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Crimini e serie tv - l'omicidio fra piccolo schermo e realtà
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E-book363 pagine5 ore

Crimini e serie tv - l'omicidio fra piccolo schermo e realtà

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Divoratrici di serie tv e film a base di crimine, Cristina Brondoni (giornalista e criminologa) e Chiara Poli (giornalista e scrittrice specializzata in serie tv) ci raccontano le differenze fra telefilm e realtà: le tecniche investigative, il profiling, l’identikit di un vero serial killer, l’evoluzione dell’omicidio in tv e del linguaggio televisivo, i fatti di cronaca che hanno coinvolto i protagonisti delle serie, la sospensione dell’incredulità nello spettatore, i moventi, l’analisi delle prove... Con oltre 160 serie tv prese ad esempio (da Dexter a Criminal Minds, da CSI a The Walking Dead, da 24 a Lost, da Perry Mason a Colombo) le autrici ricostruiscono i cambiamenti epocali che hanno sdoganato il crimine in tv, appassionando milioni di telespettatori in tutto il mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2013
ISBN9788868557836
Crimini e serie tv - l'omicidio fra piccolo schermo e realtà

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    Crimini e serie tv - l'omicidio fra piccolo schermo e realtà - Chiara Poli

    1

    Dov’è il cadavere?

    Una volta appurato che per serie tv si intende in questo contesto un telefilm (termine tutto italiano entrato nell’uso comune, che noi adotteremo liberamente come sinonimo di serie) americano e non un qualsiasi altro genere televisivo si può dare un occhio da vicino ai primi telefilm che raccontano le storie di poliziotti, investigatori, crimini e omicidi. Se i telefilm erano un genere nuovo, così si poteva dire anche dell’elettrodomestico televisore.

    Il primo modello di televisore, prodotto in Inghilterra, risale al 1926 ma per avere anche i contenuti, la televisione, è necessario attendere la fine degli anni Quaranta in America e il 1954 in Italia. Anche il pubblico, così come autori, produttori e registi, era ovviamente neofita del nuovo mezzo. Inizialmente vennero trasmesse notizie, come era già successo con la radio e i cinegiornali. Le potenzialità del mezzo televisivo, destinato entro pochi anni a raggiungere la maggior parte delle abitazioni private dopo aver rappresentato un punto di ritrovo nei locali pubblici che ne erano dotati, erano pressoché infinite. Già poco dopo averne intuito il potenziale, i produttori e i grandi network fecero in modo che dalle notizie si passasse alla fiction. E come le notizie e la prima fiction, l’omicidio nei telefilm è stato presente in tv fin dagli esordi.

    La prima serie a portare la violenza reale sullo schermo fu Dragnet, il primo police procedural drama, nel 1951. Nato come programma radiofonico nel 1949, sbarcò in tv (e in una celebre striscia a fumetti) col compito, che allora nessuno sapeva quale grande influenza avrebbe avuto, di rivoluzionare le trasmissioni televisive. Al termine di ogni episodio gli autori vollero specificare, facendo comparire un cartello, che le storie narrate erano quasi sempre ispirate a fatti di cronaca realmente accaduti. La scritta La storia che avete appena visto è vera. I nomi sono stati cambiati per proteggere gli innocenti era destinata a cambiare per sempre il corso della storia del piccolo schermo, dando alla fiction l’importanza e la parvenza di realtà (con una dichiarata ricerca di verosimiglianza) che avrebbero fatto la differenza per i telespettatori.

    A partire dal 1957 arrivò poi Perry Mason, avvocato nell’omonima serie (9 stagioni per un totale di 271 episodi) che ha per oggetto vicende legali o comunque legate alla giustizia e ai tribunali. Raymond Barr, che diventò uno dei volti più noti d’America in una manciata d’episodi, si occupava di delitti nei panni di quello che resta, ad oggi, l’avvocato più celebre della storia della tv. Ma Perry Mason tratta da vicino i delitti solo a parole. Di fatto, delle vittime si occupa da lontano, in un’aula di tribunale. Il cadavere c’è, si sa. Ma non si vede. O se si vede, si tratta giusto di una sbirciatina, una vista di sfuggita, in lontananza, sullo sfondo. Perry Mason prende vita dalla più classica tradizione del giallo letterario: spinge il telespettatore a ricoprire un ruolo attivo, esercitandosi intellettualmente per elaborare le informazioni a disposizione e per individuare l’assassino. La vera ragione del successo di Perry Mason era tutta qui: la gente non vedeva l’ora di essere messa nuovamente alla prova, sfidando amici e parenti a indovinare per primi l’identità del colpevole.

