Dei delitti e delle pene
3.5/5
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Info su questo ebook
Introduzione di Roberto Rampioni
Edizione integrale
Pubblicato in forma anonima nel 1764, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria rappresenta una tappa essenziale nell’evoluzione del diritto sostanziale e processuale penale, tanto da far considerare il suo autore uno dei fondatori della scienza della legislazione. Seguita in questa edizione dal famoso Commento di Voltaire, l’opera viene presentata da Roberto Rampioni, noto avvocato penalista italiano. Il merito di Beccaria consiste nell’aver condensato in modo organico e completo in questo piccolo rivoluzionario opuscolo tutte le critiche maturate nell’alveo del pensiero illuminista contro gli eccessi e gli orrori del pensiero inquisitorio del tempo, in particolare la tortura e la pena di morte. Le cronache giudiziarie dei nostri giorni ci rendono consapevoli della straordinaria attualità dell’insegnamento autenticamente «liberale» di Beccaria.
«Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità.»
Cesare Beccaria
(Milano 1738-94) fu filosofo, letterato ed economista. Collaboratore del «Caffè», autore di diversi scritti, divenne celebre in seguito alla pubblicazione di Dei delitti e delle pene (1764).
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Recensioni su Dei delitti e delle pene
55 valutazioni1 recensione
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5On Crimes and Punishment, Cesare Beccaria argues for different punishments.
He starts with a famous quote,
"Every punishment which does not arise from absolute necessity is tyrannical." -- Montesquieu
Laws are conditions under which Men are united.
Punishments are necessities to defend public liberty.
Beccaria writes on all types of crimes, including Adultery, Suicide and Sodomy.
How do you convict Suicide? After all, the person has died.
It seemed that he has a strong case to argue for most of crimes and punishment.
One quote which I loved was, "The Laws is greater than of those by whom they are violated, the risk of torturing an innocent person is greater."
I imagine for death penalty, torture, the risk of inflicting pain on innocent people is greater. As I was learning about death penalty in the United States, they abolished it around 1850's - 1890's due to a lot of pressure from Social Justice groups. A few states still have death penalty.
During the late 1800s, Some people find it entertaining when someone was hanged in public. They would drink in public while watching execution. Now these are not in the book.
Overall a great introduction to Crimes and Punishment.
Deus Vult
--Gottfried--
Anteprima del libro
Dei delitti e delle pene - Cesare Beccaria
199
Prima edizione in questa collana: dicembre 2011
© 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3829-2
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di geco srl
Cesare Beccaria
Dei delitti e delle pene
e
Commento di Voltaire
Introduzione di Roberto Rampioni
Edizione integrale
logo_NCE.pngIntroduzione
È ancora recente la ricorrenza del bicentenario della Rivoluzione francese (1789-1989). Numerose celebrazioni hanno rappresentato simile avvenimento come un fatto puramente e semplicemente «politico». È questo un approccio unilaterale che rischia di «minimizzare» la reale portata storica di tale vicenda, riducendola a una sterile contrapposizione tra (una destra
di) denigratori, i quali sottolineano gli aspetti negativi della Rivoluzione francese (i massacri, le proscrizioni, il terrore), e (una sinistra
di) fautori, i quali ravvisano nella Rivoluzione stessa il prototipo di tutte le successive rivoluzioni La superficialità (meglio l’erroneità) di simile contrapposizione ideologica sta, appunto, nella schematicità dell’approccio che non tiene conto della reale dimensione e complessità – anche se non sempre profondità – del movimento di pensiero rivoluzionario francese.
Al di là del discusso profilo politico
(e al di là delle banali contrapposizioni ideologiche che su di esso si sono formate) la Rivoluzione francese presenta un significato giuridico di assoluto rilievo. Senza tema di smentita si può affermare che il migliore e più duraturo insegnamento della Rivoluzione francese è l’aver fissato i princìpi costitutivi dello Stato di diritto (anche se, poi, all’affermazione del principio ideale non seguirà la sua realizzazione pratica). Tre i punti, fra loro intimamente connessi, che – come avverte il Cattaneo – concorrono a integrarne l’essenza: la Carta Costituzionale, che individua la struttura portante di simile forma di Stato; la garanzia dei diritti dell’uomo, che rappresenta lo scopo essenziale della Carta medesima; il diritto penale, che realizza il momento della verifica del rispetto di quei diritti.
