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Critica della ragion tecnica
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E-book302 pagine3 ore

Critica della ragion tecnica

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Info su questo ebook

Grazie alla tecnica abbiamo sconfitto tante malattie, alleviato il dolore, eliminato fatiche pesanti, ridotto gli orari di lavoro e reso più agevole la nostra permanenza sulla Terra. Siamo, tuttavia, la prima generazione a vivere sul campo il suo dispiegamento universale e ad aver contezza di quanto ogni paradigma biologico, culturale, politico ed economico stia subendo delle alterazioni e delle modificazioni. 
Essa infatti esercita sulle coscienze una manipolazione quasi mai avvertita, ponendosi come fattore regolativo dell’intera esistenza sociale e mettendo in circolo una immane potenza che rende ogni cosa materiale da trasformazione. 
Uomo compreso. Siamo perciò di fronte alla questione ultima: la tecnica può essere regolata (e dominata) o essa si fa regola del mondo, ridefinendo da sé il nuovo nomos della Terra?
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2021
ISBN9791220259866
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    Critica della ragion tecnica - Luigi Iannone

    Luigi Iannone

    Critica della ragion tecnica

    Prefazione di Roger Scruton

    Critica della ragion tecnica

    Luigi Iannone

    © Idrovolante Edizioni

    All rights reserved

    Director: Roberto Alfatti Appetiti

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – febbraio 2021

    www.idrovolanteedizioni.it

    idrovolante.edizioni@gmail.com

    prefazione

    di Roger Scruton

    In questo libro Luigi Iannone affronta una delle grandi e più complesse tematiche della filosofia moderna: la questione della tecnica.

    È difficile dire in quale preciso momento i filosofi abbiano assunto piena consapevolezza della ragione strumentale, non solo come applicazione della ragione ai problemi della vita umana ma in quanto visione di un mondo totalmente soggiogato. Kant aveva già avuto una intuizione rispetto alle forze che potevano essere messe in gioco, quando mise in evidenza che vi sono cose di questo mondo che devono essere trattate come fini e mai solo come mezzi – e le persone ne sono il primo esempio. Tuttavia il filosofo di Königsberg non esplorò ciò che succede nel momento in cui la ragione strumentale invade tutti quei luoghi sacri dove in passato si rivelava e si esercitava la personalità.

    Hegel fu più consapevole del problema, ma le critiche al capitalismo del XIX secolo – e soprattutto analisi critiche come quelle di Marx che partono da Hegel e Feuerbach – furono sempre più rivolte a esplorare il cambiamento compiutosi per l’appunto nell’anima dell’uomo a causa dell’abitudine di vedere tutte le cose come mezzi, e niente come fine in sé.

    La critica della ragione strumentale è stata poi nel XX secolo riformulata varie volte (con Adorno e Horkheimer da sinistra, e Oakeshott e Scheler da destra) in un confronto continuo con il complesso mondo del modernismo, del meccanicismo e del progresso tecnologico.

    Ma è in Heidegger che questa tematica assume allo stesso tempo proporzioni raccapriccianti e profetiche, come se una divinità antica fosse apparsa tra noi con i suoi avvertimenti oscuri, come accade con Erda in Das Rheingold.

    Negli arguti attacchi all’economia consumistica di Galbraith in America, Baudrillard in Francia e Naomi Klein in Canada, troviamo ancora un altro tentativo, questa volta più tenue, di dimostrare che continua a mancare sempre qualcosa in un mondo nel quale tutto è un mezzo, e niente un fine in sé.

    E allora: qual è l’alternativa? Come possiamo ritrovare la strada del ritorno dal dominio della tecnica? E come possiamo farcela, ora che le macchine e gli oggetti sono sul punto di prendere il sopravvento su ogni cosa e su tutti noi?

    In questo libro intenso, ricercato ed efficacemente esposto, Iannone esamina tale problema, dimostrandoci che la risposta non va ricercata nella politica o nell’economia perché tutti gli approfondimenti critici esistenti sembrano aver ignorato la dimensione del sacro, un concetto fondamentale di cui l’umanità ha sempre bisogno. Come sostiene Iannone, ciò di cui sentiamo la necessità non è liberarci dalle macchine; anzi, è proprio questo bisogno imperioso e moderno di liberazione che ci ha invece sottomesso al potere del modello meccanicista. Se crediamo che niente è sacro e tutto può essere cambiato, inclusi i nostri valori, allora rinunciamo a quella posizione dalla quale può scaturire la vera libertà. La liberazione, portata all’estremo, significa infatti perdita dei fini, dei limiti, dei confini, e in un mondo senza fini, tutto è un mezzo e niente ha un significato.