    Anche nel caso del dottor Richard Kimble, accusato dell’omicidio della moglie (che non aveva commesso) e per questo condannato a morte, il cadavere non si vedeva un granché. Infatti la storia era tutta incentrata sulla sua fuga per sottrarsi alla giustizia (o all’ingiustizia delle accuse, a voler essere più precisi). Kimble fuggiva - da qui il titolo della serie Il fuggitivo, nota in Italia come Il fuggiasco (1963) - per quattro stagioni, a caccia di prove che potessero dimostrare la sua innocenza. Dalla serie di Roy Huggins, che con l’ultima puntata conquistò un record di ascolti che sarebbe stato battuto solamente da Dallas quasi dieci anni dopo, venne tratto il celebre film del 1993 con Harrison Ford. Il meccanismo era lo stesso: il dottor Kimble fuggiva e cercava al tempo stesso di scagionarsi dall’accusa di uxoricidio. Ma la tensione sottile della serie tv, scaturita da un ritmo calibrato e dall’introduzione di un piccolo indizio dopo l’altro, si perdeva nelle due ore sul grande schermo. In ogni caso il fattore scatenante restava il medesimo: l’assassinio della signora Kimble. Un cadavere che in tv, di fatto... non c’era.

    Erano gli anni Sessanta e l’omicidio in tv non era altro che questo: il fattore scatenante di una storia che avrebbe appassionato il pubblico con ragionamenti, indagini, interrogatori e deduzioni. Ma le cose erano destinate a cambiare.

    Oggi possiamo affermare che con il passare del tempo l’omicidio si è avvicinato un po’ di più allo spettatore. Il tenente Colombo arrivava con la sua vecchia Peugeot sulla scena del delitto (allora non si parlava di scena del crimine) fumando il sigaro e toccando tutto quello che era possibile toccare: dall’interruttore della luce alla cornetta del telefono. Lo spettatore dell’epoca non sapeva nulla di scene del crimine, DNA e profili, per cui riusciva a godersi ogni episodio senza preoccuparsi troppo che il tenente, con i suoi modi, avesse irrimediabilmente compromesso le prove. Anche perché Colombo non era tipo da impronte digitali. La serie tv appassionava lo spettatore anche grazie al meccanismo detto del whodunit contrazione di who done it? (cioè: chi è stato?). Si tratta del meccanismo-principe, quello deduttivo, della detective story, ereditato dalla tradizione letteraria alla base dei gialli più riusciti. Dopo il crimine iniziale, l’autore disseminava il romanzo di indizi che potevano portare il lettore a identificare il colpevole prima della fine del libro. La tv ha semplicemente adottato lo stesso meccanismo: gli sceneggiatori spargono tracce e indizi qua e là, includendo naturalmente delle false piste, per permettere al telespettatore di affiancare il detective nelle sue indagini (ma al contempo mandandolo fuori strada). Lo spettatore sa che c’è stato un crimine: ha visto, sebbene da lontano, un omicidio. C’è un cadavere. E da quel momento tutti sono sospettati. L’indagine che porterà alla cattura del colpevole è così appassionante proprio perché lo spettatore affianca il protagonista intento a investigare. Il detective e lo spettatore raccolgono e riordinano i tasselli del puzzle dell’omicidio che svelerà l’identità del colpevole.

