Lezioni Magistrali di Diritto Costituzionale III: Volume III
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Ovviamente, problemi del genere non possono essere risolti a suon di Lectiones Magistrales. Tuttavia, con esse s’è cercato di creare perlomeno una piattaforma di confronto tra metodologie diverse, cercando di realizzare un verosimile "giro d’orizzonte" su una Comunità di studiosi, la quale, una volta di più, si trova di fronte alle sue cicliche "crisi culturali" e alla connessa emersione di miti stravaganti e non sempre raccomandabili dottrine. (Del tipo che, mutatis mutandis, ai primi del Novecento si sarebbe forse parlato d’una Trahison des Clercs…).
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Lezioni Magistrali di Diritto Costituzionale III - Aljs Vignudelli
Indice
Collana
Prefazione di Aljs Vignudelli
Giuliana Stella - Rappresentanza e sovranità popolare nella Costituzione italiana
Mauro Barberis - Eguaglianza, ragionevolezza e liberà
Paolo Caretti - Eguaglianza e diritti sociali
Pierfrancesco Grossi - Diritti inviolabili e diritti fondamentali nel sistema della Costituzione italiana
Agostino Carrino - Per una nuova Costituzione dell'Europa
Gianni Ferrara - La dimensione collettiva dei diritti di libertà
Roberto Zaccaria - La libertà della comunicazione
Gustavo Zagrebelsky - Aspetti e prospettive della laicità
Michela Manetti - La libertà di pensiero e la risorgente punizione della blasfemia
Michele Sesta - Le relazioni familiari nella Costituzione
Pietro Rescigno - Sulla Costituzione economica
Augusto Cerri - Libertà di ricerca scientifica, libertà di insegnamento
Stefano Rodotà - La proprietà privata
Mario Bertolissi - Tutela del risparmio e disciplina del credito
Gladio Gemma - I doveri costituzionali
Lezioni Magistrali
a cura di Aljs Vignudelli
VOLUME III
Queste Lectiones Magistrales vorrebbero rappresentare un elemento di continuità, inserendosi in una risalente tradizione giuridica dell’Ateneo modenese che – nato nel 1175 – rappresenta una delle istituzioni universitarie più antiche del mondo, dopo quella di Bologna.
Il nostro Ateneo, infatti, s’è sviluppato attorno allo ‘Studium mutinense’ di un giurista del XII secolo, Pillio da Medicina, che apparteneva alla scuola dei glossatori civilisti e che era già stato professore all’Università di Bologna.
Nel Medio Evo gli studi giuridici ebbero continuità e si svilupparono, dal XIII secolo con Guido da Suzzara al XIV secolo con Niccolò Mattarelli, fino alla successiva fase di silenzio, dovuta alla nascita dell’Università estense di Ferrara, fase nella quale comunque operarono Accademie in cui emersero giuristi di vaglia come Ludovico Castelvetro.
A partire dal 1683 l’Università modenese riprende con la formazione dell’importante classe di giuristi al servizio dell’ideale della pubblica felicità
di muratoriana memoria, tra i quali si può ricordare Bartolomeo Valdrighi, autore di uno dei codici settecenteschi più importanti d’Europa. Nel medesimo periodo lo stesso Ludovico Antonio Muratori si laurea presso quest’Ateneo.
Dopo la parentesi napoleonica, gli studi giuridici continuano attirando le attenzioni non sempre benevole del ducato a causa delle prime scintille risorgimentali riconducibili proprio alla Facoltà di giurisprudenza di quest’Università.
Con l’unità d’Italia, l’Ateneo di Modena subì tentativi di ridimensionamento che diedero origine a una campagna di valorizzazione sostenuta particolarmente dai docenti di diritto.
Nel Novecento gli studi giuridici hanno prosperato, lau-
reando importati personaggi politici e studiosi quali Sandro Pertini e Donato Donati, nonché accogliendo docenti illustri quali – fra i tanti – Adeodato Bonasi, Benvenuto Donati, Santi Romano, Piero Calamandrei, Eugenio Florian, Giandomenico Pisapia, Antonio Amorth e Giuseppe Dossetti.
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Edizione digitale: settembre 2016
Produzione digitale: Mucchi Editore
ISBN: 9788870007251
Prefazione
Dopo un felice percorso, s’è concluso il Ciclo triennale di Lectiones Magistrales intrapreso nel 2010, che ha rappresentato per noi tutti – discenti e docenti – un’occasione non scontata d’avere come ospiti tanti illustri Amici e Colleghi presso il Dipartimento mutinense a testimonianza della miglior dottrina costituzionalistica dalla seconda metà del secolo breve fino ai giorni nostri.