    Al contempo, Iannone ci mostra che è forse ancora possibile ragionare in un altro modo e far posto nelle nostre vite alla ragione nella sua forma veramente umana, intesa come criterio per consacrare il mondo e coglierne il suo vero significato.

    Questo è un libro per il nostro tempo, ed è un libro che dà valore alla ricerca filosofica.

    1.la tecnica come ambiente

    Una relazione asimmetrica

    La questione della tecnica si è venuta evolvendo negli ultimi due secoli sempre più in una dimensione totalizzante e quindi rivelatasi imprescindibile problema etico e sociale, ancor prima che filosofico. Dal momento che, nel senso comune, non se ne coglie però il tratto essenziale, potremmo facilmente lasciarci indurre alla convinzione che la tecnica, lavorando solo per appagare i più essenziali bisogni, sia in nostro potere e, in un futuro ormai prossimo, sia possibile – grazie ad essa – dominare il mondo e tenere sotto controllo ogni cosa.

    Questa adesione acritica può farci cadere nell’equivoco di intendere in modo riduttivo tutte le determinazioni che la qualificano e conducono necessariamente alla creazione di una tesi inconfutabile, la quale tende a demistificare la complessità di un problema che, invece, presenta una vigenza già attuale. Non bisogna dunque cadere nell’assai diffuso errore interpretativo per cui ogni tipo di argomentazione si muova innanzitutto dalla condizione contraddittoria che la tecnica, in sé, non sia né buona né cattiva, e che l’efficacia o gli svantaggi dipendano da come la si utilizzi perché, nonostante le modalità di lettura della realtà derivino sempre da come si riveli questa caratterizzazione strumentale, simili affermazioni solo in parte possono corrispondere al vero.

    Non cogliendo in ciò la forma più radicale di totalitarismo, si cela ai nostri occhi il fatto che la tecnica incida in ogni settore dell’attuale organizzazione sociale, tanto da produrre una sempre maggiore omologazione dal punto di vista delle immagini prodotte, dell’impianto teorico e delle verità di cui si fa portatrice, ma soprattutto della nostra capacità di orientarci nel mondo¹.

    Ma qui il piano interpretativo è ulteriore. Pare del tutto evidente che, in virtù di queste considerazioni, la tecnica si imponga subito all’attenzione per un dato sostanziale che prescinde dalla ordinaria soggettività di ogni singola vita e approdi a esiti originali. Essa produce una costruzione simbolica di un orizzonte planetario tale da non poter essere quasi mai percepita nella sua pericolosità, specialmente nel momento in cui dota ogni singolo uomo di strumenti di una siffatta qualità e quantità rispetto al passato da provocare mutamenti radicali nelle relazioni con gli altri, nell’ambiente che lo circonda e nel suo stesso essere «umano».

    La determinazione degli spazi e dei tempi di vita muovono da un universo metaforico che è destinato a meccanizzare sempre di più i comportamenti e a ridefinire le nostre identità. L’utilizzo, anche nel linguaggio comune, del termine tecnopolitica dimostra che la contrazione dello spazio e del tempo, connessa allo sviluppo delle reti informatiche e a tutti i processi tecnologici, non solo implica l’irruzione di problematiche inedite nel campo economico e industriale, ma la messa in discussione dei postulati politici e della dimensione dei diritti su cui ci si era adagiati nella seconda parte del Novecento².

    È proprio questa difficoltà nella comprensione del fenomeno – che poi prescinde da qualsivoglia interpretazione negativa – a far sì che possano essere sempre spostati in avanti i limiti di ogni singolo progresso della tecnica senza che ciò ci faccia preventivamente porre dei parametri etici i quali, a loro volta, vengono comunque ritenuti inattendibili o pesante zavorra del passato.

    Una difficoltà di comprensione che si compie per la nostra naturale familiarità con la tecnica.

    Da sempre, infatti, l’uomo ha ideato e fabbricato utensili per il lavoro e per rendere meno ostile il mondo intorno a lui. Ma l’intervento sulla natura è diventato via via più incisivo nel momento in cui ha percepito che malattie, necessità sociali, povertà o benessere potevano essere modellati, e quindi attenuati o ampliati, grazie all’utilizzo della tecnica. Questo sta a significare che il legame atavico con la tecnica costituiva soltanto una iniziale premessa, utile per farne esaltare la natura strumentale, per poi lasciare spazio a una più che logica relazione con il mondo circostante che imponeva limiti, ritmi e opportunità.