    Tasselli che, come detto, non hanno molto a che fare con le scienze forensi, bensì quasi esclusivamente con il ragionamento, un po’ alla Sherlock Holmes. In Colombo, come in molti telefilm degli anni Settanta, le vittime di omicidio hanno fatto un altro piccolo passo e si sono avvicinate un po’ di più allo spettatore. I loro corpi, vestiti e composti, sono riversi a terra, spesso in pose plastiche. In qualche caso si assiste a cadaveri con gli occhi sbarrati o con un rivolo di sangue sulla tempia; di solito capitava in Kojak, serie in cui spesso il corpo del morto era a portata di vista per il telespettatore.

    Anche con i CHiPs, (California Highway Patrols), i due agenti della stradale Francis Ponch Poncherello (Erik Estrada) e Jon Baker (Larry Wilcox) avevano a che fare con i morti, non tantissimi a dire la verità, che di solito restano coperti sotto bianchi teli pietosi o, addirittura, all’interno di vetture in fiamme. In quel caso il cadavere nemmeno c’è. Lo spettatore sa che l’incidente (di solito di quello si trattava, anche se provocato da tossicodipendenti fuori controllo o ubriachi in fuga) è stato così grave da causare vittime. Ma i due CHiPs si muovono su un terreno diverso. Un terreno di speranza in cui, alla fine (un po’ come in Starsky & Hutch) tutti sono contenti e si finisce per riderci sopra. Proprio per questo motivo gli sceneggiatori non potevano certo piazzare cadaveri di personaggi morti tragicamente ogni volta: diversamente lo spettatore avrebbe incontrato una certa difficoltà a riderci sopra alla fine di ogni puntata. Perché la tendenza a inserire una certa dose di ironia in tutte le serie che si occupavano (anche) di omicidi, come nel caso di Moonlighting, Mai dire sì, A-Team, Magnum P.I. e molti altri, divenne una cifra stilistica tipica degli anni Ottanta. Un modo per iniziare a dar vita a quel mix di generi che, alla fine del decennio successivo, avrebbe dato il via a una serie di produzioni di culto. L’ispirazione veniva dal Maestro: Alfred Hitchcock, che con le sue presentazioni e conclusioni in ogni episodio di Alfred Hitchcock presenta aveva per primo ironizzato sulle vittime degli omicidi protagonisti dei suoi racconti gialli.

    Negli anni Novanta, invece, i telefilm, soprattutto quelli polizieschi o in cui erano implicati misteri e drammi, non avevano come scopo il sollievo finale dello spettatore. Al contrario. In NYPD Blue l’idea era proprio quella di mostrare la realtà per quello che era. Realtà che non necessariamente prevedeva il lieto fine. Per cui i cadaveri c’erano e si cominciavano a vedere. Non sul tavolo autoptico aperti e mostrati, ma nei vicoli, riversi a fianco dei cassonetti dell’immondizia che riservavano alle vittime fini poco gloriose.

    Stessa cosa, anche se siamo in un campo un po’ diverso, si può dire per X-Files in cui i morti sono piuttosto vicini allo spettatore. Gli anni Novanta, in definitiva, iniziano a puntare verso quel realismo che incuriosisce gli spettatori perché mette in mostra le tecniche di indagine degli investigatori e dei medici legali. Se Quincy, la popolarissima serie con Jack Klugman, nella seconda metà degli anni Settanta aveva iniziato a catturare l’attenzione del pubblico con il suo punto di vista medico e scientifico, un approccio originale alle indagini, l’idea geniale venne ad Anthony E. Zuiker oltre un ventennio più tardi. Perché con CSI tutto era destinato a cambiare e la morte in tv non sarebbe stata mai più come prima. Con la rivoluzione CSI i cadaveri diventano infatti il punto centrale della serie. Sono i cadaveri a raccontare la storia di ciò che è capitato loro. Il cadavere viene letto dagli scienziati forensi in cerca della verità. E per essere letto, come si fa con un buon libro, prima è necessario aprirlo. Lo spettatore con CSI non solo è stato ammesso sulla scena del crimine, ma ha anche avuto accesso alla sala autoptica. Cosa che, in effetti, gli era già stata concessa con Quincy, ma in quel caso lo spettatore aveva dovuto accontentarsi delle espressioni sul viso del medico legale. Il cadavere all’epoca, come detto, non era nemmeno inquadrato e quando lo era stava buono buono sotto un telo verde. Intatto e composto. Per arrivare al cadavere poco composto e decisamente non plastico avremmo dovuto attendere ancora qualche anno. Ma lo spettatore aveva già fatto molta strada, portato per mano dagli sceneggiatori di serie tv americane, avvicinandosi piano piano alla morte violenta. Tanto che oggi, a questa morte violenta, ci si è abituato. Probabilmente senza accorgersene.