E, sebbene il mettere le mani su alcuni contributi si sia talvolta tramutato in un’onirica e sfinente scalata su irte dune di polvere e sabbia, non volendo emulare il professor Fen del Manoscritto perduto di Edmund Crispin, ce ne si è fatti una ragione decidendo di non rincorrerli Until the End of the World, sia pure col terrore nel cuore d’aver fatalmente smarrito un qualche decisivo frammento dei papiri d’Ercolano.
Si lascia volentieri ad altri il bilancio su questa iniziativa – cómpito fatalmente ingrato per il curatore, il quale farebbe sempre bene a desistere.
Da una parte, invero, sembrerebbe prudente tutelarsi dal sin troppo umano
rischio dell’autoindulgenza, che permane anche al netto d’ogni buona intenzione; dall’altra parte, neppure i lusinghieri riscontri ricevuti in questi anni parrebbero offrire un parametro davvero terzo
, potendo sempre essere imputabili anche al solo garbo d’una Comunità (almeno in apparenza) gentile
e non essendo possibile, per ragioni di bon ton, approfondirne le reali determinanti.
Qui interesserebbe piuttosto offrire una chiave di lettura retrospettiva sulla composizione del carnet degli inviti di queste Lectiones, che per certi versi si risolve in una nota quasi autobiografica
.
È stato osservato, infatti, che ciascuno è inevitabilmente chiamato a confrontarsi con la propria generazione e dunque anche il giurista – come bene illustrato da Natalino Irti – sarebbe inserito in un orizzonte di domande e d’attese storicamente definito e per così dire indisponibile
. Tra le cose che nella vita non si possono scegliere ma che tuttavia massimamente ci condizionano (e solo in piccola parte si possono pensare di cambiare) c’è, anzitutto, quel particolare universo lato sensu culturale
in cui si viene (e si sta) al mondo.
Tutto questo, va da sé, non esclude che si possano dare ipotesi anche proficue di scambio fra generazioni diverse. Nondimeno, per avere una qualche speranza di successo, tale dialogo sembrerebbe inevitabilmente da posporre a un rigoroso approfondimento rivolto ad una miglior comprensione di se stessi. Mi parrebbe, insomma, che ogni itinerario inter-generazionale debba presupporre, quanto meno se articolato secondo una corretta sintassi logica, quello infra-generazionale.
Segnatamente all’insegna di quest’ultimo è nata l’idea e s’è poi articolato il "casting" per i protagonisti dell’iniziativa scientifica che qui si conclude, quanto meno sotto il profilo editoriale (sit finis libri, non quaerendi…). Accanto alla selezione sostanziale
di alcune tematiche notevoli, infatti, s’è pensato d’offrire pure una testimonianza d’insieme di quella che sento come la mia
generazione, sebbene allargata a significativi interpreti di quelle precedenti (e, in rarissimi casi, a talune di quelle successive).
Se è vero che le possibilità d’esprimere una lettura del mondo che possa essere compresa, benché non necessariamente condivisa, variano e si graduano anche a seconda del proprio interlocutore, la scelta dei compagni di viaggio
si configura come un’opzione tutt’altro che marginale. A maggior ragione, poi, tenuto conto che da quell’evento cosmologico
costituito dalla nascita delle Costituzioni del secondo dopoguerra la scienza del diritto ha vissuto un caleidoscopico succedersi di stagioni teoriche assai complicato, il cui Wesensgehalt è molto difficile da percepire per coloro che non le abbiano respirate in presa diretta.
Evidentemente, qui non ci riferisce alla capacità più o meno ampia di comprendere strutture e contenuti dei fenomeni giuridici, bensì soltanto alla condivisione, a livello potremmo dire emotivo
, del medesimo spettacolo naturale (alba o crepuscolo che sia) in un clima di sun-páthos.
È questo, se vogliamo, il particolarissimo privilegio
della generazione che ha visto cadere e rinascere sotto nuove vesti quel diritto naturale che troppo in fretta si era dato per morto
e che ora s’affanna a proclamare per definitiva la dipartita del giuspositivismo (spesso senza neppure sapere di che cosa parla); che ha dapprima salutato con favore l’accostamento formale al fenomeno giuridico in termini di analisi del linguaggio e che poi l’ha ripudiato rifugiandosi nelle correnti ideologiche
, sociologiche
e, da ultimo, assiologiche
dell’approccio al diritto; che ha saputo conciliare la perdurante liquidazione del giusrealismo come curiosità quasi folkloristica col progressivo affermarsi del diritto vivente
quale paradigma fondamentale della propria scienza.