    Solo ora ci si accorge che l’età della tecnica descrive per la prima volta nella storia dell’uomo una duplicità interconnessa di elementi positivi e negativi dove, all’infinità di mezzi, può corrispondere l’annullamento degli scopi, perché la funzione di strumento che l’uomo aveva immaginato per raggiungere un determinato scopo – e legato a una utilità definita e circoscritta – sembra avviarsi al superamento. Ed è proprio in questo senso che la tecnica rappresenta una condizione indispensabile per raggiungere i fini ma – divenendo tale –, si trasforma essa stessa nel primo scopo; laddove, sia gli strumenti che gli scopi sono caratterizzati da razionalità ed efficienza che rappresentano, poi, i lineamenti di uno spietato sistema in cui «la tecnica può considerarsi l’orizzonte di riferimento del nostro tempo e destinata a diventare lo scopo supremo»³.

    L’essere umano come materia plasmabile, sostanza in continua trasformazione, e una tecnica quale espressione massima della titanica potenza del progresso scientifico che fagocita ogni istanza di proiezione superiore, svelano l’attuale scenario. Una relazione fintamente simmetrica in cui l’uomo ritiene di poter appagare i suoi bisogni grazie ad una crescita veloce e smisurata dello sviluppo tecno-scientifico mentre, invece, ricreandosi dipendenze e attivandosi profonde trasformazioni, egli continua a rincorrerli e ad essere insoddisfatto.

    Un progresso senza fine e senza limite che travalica il senso di una τέχνη che pure era una delle virtù dianoetiche aritstoteliche (ma Aristotele aveva vincolato l’uso della τέχνη alla sapienza, alla prudenza, all’intelletto) e che, ora, diventa strumento ma anche destino: «Eccolo qui – scrive Gottfried Benn – tutto adunato insieme, questo secolo del reale e del conoscere, in cui lo spirito ha creato la statistica e l’analisi dell’orina, in cui la tabella trionfava e la creazione sprofondava, in cui per diventare professore ordinario bastava dominare le cavità laterali del naso e per diventare presidente di congressi bastava aver visto tre pustole mentre quel tale accanto ne aveva viste solo due, in cui non c’era casa e non c’era strada dove non abitassero un cavadenti e un agente di brevetti, un urologo o un geodeta – per conquistare la terra e dominare il mondo»⁴.

    Come molti hanno ripetuto, la tecnica è l’estremo esito del nichilismo occidentale, l’essenza della nostra epoca, e rappresenta, proprio nella sua intima relazione con l’uomo e la natura, la questione centrale della riflessione filosofica e del dibattito pubblico contemporaneo. Essa dunque non è sommatoria di singoli strumenti perché l’uomo è naturalmente tecnico e può stare al mondo solo con l’ausilio di utensili, aggeggi, dispositivi di vario genere. È sempre stato così! Strumenti, tecnica e umano si presentano sin dalla preistoria come all’interno di una sorta di osmosi ma, quest’ultimo ha ora, nelle sue mani, una potenzialità smisurata dal momento che la nostra è divenuta una società pienamente tecnicizzata. Di conseguenza, nonostante i corifèi di celebrazioni eternamente entusiastiche, essa non è neutra. Un diverso indirizzo discorsivo poteva avere una sua validità se riferito alle epoche passate quando la tecnica era contenuta in dimensioni e potenza. Ma essa – appunto - non è più neutra, nel senso che una volta applicata come totalità senza limiti diventa protagonista, costruendo da sé le forme e l’essenza del nostro abitare la Terra e incidendo tanto sul vivere quotidiano che sull’ambiente.

    Prima ancora di pensarla in termini metafisici e di inseguire quel tracciato di analisi, avverto però la necessità di mettere sotto i riflettori gli ambiti di applicazione nei quali quotidianamente interferisce, i livelli di pressione con cui esercita in maniera attiva la propria volontà di potenza e manipola i residui spazi di autonomia, proprio per cogliere appieno quanto questa capacità di svolgere una funzione totalizzante, pur venendo da lontano, si è determinata in epoca moderna.

