Storia del Sindacato nel settore dei trasporti in Italia
Di AAVV
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Ci troviamo di fronte ad un argomento sul quale, ancora, non sono stati scritti volumi sistematici. Se ciò da un lato è un bene, allo stesso tempo è anche un male impossibile da eludere. Valutando gli aspetti positivi dell'impresa, mancando altri testi cui riferirsi per dotarsi di una documentazione di già analizzata e vagliata criticamente, la sensazione è quella di un'ampia libertà di idee ed opinioni.
I pensieri che emergeranno, più o meno palesemente, da questa indagine storica non dovranno confrontarsi con altri già esistenti mostrando la fondatezza o non fondatezza di quanto affermato nel merito.
Col dire questo, già si è anticipata la struttura del presente volume. Esso consterà idealmente di due parti: una dedicata alla discussione ed analisi dei problemi specifici che hanno visto il sindacato nel mondo dei trasporti, negli anni, a lavoro per organizzare la forza lavoro; e un'altra dedicata al racconto – questo affidato per intero ai protagonisti che vi hanno lavorato – dagli anni di costituzione della UIL-TRASPORTI, nel 1983, ad oggi.
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Storia del Sindacato nel settore dei trasporti in Italia - AAVV
Storia del Sindacato nel settore dei trasporti in Italia
© Arcadia edizioni
I edizione, novembre 2017
Isbn 978-88-943733-1-8
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Avvertenza
Quel grande ed immenso storico del Medioevo che fu Georges Duby, in più di un’occasione non esitò ad affermare quanto segue circa la sua disciplina e la sua professione:
La storia è tra le scienze umane quella che ha costruito l’armatura del suo metodo prima delle altre, nel secolo XVII, quando ci si è accorti che bisognava trattare in un certo modo le fonti documentarie, cioè raccogliere tutte quelle disponibili, non modificare le loro rispettive posizioni, criticarle una per una e sottoporle a verifica per tentare di liberare l’indizio, la testimonianza da tutte le scorie che la ricoprono e la mascherano. C’è un metodo di analisi della veracità del segno che è estremamente importante e che ci impegna a impiegare tutti i procedimenti tecnici elaborati recentemente sia per leggere il manoscritto, sia per stabilire la data di un reperto archeologico. Una volta fatta questa critica bisogna usare le testimonianze allo scopo di ricostituire un racconto. A questo proposito i filosofi, e in particolare il grande filosofo francese Paul Ricoeur, hanno stabilito che ogni discorso storico è fondato su una struttura narrativa, su un racconto, su un intreccio, e che anche quando si tratta di descrivere l’evoluzione dei prezzi durante il XIX secolo, o la natura delle pratiche religiose a un certo momento della storia, i prezzi o la devozione agiscono come personaggi in un racconto romanzesco. Bisogna dunque ricostruirlo con grande discrezione.
E ancora:
Lo storico è necessariamente obbligato a fare appello alla propria immaginazione, perché le testimonianze di cui dispone sono discontinue, intervallate da vaste lacune, da vuoti, e questi vuoti bisogna colmarli e non si possono colmare che mediante l’immaginazione. Ma l’immaginazione deve essere strettamente controllata dalla ragione e da una critica e da un’autocritica che lo storico deve continuamente esercitare su se stesso per difendersi dalle divagazioni nelle quali la sua immaginazione, se non fosse vincolata, lo trascinerebbe.
Queste due dichiarazioni si possono facilmente reperire sul web (http://www.filosofico.net/duby.htm). Ma in quanti, oggi, ricordano Duby? E soprattutto, si domanderanno i lettori del presente volume, a che pro scomodare uno storico del Medioevo che, per quanto prestigioso, poco ha a che vedere con una storia del sindacato dei trasporti?
Cerchiamo di rispondere a questi interrogativi che, seppur spontanei, certamente non possono eludersi con grande facilità.
A nostro avviso Duby ha restituito alla Storia – come disciplina e come pensiero – la sua dimensione profondamente umana. Il passato – remoto o recente che sia – è per forza di cose oscuro. Anche laddove sembrerebbe non vi sia più nulla da scoprire, a ben osservare ecco che viene fuori un cono d’ombra che, man mano che l’indagine si approfondisce, diviene sempre più esteso ed intenso.
