, signore, — rispose Porthos vo­lendo a sua volta mettere una parola nella conversa­zione — e il peggio è che il suo viso resterà deturpato.

    — Vaiolo? Ecco un’altra fandonia che mi narrate, Porthos! Malato di vaiolo alla sua età? No!... ma feri­to certamente, ucciso forse. Ah! se lo sapevo!... Per Dio! signori moschettieri, non voglio che si pratichino così i ritrovi equivoci, che si letichi per via e si com­batta nei crocicchi. Non voglio, insomma, che si fac­ciano ridere le guardie del signor Cardinale, che sono brava gente, tranquilla, abile, che non si mettono mai nel pericolo d’essere arrestate, e che, d’altronde, non si lascerebbero arrestare, loro! ne sono sicuro. Preferi­rebbero morire al loro posto piuttosto che fare un passo indietro. Mettersi in salvo, svignarsela, fuggire, sono cose che fanno i moschettieri del re, queste!

    Porthos e A ramis fremevano di rabbia. Avrebbero volentieri strangolato il signor di Tréville, se non avessero sentito in fondo che quelle parole erano dettate dal forte amore che aveva per loro. Battevano i piedi sul tappeto, si mordevano le labbra a sangue, e strin­gevano con tutta la forni l'impugnatura della spada. Fuori, gli altri moschettieri avevano sentito chiamare Athos, Porthos e Aramis, e avevano indovinato dal tono di voce che il signor di Tréville era in collera. Dieci te- sto curiose erano appoggiate alla parete e impallidiva­no di furore, poiché le loro orecchie non perdevano una sillaba di quello che si diceva nel gabinetto, mentre le loro bocche ripetevano di mano in mano le parole in­sultanti del capitano a tutta la folla del l'anticamera. In un momento, dall’uscio dell'ufficio alla porta di stra­da, tutta la casa fu in subbuglio.

    Ah! I moschettieri del re si fanno arrestare dalle guardie del signor Cardinale — continuò il signor di Tréville intimamente furibondo come i suoi soldati, ma scandendo le parole e immergendole ad una ad una, per così dire, come altrettante stilettate nel petto dei suoi ascoltatori. — Ah! sei guardie di Sua Eminenza arre- stano sei moschettieri di Sua Maestà! Perbacco! mi son deciso. Di questo passo vado al Louvre; dò le mie di­missioni da capitano dei moschettieri del re per chie­dere di essere assunto come luogotenente nelle guardie del cardinale, e se mi si rifiuta, perdio! mi faccio abate.

    A queste parole il mormorio esterno si tramutò in esplosione di sdegno; dappertutto si udivano ingiurie e bestemmie . I perbacco! perdio! i morte al diavolo! si incrociavano nell'aria. D’Artagnan cercava una tenda dietro cui nascondersi e sentiva una gran voglia di nascondersi sotto il tavolo.

    — Ebbene, capitano — disse Porthos fuori di se — la verità è che eravamo sei contro sei, ma

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