    Si tratta allora di guadagnare una ulteriore prospettiva, che è non solo determinare l’essere della tecnica («La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. È l’ambito del disvelamento, cioè della verità [Wahrheit⁵) e alludere a ciò che irriducibilmente riporta a pensatori come Martin Heidegger, ma mostrare quanto il suo determinarsi si ponga come fattore regolativo dell’intera esistenza sociale, politica, economica, culturale, etica e biologica degli uomini della modernità; quanto il suo porsi come criterio di tutte le cose, - condizionandole, fin tanto da risultarle subordinata qualunque altra finalità umana-, possa rappresentare un destino ineluttabile. E come, oramai, si possa avere piena contezza del fatto che, anche nella più ordinaria quotidianità, le previsioni e gli scenari disegnati e profetizzati dai più grandi uomini di pensiero si stiano per realizzare proprio nel nostro tempo, per divenire pratica reale.

    Pur tuttavia, l’intento di questo volume non è quello di voler confutare l’utilizzo degli strumenti tecnici. Grazie a essi, l’uomo ha potuto superare limiti fisici e biologici. La nostra specie si sarebbe estinta se non fosse stata capace di adattarsi e trasformare l’ambiente per le proprie necessità; dall’uomo preistorico in poi è stato un continuo sperimentare. La tecnica è perciò sostanza e forma stessa della umanità. Eppure, c’è una doppia valenza, una capacità onnipervasiva che va al di là della loro stessa fruizione. E quello che ora si sta verificando descrive innanzitutto una trasformazione antropologica che vediamo ripresentarsi, sebbene in forme assai diverse, in ogni angolo del globo, ma soprattutto una diversa interpretazione della realtà che non ha una sua esistenza indipendente. Perché non solo si è imposta una weltanschauung legata al mercato e all’economia con la quale, almeno per il momento, la tecnica si accompagna ma, a differenza del passato, assistiamo anche alla sua intrusione pervasiva in ogni ambito della vita visto che incide sulla capacità di orientarci nel mondo, di fare delle rinunce o delle scelte; per dirla con Heidegger, è l’immagine del mondo. Così, se nel passato l’uomo utilizzava lo strumento tecnico ma tentava di non infrangere l’armonia con la natura, anche in base a precisi rapporti di forza, ora avviene il contrario, e quest’ultima è sottomessa all’uomo in un rapporto puramente dissolutorio diventando serbatoio di materie prime.

    Lo sviluppo tecnologico ha sciolto molti nodi inestricabili e risolto una serie sterminata di problemi nei quali l’umanità per secoli si era impantanata. Ma quando Franco Volpi riconosce in questo processo portato alle estreme conseguenze il motivo di una frattura probabilmente insanabile tra homo faber e homo sapiens, vale a dire tra quello che sappiamo e vogliamo fare e la nostra capacità di valutare ciò che è ragionevole, coglie nel segno. Perché non è più possibile prescindere dalla radice nascosta del nostro tempo, manifestatasi in un legame inderogabile con la tecnica e che ci impedisce di calcolare anche l’intera costellazione concettuale degli epifenomeni.

    Molti ritengono che l’assoluta centralità della tecnica derivi anche da una sorta di patologia sociale che, in quanto tale, precluderebbe non solo la reale comprensione del fenomeno, ma anche le risposte in grado di far fronte ai processi disumanizzanti. A fronte dei repentini cambiamenti in campi fondamentali come la medicina o la genetica, quelli cioè che intaccherebbero l’umano nella sua essenza profonda, taluni ripongono fiducia nella intensificazione della partecipazione politica e nell’attivazione di maggiori spazi di dibattito pubblico. Altri invece auspicano un risveglio di un generico movimento conservatore e perciò ambientalista che, muovendo dalla difesa del pianeta, possa poi orientare un’azione più generale tesa alla riduzione o almeno al contenimento della tecnica in ogni ambito. Un’etica del limite che si strutturi all’interno del rapporto tra l’individuo e il globale, che contenga l’azione trasformatrice del primo all’interno di un sistema complesso, armonico e unitario che riesca ad autoregolarsi e ad operare per la prevenzione e la salvaguardia.

    Se è pur vero che ognuna di queste inclinazioni può avere una sussistenza teorica, al contempo va segnalato che il sistema globale si orienta verso una efficienza rigorosa e una pianificazione che, ormai, travalica le stesse scelte umane le quali, a loro volta, si infiacchiscono in un continuo rincorrere nuove tecnologie sulle cui modalità sempre si adatta il sistema di vita. Perché la tecnica, come molti hanno ripetuto in questi decenni, non soltanto guida e influenza la nostra esplorazione ma pervade la globalità dei campi: «non si accontenta di essere, e, nel nostro mondo, di essere il fattore principale o determinante: essa è divenuta Sistema»⁶. Essenza stessa della nostra epoca e qualcosa di molto più vasto e complesso del vago riferimento alla macchina, anche se la macchina rimanda alle nostre abituali idealità ed effettivamente innovazione peculiare sin dal XIX secolo⁷.