Nel nostro caso ci troviamo di fronte ad un argomento sul quale, ancora, non sono stati scritti volumi sistematici. Se ciò da un lato è un bene, allo stesso tempo è anche un male impossibile da eludere.
Valutando gli aspetti positivi dell’impresa, mancando altri testi cui riferirsi per dotarsi di una documentazione di già analizzata e vagliata criticamente, la sensazione è quella di un’ampia libertà di idee ed opinioni. I pensieri che emergeranno, più o meno palesemente, da questa indagine storica non dovranno confrontarsi con altri già esistenti mostrando la fondatezza o non fondatezza di quanto affermato nel merito.
Allo stesso tempo ciò costituisce uno svantaggio di non poco conto, poiché si dovrà reperire tutta quella documentazione e quel materiale che ancora non hanno conosciuto un’opportuna sistematizzazione razionale; e su di essi esercitare una lettura critica il più possibile attenta, equilibrata e ponderata.
Successivamente bisognerà ricorrere alle testimonianze orali: al racconto, cioè, di coloro che hanno avuto un ruolo da protagonista nella storia del sindacato dei trasporti.
Col dire questo, già si è anticipata la struttura del presente volume. Esso consterà idealmente di due parti: una dedicata alla discussione ed analisi dei problemi specifici che hanno visto il sindacato nel mondo dei trasporti, negli anni, a lavoro per organizzare la forza lavoro; e un’altra dedicata al racconto – questo affidato per intero ai protagonisti che vi hanno lavorato – dagli anni di costituzione della UIL-TRASPORTI, nel 1983, ad oggi.
Se, come affermato da Duby, la storia è un racconto – e dubbio non v’è che non lo sia –, si è deciso di non suddividere in paragrafi i capitoli che seguiranno. Una strutturazione del genere non avrebbe che reso frammentaria e poco coinvolgente la lettura. Uno stile narrativo, non per questo esente dall’essere scientifico, in linea teorica dovrebbe concepirsi come il più possibile privo di soste: nell’attimo stesso in cui il lettore inizia a leggere, non dovrebbe più abbandonare la pagina fintanto che non si giunge alla fine del libro.
Se si sia o meno riusciti in quest’ultimo intento, non spetta a noi dirlo. Lo scopo di queste pagine sta nell’aver voluto delineare, nel modo più esaustivo possibile, una storia mai scritta fino ad oggi e che ha fatto appello affinché una o più voci potessero raccontarla.
Un mondo nuovo ma simile al precedente
Quando si parla di sindacato, viene facile pensare a un mondo e ad una storia continuamente popolati da lotte, proteste, confronti serrati, contrattazioni condotte a suon di articoli di legge. È innegabile che anche questo aspetto vi sia; ma non è il solo. Pensare il contrario è quanto di più superficiale si possa fare.
Quando si parla di sindacato, viene facile pensare a un mondo e ad una storia continuamente popolati da lotte, proteste, confronti serrati, contrattazioni condotte a suon di articoli di legge. È innegabile che anche questo aspetto vi sia; ma non è il solo. Pensare il contrario è quanto di più superficiale si possa fare.
È indubbio che quello dei sindacati sia un mondo tutto orientato a far sì che il lavoratore, le sue condizioni e i suoi diritti – di pari passo con i suoi doveri – si situino in un contesto di rispetto, dignità e correttezza sul piano legale e pratico. Talvolta per giungere ad ottenere dei risultati si rende necessario alzare il tono di voce per non lasciare inaudite alcune richieste.
Molto spesso si giunge a risultati che soddisfano. Altrettanto sovente è necessario accettare l’idea di non essere riusciti a portare a casa ciò che ci si era preposti. Tale, purtroppo, è la dinamica di quello che Hegel chiamava lo spirito nel suo manifestarsi attraverso contraddizioni che, in conclusione, finiscono tutte per risolversi per mezzo del processo di sintesi, il quale a sua volta, seppure a un livello superiore, innesca una nuova dinamica di tesi e antitesi.
