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APPUNTI SULLA AZIONE PENALE FRA STORIA, COSTITUZIONE E SPUNTI DI DIRITTO COMPARATO
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E-book527 pagine2 ore

APPUNTI SULLA AZIONE PENALE FRA STORIA, COSTITUZIONE E SPUNTI DI DIRITTO COMPARATO

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Info su questo ebook

La azione penale, tanto nella propria funzione socio-giuridica, tanto con riferimento alla peculiare natura che le è stata riservata dal legislatore costituente, viene spesso relegata ai margini dello studio delle norme costituzionali e del codice di procedura penale.

Per meglio comprendere la attuale essenza della azione penale, è necessario partire dalla analisi storica e comparativa della stessa.

Attraverso questi appunti, frutto di maturate riflessioni, l'autore auspica di contribuire alla realizzazione di un percorso giuridico tendente alla riscoperta del fondamentale carattere di centralità che la azione penale riveste nel sistema penale.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2013
ISBN9788867556649
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    APPUNTI SULLA AZIONE PENALE FRA STORIA, COSTITUZIONE E SPUNTI DI DIRITTO COMPARATO - Federico Abrate

    CAPITOLO I

    OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: PROFILI STORICI

    Se il passato non può insegnare niente al presente e il

    padre al figlio, allora la storia deve essere stanca

    di andare avanti e il mondo di sciupare

    una grande quantità di tempo.

    Russel Conwell Hoban

         1.1. Premessa

         La storia è senza dubbio uno strumento necessario – pur non essendo l’unico – che permette ad una comunità di migliorarsi propulsivamente. Ad avviso di chi scrive risulta essere scarsamente rilevante ricercare i motivi che spingono una comunità a correggere i propri comportamenti¹.

    L'utilità degli insegnamenti impartiti dal susseguirsi degli avvenimenti storici va immediatamente sceverata da rappresentazioni meccanicistiche ed estranee al tessuto sociale: il diritto, nelle sue più diverse raffigurazioni ideologiche, ha sempre – e sempre avrà – il proprio referente per eccellenza: la società. Essa può essere il motore centrale del diritto e il medioevo ne è l'archetipo, in quanto devoto partner millenario²; ma può anche essere relegata ai limiti di sé stessa da sé stessa: è un gioco di parole che, nella speranza di non indurre il lettore a trovare senza indugio un altro passatempo, si palesa come chiave di volta della lettura del fenomeno giuridico. Esso è – e deve rimanere – prodotto della società, cercando di limitare il più possibile, se non escludere totalmente, la sua volontà di affermarsi produttore della società³ per mano del reggente di turno; è la società stessa che, con un trasformarsi, continuo e costante, mette in dubbio ciò che era stato precedentemente determinato.

    La storia, nell’accezione metafisica del termine, è una realtà il cui continuo mutamento ha l'ineliminabile carattere della ciclicità: come il più sofisticato orologio che scandisce con precisione infinitesimale ogni istante della nostra esistenza, grazie ad un sistema di ingranaggi che attraverso l'instancabile movimento dei pignoni permette il ritmare delle lancette, anche le vicende passate, per merito della società e – soprattutto – delle sue particolarità, sono un flusso di energie allo stesso tempo irrefrenabile e regredente.

    Se non fosse abbastanza chiaro, che lo siano le parole di Antoine Lavoisier: «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Ciò che effettivamente cambia è solamente il punto di osservazione, non l'oggetto: questo comporta che, nei vari periodi storici, più o meno lontani fra loro, l'organizzazione sociale venga plasmata a seconda delle esigenze della società stessa, entro limiti insuperabili, quasi fosse – però – un naso di cera⁴.

    Un esempio vale su tutti: la popolazione romana occidentale, dopo la deposizione del suo ultimo imperatore Romolo Augusto avvenuta per mano di Odoacre il 5 settembre 476 d. C., non è stata sostituita da un agglomerato di soggetti privi di un passato, ibridi. Questa società si troverà, sì, a dover affrontare una realtà diversa, che mai, però, si rivelerà frutto di un taglio netto ed istantaneo con il passato⁵: tutto è un processo e ciò che noi oggi identifichiamo come i punti chiave della storia più o meno recente non sono altro che il risultato di un mutamento della società. Essa prepara il proprio continuo cambiamento, anche inconsapevolmente, perché ciò deriva da una necessità naturale.

    È una provocazione volta a sottolineare l’importanza maggiore degli esseri umani rispetto alle regole, le quali, partendo dal fondamentale presupposto di convivenza⁶ – non cesserò mai di sottolinearlo –, sono e devono rimanere funzionali e sussidiarie alla società. È allora necessario usare metaforicamente la figura del Leviatano per identificare lo Stato Assoluto⁷, o di assenza della figura dello Stato per individuare l'epoca medievale⁸? Come sempre la risposta migliore si trova nelle cose più semplici: la società, così come un serpente, muta il proprio aspetto perché è la natura che glielo impone.