    Bisogna perciò ripartire da questo fronte analitico affinchè la nostra attenzione non si indirizzi esclusivamente verso gli oggetti che hanno una loro fisicità, ma anche su quelle creazioni immateriali che modificano le relazioni tra uomo e mondo. La questione è fin troppo conosciuta: fino a che la potenza tecnica non verrà dispiegata del tutto, saremo ancora in grado di porre dei limiti sacrificando l’utilità e la funzionalità di una scoperta in nome dell’etica? E soprattutto: una volta che saranno desertificati i campi del sacro, della politica, della democrazia, in che modo potremo porre dei limiti? Per dirla in maniera ancora più chiara: se il nostro grado di adesione al progresso tecnico è quasi assoluto, in che modo potremo ancora alimentare qualche risibile spazio di autonomia?

    L’approccio di molti studiosi che indagano la tecnica nelle sue relazioni contestuali, così come nelle sue manifestazioni più visibili, verte sulla tesi che non ci si debba arrendere a una sorta di modello deterministico. Non sono pochi coloro i quali si dicono convinti che una sorta di equilibrio tra ambiente naturale, tecnico e sociale possa essere preservato anche sul medio-lungo periodo. Eppure si muovono da un presupposto che, essendo sbagliato, fa poggiare l’intera tesi su pilastri cedevoli; e cioè che i processi sociali, e quindi le varie interrelazioni tra esseri umani, possano determinare e orientare solo quelle tecniche in grado di rispondere ai bisogni necessari, siano essi individuali o collettivi. Sarebbe cioè sempre presente, oltre che possibile, un’azione politica positiva capace di riaffermare nel più buio deserto nichilistico il valore e la priorità positiva di un agire umano responsabile.

    Una tesi che, seppur largamente condivisa, appare quasi ingenua e di sicuro romantica, perché l’onnipresenza della tecnica e l’utilizzo di strumenti sempre più efficaci modificano gli stili di vita, la concezione del mondo e il nostro essere umani. A differenza del passato, la tecnica si dispiega con una volontà di potenza incommensurabile e quasi in modo autonomo. L’uomo è infatti diventato ingranaggio di un meccanismo dove la tecnica si confonde con la politica e il sociale, e si muove su una linea di progresso monodirezionale in cui ogni tappa precede quella successiva che appare (ed è) sostenuta da strumenti continuativamente più evoluti e capaci di influenzare il quadro collettivo. Questa sorta di onnipervadente ragion tecnica opera un controllo totale a cui nessuno – pur riconoscendone tutta la complessità – può sottrarsi.

    È in definitiva la scelta del treno che periodicamente viene riproposto come esempio paradigmatico. Nel corso della storia, treni più veloci e confortevoli hanno sostituito i precedenti e nessuno si è mai azzardato a fare un passo indietro rinunciando ai moderni comfort, magari auspicando un ritorno alle vecchie carrozze o alle locomotive a vapore. Allo stesso modo, nessuna società vorrà mai rinunciare ad adottare i modelli più evoluti del progresso tecnologico. Vi potrà essere solo un rallentamento dovuto a condizioni economiche disagiate o politiche differenti, come avviene oggi in alcune aree del pianeta, ma il destino è pressoché segnato. Il treno, il computer o qualunque altra cosa non sono solo strumenti ma oggetti nei quali si definisce l’orizzonte della tecnica; e proprio in tal senso che l’intervento della politica potrà apparire sempre più insufficiente nel momento in cui ogni ambiente, dalla scuola all’ospedale, dai luoghi di lavoro a quelli di svago, sarà sempre più organizzato sul modello dell’amministrazione tecnica o di quella che Adorno definì «amministrazione totale»⁸.

    Se a ciò si aggiunge che il modello del capitalismo globale si pone come presupposto culturale irrinunciabile e in sintonia con l’idea di sviluppo progressivo e infinito, allora si comprende quanto la docile accettazione di questa titanica potenza della tecnica vada a conciliarsi con il consenso generalizzato verso il nuovo ordine.

    Perché la contrazione di libertà si impadronisce delle anime e, in modo diretto o indiretto, sempre soggiaciamo al significato ultimo della famosa fiaba del figlio del re portata ad esempio da Günther Anders:

    Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli:

    Ora non hai più bisogno di andare a piedi

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