È con coloro che abbiano condiviso in prima persona l’interezza di questa parabola culturale – a prescindere dalle sponde in cui si siano acquartierati, osservando il precetto del «dialogare con tutti… purché valorosi!» – che in queste Lectiones s’è provato a fare un po’ il punto della situazione
sulle singole tematiche particolari che oggi più che mai, tra l’altro, si ritrovano al centro dell’inesausto dibattito sollevato dall’attuale temperie
di grandi riforme istituzionali e costituzionali.
Certo è che questo benedetto punto
, piuttosto che configurarsi come un obiettivo concretamente raggiungibile, parrebbe spesso teleologicamente destinato a restare una semplice aspirazione, anche per via dei non pochi volenterosi
che, da bravi Zauberlehrlinge, pensano di risolvere con l’ausilio di qualche prestigio interpretativo problemi che in realtà, evidentemente, esigerebbero strategie e impianti concettuali di ben altra consistenza.
Per certi versi, infatti, talune equazioni paradossali
offerte dalla realtà parrebbero addirittura oltrepassare la fantasia di Raimond Quenau, il quale ne I fiori blu aveva a scrivere come «il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salí in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Eudeno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs».
Modena, aprile 2014
Aljs Vignudelli
Giuliana Stella
Università degli Studi di Napoli Federico II
RAPPRESENTANZA E SOVRANITÀ POPOLARE NELLA COSTITUZIONE ITALIANA
L'articolo 1 della Costituzione italiana, al primo comma, definisce l’Italia una ‘repubblica democratica’, mentre, al secondo comma, sancisce che la sovranità appartiene al popolo. Le due nozioni sono strettamente connesse e, tuttavia, il principio democratico si declina diversamente allorché esso sia chiamato in causa con l’affermare che la sovranità appartiene al popolo e quando, invece, serva a qualificare la forma-Stato ‘repubblica’. Il fulcro dell’articolo tutto, infatti, sta nel secondo comma, dove è individuato uno dei princìpi fondamentali della Costituzione, quello democratico, appunto; il sintagma qualificativo dell’Italia come ‘repubblica democratica’ ha, di converso, lo scopo preciso di annettere ai princìpi fondamentali della Costituzione anche quella forma repubblicana, intangibile ex art. 139 Cost., frutto della scelta popolare espressa mediante il referendum del 2 giugno 1946, scelta che costituisce il presupposto dell’esistenza stessa della Costituzione della Repubblica italiana e che portò al superamento della forma monarchica. D’altro canto, pur non potendosi disconoscere che è insito nella repubblica un duplice escamotage democratico – quello dell’utilizzo dello strumento elettivo e quello della temporaneità del mandato –, va aggiunto che l’individuazione della forma-Stato repubblicana non è di per sé sola denotativa della connotazione democratica dell’ordinamento, potendo sussistere, come ipotesi di scuola, accanto al modello della repubblica democratica altresì quello della repubblica cesarista o aristocratica.
Certamente, la scelta repubblicana di per sé rappresentò il risultato di una votazione popolare – per la prima volta a suffragio universale – che coincise con un cambio di regime. Questo fu posto in essere da un potere costituente, confluito, in ultima istanza, in una determinazione duplice: la prima, quella cui pervenne il referendum istitutivo della repubblica, e, la seconda, quella consistente nell’elezione dei membri dell’Assemblea costituente, nonché legittimante in via democratica l’origine della stessa Costituzione. E, tuttavia, occorre dire che la definizione dell’Italia come ‘repubblica democratica’, presente nel primo comma, mentre attribuisce la giusta misura alla forma di Stato che l’Italia stessa è, sposta l’attenzione su quello che fu il primo cómpito assunto dai padri costituenti, ossia quello di individuare fin da subito il valore fondante del nuovo Stato: la sovranità popolare. L’incipit della Costituzione italiana individua in ciò il suo punto di forza: conseguentemente, la dottrina è indotta a interrogarsi in particolare sui concetti/valori di ‘popolo’ e di ‘sovranità’ e sui loro possibili diversi significati.