    A questa critica terminologico-ideologica si deve necessariamente fare riferimento perché essa null'altro è se non la via maestra di un aspetto fondamentale (rectius: basilare) dello studio storico: lo spirito di contestualizzazione⁹ che quanti volgono lo sguardo dietro di loro devono doverosamente possedere per condurre una ricerca che sia la più obiettiva possibile. Così come un soggetto affetto da presbiopia troverà quantomeno difficile osservare oggetti lontani con lenti predisposte a correggere la miopia, anche l'interprete storico deve evitare di commettere questo errore, pena, il rischio di una visione offuscata o, ancor peggio, antitetica della realtà storica che osserva¹⁰.

    Un soggetto che non sia intellettualmente primitivo¹¹ è moralmente, socialmente e professionalmente obbligato a porsi una duplice questione: perché ciò che mi si palesa agli occhi ha queste fattezze? È inevitabilmente immutabile?

    La risposta a questi interrogativi deve quindi essere ricercata nel nostro passato, partendo da esso, ma evitando sempre di commettere l'errore di guardarlo con indulgenza o, ancor peggio, non considerandolo come mero modello validante del discorso, ma come simbolo giustificante de plano dell'essenza del contesto quotidiano¹².

    Prima di intraprendere, con spirito dantesco, questo sentiero lungo più di duemila anni, è necessario mettere in risalto l’essenza del penale antico. Esso non è da osservarsi con occhi moderni, permeati di statalismo e legalismo, bensì nella sua semplicità, come ciò che è: una forma di repressione, talvolta privata, talaltra pubblica, che nel proprio fine ha, fino alla svolta statualista, l’intenzione primaria – se non unica – di ristabilire l’ordo spezzato¹³. Anche per questo si parlerà molto di società, e i riferimenti non saranno strettamente tecnici¹⁴ ma fortemente legati al fine dell’azione penale più che al suo avvio.

    L’indole privata della sanzione penale (rectius: vendetta), avvertita come strumento unico e necessario per rispondere alla necessità di compensazione del torto subito, sposta, a ragion veduta, l’ago della bilancia da un’analisi completa dell’azione penale ad un’osservazione teleologica del fenomeno. La funzione chiarificatrice, intrinseca all’illuminismo giuridico, avvicinerà sempre più il diritto post medievale alle teorie moderne.

         1.2. Accusatio ed inquisitio: l'azione penale nell'età imperiale romana

          L’analisi di un fenomeno storico ha in re ipsa difficoltà date dalla continua e necessaria opera intellettuale volta ad eliminare qualsivoglia preconcetto moderno. Il lavoro non è agevolato quando si osserva una realtà che, come quella romano-arcaica, lascia un’eredità scritta pressoché inesistente.

    Inizialmente, i reati non rivolti alla civitas vennero perseguiti, puniti, aggrediti dalla vittima, mentre quelli che oltraggiavano la pax deorum vennero puniti per mano del re.

    Nell’età regia¹⁵, il monarca ricoprì la duplice funzione di sommo sacerdote e comandate militare. In questa società, fortemente legata alla religione – quella pagana –, l’eventuale intervento del re come pontifex e garante del rispetto degli dei, non è da considerarsi come lo si può intendere oggi: l’interesse secolare, che, oggi, regola i precetti della maggior parte delle nazioni, fu, in quel periodo, posto in secondo piano rispetto ad una necessità maggiore che verrà (ri)scoperta, seppur con i dovuti aggiustamenti, dall’uomo protomedievale: riequilibrare l’assetto fra individui e Dei.

    Queste norme praeter processuali crearono, comprensibilmente allo sviluppo giuridico ancora tutto da scoprire, un sistema sanzionatorio, per così dire, a maglie larghe: lasciavano, cioè, ampi poteri arbitrari al monarca non escludendo, tuttavia, che il soggetto legittimato agisse a titolo di vendetta¹⁶.

    All’interno dei reati gravi vi fu la previsione, fra una miriade di esempi, della violenza del figlio nei confronti del genitore, ascrivibile ad una lex di Numa. L’aspetto interessante di un dibattito che non trova confini temporali, è tutto intriso nella modalità con cui l’azione punitiva si esplicò: operò ipso iure oppure, come pare preferibile, fu successiva ad un procedimento giudiziario¹⁷? La soluzione più opportuna è data da un’interpretazione della lex regia che previde la consacrazione del figlio agli dei familiari. Si sottolinea, così, come le invocazioni paterne ebbero una duplice funzione: quella principale fu di ottenere l’attenzione di (futuri) testimoni, i quali, eventualmente, sarebbero stati chiamati a ricoprire il loro ufficio¹⁸, essendo irrilevante (rectius: pleonastica) la dimostrazione delle avvenute percosse; la secondaria, apripista dell’eventuale procedimento, è assimilabile alla funzione oggi giorno espletata dalla querela.