D’altra parte, la Rivoluzione francese è in stretto collegamento con la teorica della Scuola del diritto naturale ed è espressione del rivolgimento sociale che nel mondo occidentale segna il definitivo trionfo della borghesia. Qui, come puntualmente osserva l’Opocher, sembra concludersi, infatti, la stessa potenzialità rivoluzionaria di tale teorica e, in definitiva, il processo che, supportato da quell’ideologia, determina l’ascesa della nuova classe. Il confluire di simile ideologia nel tessuto culturale dell’illuminismo e la trasformazione del diritto naturale
in diritto razionale
consentono alla ideologia medesima di calarsi nella drammatica realtà della grande rivoluzione. Mentre, invero, la rivoluzione inglese alimenta la formazione delle teorie della Scuola e così il pensiero di Hobbes e di Locke accompagna
, rispettivamente, il tramonto della monarchia assoluta e l’avvento della monarchia costituzionale in Inghilterra, la Rivoluzione francese (analogamente a quanto già avvenuto nell’America del Nord), sul piano dell’ideologia, viene vivificata (in modo particolare) dal pensiero di Locke e di Rousseau. Nel breve arco di una decina di anni si concepisce il duplice passaggio, dapprima, dalla monarchia assoluta a quella costituzionale all’insegna del liberalismo lockiano e, poi, dalla monarchia costituzionale alla democrazia nella prospettiva di pensiero del Rousseau.
E in Francia, invero, che l’illuminismo ha la migliore fortuna, Paese nel cui ambiente culturale confluiscono nel Settecento gli sviluppi del razionalismo cartesiano e quelli dell’empirismo di Locke e di Hume. La cultura francese fa ora proprie le teorie politiche del pensiero inglese; e infatti, da un lato, si assiste al decadere del prestigio della monarchia assoluta; dall’altro, alla trasformazione della società francese nel cui ambito la borghesia viene, appunto, ad acquistare sempre maggior peso a scapito della aristocrazia, così ponendo – ovviamente – in aggiunta ai problemi politici in senso stretto, problemi sociali e giuridici del tutto nuovi.
La situazione della Francia – come sottolinea Fassa – è, tuttavia, ben diversa da quella dell’Inghilterra, Paese in cui le guerre civili avevano visto vincere le istanze liberali e costituzionali del parlamento rispetto alle pretese assolutistiche degli Stuart, dando forma moderna a istituti giuridici che sin dal Medioevo costituivano il baluardo della libertà del singolo. In Francia si era delineata una frattura fra società e istituzioni politiche che precludeva la stessa possibilità teorica di una loro evoluzione: le antiche istituzioni di origine feudale (i parlamenti e gli Stati Generali), per un verso, erano state del tutto esautorate dai monarchi assoluti, per l’altro, non risultavano in alcun modo rispondenti alle istanze costituzionali come alle nuove esigenze economico-sociali. La trasformazione del «diritto naturale» in «diritto razionale» agevola, dapprima, il confluire della Scuola del diritto naturale nel pensiero illuministico, e approda, poi, al volontarismo di Rousseau, venendosi così a calare nella drammatica realtà della grande rivoluzione che cambierà l’Europa.
Sin dagli inizi del secolo, dunque, in Francia si assiste a una fioritura letteraria che mira a un rinnovamento dell’organizzazione giuridica della società, rinnovamento attuato dal monarca illuminato
ovvero per opera diretta del popolo. Hanno fortuna resoconti di viaggi immaginari presso popolazioni viventi in condizioni felici di pace e innocenza, perché ancora nello «stato di natura». E tipica di questo tempo la figura del «buon selvaggio»: l’astrazione giusnaturalistica dello stato di natura risponde appieno allo spirito dell’epoca, razionalistico e (quasi sempre) antistorico; e in effetti il giusnaturalismo – che è qui il frutto del confluire, su un comune terreno naturalistico, del razionalismo della Scuola del diritto naturale e dell’indirizzo empirico-utilitaristico dei filosofi inglesi – raccoglie facilmente proseliti in questa società ansiosa di rinnovamenti secondo ragione o, il che è lo stesso nella cultura dell’epoca, secondo natura
Sul piano più propriamente giuridico, la produzione letteraria – frammentaria, non sistematica e caratterizzata da debolezza speculativa – propugna la necessità di una legislazione certa, generale e vincolante per i poteri dello Stato, non escluso quello giudiziario. Gli illuministi francesi mirano a tradurre il diritto naturale – le cui norme sono immutabili ed eterne in quanto verità di ragione – in una legislazione positiva valida per tutti, Stato compreso. È questa una delle maggiori spinte alla codificazione, alla fissazione, cioè, stabile e permanente di princìpi di ragione: pretesa per certi versi ingenua e antistorica, ma che risponde appieno all’esigenza di certezza e generalità del diritto, quale limite giuridico allo strapotere dello Stato, quale baluardo contro la forza e l’arbitrio dell’apparato statuale. L’illuminismo è, invero, l’espressione teorica più compiuta del processo di emancipazione da una visione trascendentale del potere del monarca. Alla matrice divina del potere, alla legge quale espressione della volontà di Dio, nel tentativo di tutelare la libertà dei singoli nei confronti dello Stato, si contrappone ora il contratto sociale, la legge del Parlamento quale esercizio del potere politico da parte dei consociati.