Va detto, preliminarmente, che con ‘democrazia’ si deve intendere, in senso lato, quella corrispondenza tra governanti e governati atta a far sì che il passaggio qualitativo dal binomio monarca – suddito
a quello governante – cittadino
potesse specificarsi infine in una identità dei cittadini con la totalità del popolo. E, dunque, in questo senso, all’art. 1 della Costituzione italiana è già preannunciato quel principio di uguaglianza, la cui dichiarazione dettagliata è affidata all’art. 3 e che, in quanto principio fondamentale dell’ordinamento, costituisce l’asse portante della nostra Costituzione formale e materiale. Tale principio implica specificamente l’uguaglianza, appunto, tra governanti e governati, nel significato che è il popolo stesso – inteso, innanzitutto, come si vedrà, come corpo elettorale – a designare (scegliere), direttamente o indirettamente, la cosiddetta classe dirigente. Ma va detto, anche, che al secondo comma dell’articolo in questione è specificato il modus della democrazia italiana, che, nel suo esercizio
, conseguente ma non necessariamente coincidente con la sua titolarità, sottostà alle forme e ai limiti costituzionali. Ciò non può essere tradotto se non nel fatto che il costituente, nel delineare lo specifico modello democratico e i modi dell’applicazione di esso nello Stato italiano, ha ritenuto indispensabile inserire la democrazia stessa nella cornice di quel costituzionalismo, che, nell’aver dato vita allo Stato di diritto, si colloca geneticamente e logicamente alle fondamenta dello Stato democratico stesso. È in questo senso che, nel 1948, commentando appunto l’art. 1 Cost., Esposito affermava: «la sovranità non preesiste al diritto ma si organizza col diritto».
Proprio l’indicazione specifica che l’esercizio della sovranità da parte del popolo avvenga nelle forme e nei limiti della Costituzione
segnala la necessità di individuare l’esatta valenza del concetto di sovranità nella Costituzione italiana. Poiché, infatti, la stessa appartenenza del potere supremo al popolo può essere intesa in maniera variabile a seconda che comprenda o meno la possibilità di istituti della cosiddetta democrazia diretta
e poiché il modello di democrazia presente nella nostra Costituzione si evidenzia come un modello a predominante democrazia rappresentativa, occorrerà determinare quale sia il soggetto reale della sovranità stessa.
Occorre dire, innanzitutto, che, se con ‘sovranità’ si intende un potere supremo, il cui fondamento e legittimazione siano tali da non intaccare indipendenza e originarietà del soggetto che ne abbia titolo, è necessario procrastinare logicamente il momento dell’individuazione nel popolo del titolare di essa – come pure la questione relativa alla definizione stessa di ‘popolo’ –, in primis riguardando con attenzione il tema della sovranità dello Stato; del resto, non sarebbe possibile trascurare la particolare emergenza di questa specifica prospettiva, che, aprendo a una infinità di contraddizioni e paradossi, tanto giuridici, quanto politici, si porta dietro l’irrisolta, ma non trascurabile questione concernente la crisi della sovranità e la cosiddetta estinzione
dello Stato. Ebbene, in questa sede, è d’uopo ricordare il ruolo rivestito dalla declinazione della sovranità in termini di sovranità statuale, piuttosto che popolare, al fine di enfatizzare l’origine più genuina della stessa sovranità democratica.
Il potere sovrano
, supremo
, che, nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato cosiddetto di diritto
, passa nelle mani del popolo per il tramite dell’investitura del parlamento e la cui titolarità ed esercizio risultano oramai in buona parte sottratti al monarca, consiste eminentemente nel potere legislativo, che rappresenta il potere per antonomasia: infatti, a partire dalla Rivoluzione francese, è nella legge che vengono convogliati la volontà generale e il bene comune. Accade, tuttavia, che il popolo – pur titolare della sovranità e, dunque, innanzitutto del potere legislativo –, adeguando il suo ruolo al principio della divisione del lavoro, demandi a dei rappresentanti il potere di fare le leggi, in tal modo rendendo sovrano il parlamento: in questo specifico senso – e solo in questo – si può sostenere che, nella svolta storico-istituzionale in cui si determina il passaggio allo Stato di diritto, la sovranità – connotativa, con popolo e territorio, dell’ente politico ‘Stato’ – è, di fatto, impersonata ed esercitata dal popolo.