    Se si è potuto osservare una primordiale forma di procedimento giudiziario, è necessario premettere che non tutti i reati ebbero questa garanzia. Anche uno studente di giurisprudenza alle prime armi non avrebbe difficoltà nel ritenere questa affermazione alquanto bizzarra. Ma, paradossalmente, in un mondo arcaico come quello nato dalle ceneri etrusche, questo procedimento è una mera eccezione al despotismo del monarca che trova nella coercitio¹⁹ la sua massima forma arbitraria. La ratio di questa esclusione di garanzia venne riscontrata nella figura del destinatario della condotta lesiva. Non si sarebbe dovuto colpire solamente la figura di un soggetto gerarchicamente superiore, o – più direttamente – uno dei tanti Dei pagani o – ancora – la società stessa, ma civitas e religione contemporaneamente. Il modus agendi, valido per dar corpo e anima alla fattispecie astratta, avrebbe dovuto tuonare simultaneamente su entrambi. L’esempio tipico è la perduellio, un reato contro lo Stato, che nella sua evoluzione storica subì ridimensionamenti ed esasperazioni.

    Un aspetto storicamente importante è rappresentato dai reati ammessi alla vendetta privata. È singolare come mille anni dopo, con l’Editto di Rotari, si venga a creare una situazione giuridica che è allo stesso tempo analoga e dicotomica²⁰: la lex regolante l’ipotesi dell’uccisione volontaria di un uomo libero, attribuita a Numa, previde l’obbligo per i congiunti di uccidere l’uccisore del loro caro, al fine di evitare l’appagamento grazie ad una mera somma di danaro.

    La netta differenza di interventismo che variò col mutare dei reati, ravvisabile nella sanzione applicata, denota una società che identificava nei principi della natura più selvaggia uno spirito marionettista, caratterizzato da una insopportabile ricondutio ad aequum: si considerava più grave l’affronto ad un ascendente²¹ o, ancor peggio – perché, per argomentazioni moderne, più futile – lo spostamento dei limiti fra due fondi, che l’omicidio fra pari.

    Altri reati, lontani da sfidare sentimenti religiosi, venivano puniti dal monarca nella sola veste di comandante militare. Il tipico esempio è la proditio, cioè il tradimento col nemico. L’intervento del potere pubblico aveva la funzione di ripristinare, questa volta, un illecito commesso nei soli confronti della civitas. Sembra che lo stesso Re, in queste situazioni, agisse senza il rispetto di alcuna regola²².

    È, ancora, interessante analizzare una duplice forma di intervento del popolo nell’età monarchica. Seppur con le dovute precauzioni, si può evidenziare come l’importante istituto della provocatio ad populum trovi il proprio sviluppo a partire dalla fine di questo periodo storico²³.

    Per il momento è utile fare un accenno a due forme di pseudo intervento popolare: i quaestores paricidi – pare che la loro funzione fosse quella di accertare la presenza del dolo, oltre a sovraintendere all’esercizio della vendetta²⁴ – e i duumviri perduellionis, i quali furono membri di una Corte straordinaria avente le funzioni di affermare la responsabilità penale del reo²⁵.

    È comunque certo che l’intervento del popolo, nel caso si fosse compiuto, sarebbe stato meramente figurativo, testimoniale²⁶.

    Il periodo repubblicano²⁷ fu contraddistinto da una netta separazione dei poteri facenti capo, fino a poco prima, al monarca: le funzioni sacerdotali vennero affidate ad un pontifex maximus, mentre le mansioni giustiziali a magistrati²⁸. La spinta di questo desiderio democratico portò all’istituzionalizzazione della provocatio ad populum²⁹.

    L’imperium, ormai quasi totalmente nelle mani del magistrato necessitava, per ragioni di garanzia, che vi fosse un diritto ad invocare il popolo: così facendo si sarebbe instaurato un regolare processo dinanzi ai comitia.

    Come è ipotizzabile, questo scontro istituzionale portò svariate volte ad un accanimento del popolo verso il magistrato che avesse negato questo diritto. Per questi motivi, e per una lampante mancanza di garanzia³⁰, alcuni studiosi vi ravvedono una funzione sociale dell’istituto. I due maggiori esponenti di questa teoria sono Kunkel e Heuss che in esso scorgono una marcata politicizzazione raffigurante una lotta sociale fra plebei e patrizi³¹: questo fino al 300 a. C., data in cui, secondo questi studiosi, con la lex Valeria si previde una sanzione legale atta ad impedire questo scontro. Altri, fra cui Mommsen, ritengono che la provocatio fosse

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