Questa duplice aspirazione degli illuministi francesi a un diritto certo, che non può che essere il diritto fissato per legge, e a un diritto razionale si tocca con mano nelle varie voci giuridiche dell’Encyclopédie (Dizionario ragionato delle scienze, arti e mestieri), che individua la più grandiosa e significativa manifestazione dell’illuminismo francese. La codificazione appagherà, appunto, questa aspirazione, col rendere positive le norme del diritto naturale-razionale. Tuttavia, proprio nel pensiero del Diderot (direttore e organizzatore di tale opera) si coglie quel richiamo alla «volontà generale» che rappresenta uno dei concetti fondamentali del pensiero politico del Rousseau: il superamento – in una prospettiva democratica – dei diritti innati individuali a favore di un più vasto diritto della società. «Non c’è altro vero sovrano», afferma il Diderot nel 1774, «che la nazione; non ci può essere altro vero legislatore che il popolo». Sfumano le speranze dei philosophes nell’opera riformatrice di despoti illuminati; ormai a grandi passi ci si avvia verso l’idea della necessità dell’esercizio effettivo della sovranità da parte del popolo. E, d’altra parte, il pensiero di Jean Jacques Rousseau – espressione della personalità più geniale e complessa tra i vari esponenti della Scuola del diritto naturale – se affonda le sue radici nella teorica giusnaturalistica, è tuttavia felicemente proteso al futuro, così da oltrepassare in una prospettiva moderna i limiti (ormai angusti) di quella teorica e da porre le basi dell’idea romantico-storicistica che ne determinerà il superamento. «Rousseau», come rileva Opocher, «pone nel vecchio otre della Scuola del diritto naturale, un vino nuovo che, fermentando, finirà col farlo scoppiare». Con lui lo sviluppo dello Stato moderno e l’ascesa della borghesia – che ne è l’elemento condizionante – hanno ormai raggiunto la piena maturazione; tutto sta per tornare in discussione. E un dato ormai acquisito, del resto, che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico; ma è altrettanto chiaro come il nucleo costitutivo di simile pensiero (non meno delle istituzioni sociali cui è strettamente legato) implichi in sé il germe della regressione: «se l’illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo – l’insegnamento di Horkheimer e Adorno è univoco sul punto – firma la propria condanna». La stessa codificazione – evento che dell’illuminismo costituisce il trionfo, sancendone a livello normativo i princìpi – aprirà infatti la via all’antitetico indirizzo del positivismo giuridico.
Tornando ai profili più propriamente giuridici, non è dubitabile che il rapporto fra il potere legislativo e il potere esecutivo nella teoria della separazione dei poteri, presenta immediata e diretta rilevanza politica. La ragione più evidente che sospinge, infatti, alla rivoluzione contro l’assolutismo monarchico sta nell’esigenza di scongiurare che il potere di emanare leggi e quello di farle eseguire sia posto nelle medesime mani. Tuttavia, come già avverte lo stesso Montesquieu, ciò che maggiormente preme ai fini della garanzia delle libertà è la separazione del potere giudiziario dagli altri due poteri: la posizione del giudice di fronte alla legge, il rapporto dei cittadini con la legge e con il giudice, soprattutto – com’è ovvio – in materia penale. La dottrina giuridica dell’Assemblea Costituente si connota, appunto, per l’idea del primato della legge, della sottoposizione del giudice ad essa, della difesa della certezza del diritto contro l’arbitrio del potere.
È in questo humus culturale che affondano le radici del pensiero penalistico di Cesare Beccaria, del quale ricorre quest’anno il bicentenario della morte. Il suo piccolo volume – pubblicato per la prima volta nel luglio 1764, in forma anonima, presso la stamperia Coltellini di Livorno – individua una tappa fondamentale nell’evoluzione del diritto sostanziale e processuale penale, tanto da far considerare il Beccaria – per dirla col Pisapia – «uno dei fondatori della scienza della legislazione e, nello stesso tempo, precursore di tutti gli indirizzi moderni che pongono al centro del proprio interesse i problemi di politica criminale». Raramente altre opere sono state accolte con altrettanto entusiasmo e, soprattutto, hanno inciso così significativamente nella cultura mondiale: il numero eccezionale delle edizioni che si sono succedute nel tempo, al pari della molteplicità delle traduzioni, è il sintomo più evidente del formidabile successo dell’opera; la circostanza che, ancora oggi, non vi sia studio di diritto penale che non tenga conto dell’opera medesima e che non muova da alcuni «luoghi» fondamentali messi a fuoco dal Beccaria, è il segno più tangibile della reale forza di penetrazione del pensiero di tale autore nella moderna cultura penalistica.