Veniamo, perciò, al punto saliente relativo alla comprensione dell’art. 1 Cost., in particolare nel merito della questione riguardante quello specifico principio inderogabile, che è il principio democratico: chi è il popolo? Se il potere per antonomasia, quello connotativo della sovranità, è, salvo dimostrazione contraria, il potere di fare le leggi, il parlamento continua a essere, anche oltre la fase storica dello Stato costituzionale o di diritto – politicamente corrispondente al modello liberale, prima, e liberal-democratico, poi –, il concreto destinatario della sovranità, e, dunque, il popolo, che quell’organo rappresenta, consisterà esclusivamente nel popolo elettore, ossia nei cittadini che, nell’elezione dei rappresentanti, attribuiscono loro il cómpito di legiferare. Oltre a ciò, nella designazione dei titolari del potere esecutivo, in specie in un sistema razionalizzato secondo la forma di governo parlamentare, è sempre la legittimazione da parte del parlamento ad attribuire a essi l’imprimatur popolare. E, tuttavia, proprio il potere esecutivo, che, nell’identificazione della sua originaria derivazione, non concorre direttamente al consolidamento del modello democratico, finisce, inevitabilmente, per evidenziare una sostanziale incompiutezza
della democrazia. Il sistema appare bloccato a una mera titolarità in capo al popolo della sovranità, il cui esercizio risulta limitato, non soltanto dalle «forme» e dai «limiti» della Costituzione – pietre miliari del principio di legalità –, ma vieppiù dal consolidamento di meccanismi di mediazione, che di fatto impediscono la realizzazione di una crescente e, pur nella sua gradualità, necessaria approssimazione all’identità tra governanti e governati, ossia alla modalità più convincente di democrazia, quella partecipativa o diretta.
È noto che la dottrina non è affatto univoca nell’accettare l’equiparazione delle modalità di una democrazia diretta
e di una democrazia intesa come partecipazione
. Ciò, del resto, è assolutamente inevitabile, là dove si tenga conto dell’antichità dell’uso del termine ‘democrazia’, dell’evoluzione filosofica
e ideologica del concetto, nonché della specifica declinazione degli strumenti della democrazia cosiddetta partecipativa
già soltanto nel nostro ordinamento, alcuni giuristi avendo di essi una visione alquanto allargata, altri restringendoli, invece, al solo istituto del referendum abrogativo. E non si dimentichi chi, come Schmitt, e già negli anni Venti del Novecento, interpretava, del resto piuttosto coerentemente, l’acclamazione popolare come l’espressione democratica più genuina, individuando in questo gesto l’immediatezza del volere, il cui oggetto ben poteva corrispondere alla mitica volontà generale
ponendosi come la vera espressione di una democrazia diretta
.
È possibile seguire l’autorevole suggerimento a definire i modi della democrazia deducibili dalla nostra legge fondamentale come tali da appartenere a un sottomodello rappresentativo-partecipativo
, in cui «il popolo ha sia il potere di eleggere i propri rappresentanti, sia quello di partecipare con appositi istituti alle decisioni pubbliche, sino a poter procedere anche alla loro diretta
assunzione attraverso specifiche votazioni» (M. Luciani, Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, 2004). Questa definizione deve, tuttavia, essere solo un inizio per un’interpretazione dinamica – e non meramente statica – della Costituzione, cosicché le forme della democrazia sottese allo ‘esercizio’, di cui al secondo comma dell’articolo in questione, siano integrate con il significato corrispondente a quella piena titolarità della democrazia in capo al popolo denotativa del nesso che il costituente sempre al secondo comma ha definito di ‘appartenenza’. Ciò chiama in causa due aspetti che non possono essere trascurati nella lettura del principio democratico. Il primo: dei significati dell’uso di democrazia e del ruolo del popolo quale titolare di essa, è evidente la necessità di privilegiare quello sostanziale rispetto a quello formale, se solo si pensi che la Costituzione della Repubblica italiana, prevedendo ex art. 48.4 dei limiti al diritto di voto, individua un discrimine all’interno del concetto di popolo, costringendo per ciò stesso a integrare la definizione di popolo inteso come corpo elettorale con degli altri aspetti. Sono essi a far sì che si parli in senso più ampio di esercizio
della sovranità, il quale, dunque, è da intendersi presente anche nella fruizione da parte del cittadino di quei diritti/doveri sanciti in maniera esplicita e implicita dalla Costituzione stessa, diritti/doveri che si mantengono in capo al cittadino stesso anche quando non goda dei diritti politici.