Ma è giusto pensare che il sindacato non sia un mondo dove regni unicamente tale clima di contrasto tra colui che il lavoro lo offre e il lavoratore. Quello del confronto serrato è solo un aspetto, certamente il più clamoroso e chiassoso, di un soggetto che tenta di organizzare il lavoro affinché, senza venir meno ai principî del giusto e retto guadagno per l’impresa, non siano perpetrate ingiustizie a danno di colui che opera per far sì che tale guadagno si realizzi al meglio: il lavoratore.
Proviamo a gettare uno sguardo agli albori della nostra epoca contemporanea. Si dovrà fare un intenso sforzo di immaginazione, poiché dovremo abituare la vista a spogliare il paesaggio circostante di palazzi ed insediamenti industriali, e farlo tornare a quella che era la sua origine; vale a dire: campi più o meno estesi e per intero coltivati.
L’agricoltura costituiva l’attività principale su cui si basava tutta l’economia nazionale fino a metà Ottocento. Gli agglomerati di fabbriche, pochi in verità, non erano ancora numerosi in misura tale da poter parlare di industrializzazione. Le prime realtà di tale contesto, più che come soggetti distinti dal mondo rurale, ne erano una diretta derivazione.
Dagli anni Settanta del secolo Diciannovesimo, secondo quanto storicamente stabilito da Giardina Sabatucci e Vidotto, si può parlare di Seconda Rivoluzione Industriale. Diversa, quest’ultima, dalla precedente, perché per la prima volta il mondo della fabbrica inizia a dotarsi di metodologie e forze sue proprie. Fu, per la verità, quest’ultimo un tentativo più che uno scopo in pieno conseguito. Cerchiamo di capirne il perché.
Il mondo industriale primevo si costituì in virtù, e in conseguenza, del progresso tecnico che iniziò ad aggirarsi per il mondo occidentale, specialmente europeo. Una ventata di radicale novità venne portata soprattutto da due invenzioni: il motore a scoppio e l’elettricità.
Seguiamo quanto dicono i tre storici dell’evo contemporaneo testé citati:
Se la prima rivoluzione industriale si era fondata essenzialmente su un tipo di macchina, quella a vapore, e su una fonte di energia, il carbon fossile, la seconda fu caratterizzata dall’invenzione del motore a scoppio (o a combustione interna) e dall’utilizzazione sempre più larga dell’elettricità.
In sostanza, le prime forme di industrializzazione si realizzarono, sì, grazie ad un progresso di natura tecnico-scientifica, ma questo era, si può dire ma senza prendere tale affermazione con la valenza di dogma, di diretta derivazione del mondo rurale: il vapore altro non è che il punto di massima trasformazione di quella materia prima che, infine, è l’acqua; il carbone, dal canto suo, è una derivazione del legno. Tutti elementi facilmente reperibili in natura. Fu sufficiente trasformarli, come in effetti avvenne, per essere riutilizzati nella filiera produttiva industriale.
Diverso è il discorso per il motore a scoppio e l’energia elettrica. Il primo
fu il risultato di una lunga serie di studi e di esperimenti che videro impegnati, fin dagli anni ’50, scienziati di diversi paesi: gli italiani Barsanti e Matteucci, il francese Lenoir, l’inglese Clerck, il tedesco Nikolaus Otto che, nel 1876, costruì un motore a quattro tempi capace di unire un rendimento molto elevato a una relativa silenziosità.
L’energia elettrica, immediatamente dopo l’invenzione della pila da parte di Alessandro Volta, ebbe una forte richiesta di applicazione. Fu, difatti, impiegata per lo sviluppo e l’utilizzo della telegrafia via filo; per l’illuminazione dei primi centri urbani che presero a nascere intorno e nelle vicinanze dei poli industriali; per la produzione massiccia della lampadina a filamento incandescente, inventata da Thomas Alva Edison nel 1879; ed infine, per dotare l’industria di una capacità produttiva maggiore.
Da quanto appena detto, emerge un elemento fondamentale per il discorso che stiamo impostando intorno al sindacato dei trasporti: e cioè che, per la prima volta nella storia, l’industria iniziò ad imporsi come mondo a sé, con regole sue e modi operandi emancipati dal contesto agricolo. Fu veramente così? Per comprenderlo dovremmo cercare di lavorare con un po’ di immaginazione, connettendo – beninteso – gli elementi che la storia mette