Della singolare fortuna e dell’esatto significato del libro è agevole rendersi conto, ove si tenga a mente la rilevantissima portata della teorica illuministica nella cultura moderna e, in particolare, dal xviii secolo sino ai nostri giorni. L’opera del Beccaria è rigorosa espressione di tale pensiero, logica applicazione di esso nel campo del diritto penale. Beccaria – come afferma lo Spirito – è «il primo criminalista a svolgere intorno ai nuovi principi illuministici le linee fondamentali di un sistema di diritto penale»; egli non è un creatore geniale, ma dà voce alla «comune mentalità dominante» ed in ciò risiede anche la ragione essenziale dell’enorme diffusione del libro, come della sua incidenza nella storia del diritto penale.
È lo stesso Beccaria ad ammettere, con lealtà, che le fonti della sua formazione intellettuale vanno individuate nelle idee di Rousseau, di Montesquieu e degli Enciclopedisti. «Io devo tutto ai libri francesi», riconosce in una lettera inviata nel 1766 all’abate Morellet, suo traduttore francese e, del resto, è evidente l’influsso della dottrina contrattualistica di Rousseau, così come delle idee (soprattutto, in tema di separazione dei poteri) espresse dal Montesquieu ne L’esprit des lois. D’altra parte, al pari degli Enciclopedisti, egli si ricollega al pensiero di Francesco Bacone, creatore della filosofia sperimentale, filosofo che egli definisce «il più grande, il più universale, il più eloquente» ed al quale rende omaggio citandone, in apertura di opera, un noto aforisma.
Ed il successo arrise al Beccaria e fu immenso anche perché visto con favore dai circuiti culturali francesi: «Il semble», rileva Poncela, «qu’il ait été impossible d’écrire sur le droit pénal durant le dernier tièrs du xviiième siècle sans se référer à Beccaria…»¹.
Il giudizio sul valore dell’opera, se vuol essere esatto, non può tuttavia prescindere dall’ambiente in cui visse l’autore e, in particolare, da quel circolo di studiosi che si era formato intorno al giornale «Il Caffè», cui lo stesso Beccaria collaborò con numerosi articoli; né si può omettere di considerare l’opera di mecenatismo dei fratelli Alessandro e Pietro Verri, nella casa dei quali maturò l’idea – a seguito di continui incontri culturali – di scrivere un saggio sui delitti e sulle pene. Se Alessandro Verri introdusse il Beccaria presso i più famosi scrittori del tempo, accompagnandolo (e trattenendolo) a Parigi, il fratello Pietro nel 1765 scrisse e pubblicò anonima quella Risposta ad uno scritto che s’intitola: Note ed osservazioni sul libro dei delitti e delle pene che costituisce la replica a quell’opuscolo del Fachinei, informato a retrivi pregiudizi, che aveva definito il Beccaria «frenetico impostore», «cattivo filosofo e cattivo uomo», «nemico della religione e del cristianesimo», «uno di quegli empi scrittori che trattano di buffoni gli ecclesiastici, di tiranni i monarchi, di fanatici i santi, d’impostura la religione e che bestemmiano perfino la maestà del loro Creatore»; opuscolo che faceva presagire tristi conseguenze per il Beccaria (ritenuto «contrario alla fede ed alla sovranità»), il quale, pavido per carattere, non avrebbe avuto la capacità di una pronta replica (mentre, di buon grado, si appropriò, del testo della Risposta spacciandolo per suo).
La reazione, per vero eccessiva, del Fachinei è, tuttavia, un segnale ulteriore della portata «rivoluzionaria» (sia pure nei termini sopra precisati) dell’opera del Beccaria e dell’effetto deflagrante che essa ha determinato nel mondo penalistico contemporaneo. I numerosi riconoscimenti conseguiti in campo internazionale cedono il passo rispetto ai risultati pratici ottenuti presso i governanti, prima fra tutti, l’abolizione della tortura.
Lo stesso Voltaire (al secolo, François-Marie Arouet) che legge il libro del Beccaria ancor prima che venga tradotto in lingua francese, svolge sul libro medesimo un commento adesivo
. Anch’egli, tipica espressione del razionalismo illuministico, opera numerosi riferimenti ai temi del diritto e della giustizia. I suoi, tuttavia, sono riferimenti frammentari, dispersi in una massa innumerevole di scritti, inidonei a integrare una dottrina organica e, soprattutto, scarsamente originali come, del resto, tutto il pensiero del Voltaire. La lettura del suo Commento all’opera del Beccaria è una chiara conferma di ciò: debolezza di pensiero e approccio empirico appaiono le note caratterizzanti del lavoro, ben lontano dal carattere sistematico dell’opera del