Il secondo aspetto, assai problematico, chiama in causa l’attuazione di una pienezza democratica, che non si limiti alla proiezione della volontà popolare nella designazione di un organo il cui cómpito principale è quello di rispondere all’esercizio del potere legislativo, ma arrischi una visione della democrazia come «autogoverno della collettività» (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, 1970): l’attenzione si sposta, allora, su una interpretazione dell’appartenenza della sovranità al popolo intesa anche in termini di esercizio del potere esecutivo (non è un caso che la dottrina attuale – p. es. U. Allegretti, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, 2007 – ritenga di dover tenere conto dei rapporti della democrazia partecipativa con quella cosiddetta deliberativa
). Questo tipo di percorso non è affatto escluso dal Costituente ed è agilmente rinvenibile nello svelamento del senso originario del ruolo del parlamento, cui non va semplicisticamente ricondotto il significato della mera rappresentanza
, bensì quello più genuino di rappresentazione
, nella metafora esplicativa del mettere in scena
, del presentare di nuovo
, in cui vive il retaggio della concezione hobbesiana della rappresentanza intesa come cifra dell’unità politica moderna (di questo sdoppiamento rende bene conto la dottrina pubblicistica tedesca, utilizzando due distinte espressioni – ‘Vertretung’ allusiva alla rappresentanza cosiddetta degli interessi, di origine privatistica, e ‘Repräsentation’, legata al pubblico, denotativa, invece, della rappresentanza politica). Nasce il parlamento come rappresentazione
di un potere, il potere simboleggiato sì dal parlamento, ma, di fatto, appartenente a un gruppo di forza che è opposto al monarca, il quale, invece, rimane ancóra titolare del potere esecutivo. Anche in una democrazia il parlamento è innanzitutto rappresentazione, rappresentazione del potere del popolo: a esso pertiene l’esercizio del potere legislativo, nella misura in cui, tradizionalmente, la volontà generale è veicolata mediante il potere legislativo. Ma, in una democrazia, anche il titolare del potere esecutivo non può essere altri che il popolo, in quanto la sovranità non è più condivisa tra popolo e monarca. E, dunque, non è più solo il parlamento il luogo in cui si ascolta, per il tramite dei suoi rappresentanti, la voce del popolo, essendo il parlamento stesso solamente uno
dei luoghi, in cui, «nelle forme e nei limiti della Costituzione», secondo quanto recita l’art. 1.2 Cost., deve esercitarsi da parte del popolo la sovranità che a lui, e solo a lui, appartiene.
Il problema consiste, allora, nell’individuare queste «forme» e questi «limiti», ma anche nel vedere in che misura la stessa Costituzione sia stata, e debba ancóra essere, attuata, nonché se sia suscettibile di venire attualizzata. A sua volta, questo tema va, poi, ricondotto nell’alveo della più ampia questione riguardante il fatto se il potere di decisione sull’indirizzo politico possa essere considerato di esclusiva pertinenza dello Stato-apparato o – così come si conclude, a dar ascolto a Mortati (Commentario della Costituzione. Art. 1, 1975) – non debba, piuttosto, scaturire dal principio democratico stesso l’esigenza di attribuire proprio al popolo la scelta dell’indirizzo politico. L’attribuzione al popolo delle decisioni attuative di un indirizzo politico va ben oltre quanto esplicitamente emergente nell’art. 49 Cost. – secondo cui pertiene ai cittadini il mero concorrere
a «determinare la politica nazionale» – e, oltre che inerente all’esercizio del potere legislativo, deve orientarsi, in una fase che vede prevalere la forma amministrativa dello Stato, particolarmente alla questione riguardante l’esercizio del potere esecutivo. È necessario, a questo proposito, ricordare la non secondaria ovvietà che, a partire dall’epoca in cui la Costituzione della Repubblica italiana entrò in vigore ad oggi, come era inevitabile che fosse, molte cose sono cambiate nei rapporti di equilibrio esistenti tra i poteri e che questo scenario modificato ha inciso proprio anche sul principio democratico, predisponendolo, per certi versi, in maniera più efficace a un compimento concreto.
Occorrerà, allora, riflettere senza pregiudizi sulle trasformazioni inerenti l’esercizio della funzione legislativa: esse hanno indotto un evidente spostamento di essa dall’organo titolare del potere legislativo a quello titolare del potere esecutivo. Sarebbe, tuttavia, improprio individuare in questo processo una mera involuzione del sistema, riconducendone il senso a una mera disfunzionalità e sanzionando, secondo una consuetudine ormai abusata, la lentezza strutturale dei procedimenti parlamentari, da un lato, e l’uso abnorme e indiscriminato del decreto-legge, dall’altro. In realtà, a questi due elementi, certamente divenuti,