    A un certo punto, poco dopo che lo spettatore aveva fatto l’abitudine a CSI e spin-off vari, il cadavere non era più solo mostrato, era esibito.

    Succede, per esempio, in Harper’s Island in cui già dal claim (l’assunto di base, ma anche la frase di lancio della serie) si capisce che le cose non andranno un granché bene per i protagonisti, che verranno uccisi one by one, cioè uno dopo l’altro. La storia è semplice quanto spietata. A Harper’s Island anni addietro un serial killer ha decimato la popolazione locale. Anni dopo, ai nostri giorni, due ragazzi dell’isola organizzano le loro nozze e invitano tutti i loro amici. Una delle invitate, la migliore amica dello sposo, non rientrava sull’isola da parecchi anni, cioè da quando sua madre era stata uccisa dal serial killer. Nell’episodio pilota tutti gli invitati arrivano sull’isola (tranne uno, che viene ammazzato ancora prima di salire sulla barca...) e, uno dopo l’altro, episodio dopo episodio, vengono eliminati dal misterioso assassino con metodi tanto fantasiosi quanto violenti. I cadaveri vengono lasciati in bella vista, in modo da creare il panico negli altri convenuti: appesi agli alberi, squartati, depezzati, sfigurati. In Harper’s Island il sangue cola di qui e di là, il rumore delle ossa che si spezzano e delle lame che incidono le carni fanno pensare più a un horror che a un thriller.

    Certo: anche in CSI nella sala autoptica non c’è silenzio; perché il suono è diventato una componente fondamentale della nuova generazione dei polizieschi. E, di conseguenza, della nuova generazione dei cadaveri... In CSI c’è il rumore della sega per aprire il cranio, c’è il rumore del bisturi che incide a Y il torace del cadavere e ci sono i commenti. E nemmeno nella sala autoptica della dottoressa Megan Hunt (Dana Delany) c’è silenzio. Ex neurochirurgo di fama internazionale, dopo un incidente che le ha lasciato come conseguenza dei tremori alle mani che costano la vita a un suo paziente, Megan viene assunta come medico legale a Philadelphia in Body of Proof. La serie fonda la sua originalità (e il successo di pubblico: in patria nel 2013 ne è stata trasmessa la terza stagione) sulle doti intuitive di Megan, che grazie alla sua prestigiosa esperienza in campo medico riesce ad arrivare anche là, dove alcuni patologi non si sono mai spinti. Fra intuizioni, reminiscenze di vecchi casi medici, vastissime conoscenze farmacologiche e attente analisi autoptiche, Megan diventa ben presto una risorsa irrinunciabile per il Dipartimento di Polizia della città, contribuendo a risolvere un gran numero di casi. Senza timore di fare rumore, sia per il suo carattere piuttosto difficile e poco accomodante (che cerca di rivedere un po’ alla volta) sia per le approfondite analisi con tanto di effetti sonori che porta avanti nel suo laboratorio.

    Allo stesso modo, essendo il suono una componente fondamentale, l’omicidio non produce più solo un grido soffocato: le vittime urlano, implorano di avere salva la vita (o di essere uccise, in modo da poter porre fine alle proprie sofferenze), strillano tutto il loro dolore (anche Jack Bauer urla e sviene quando lo torturano. Perfino lui!). E le armi, che siano pistole e coltelli, fanno rumore anche loro: quando le si carica, quando il coltello viene calato sulla vittima, quando i bossoli cadono a terra. E alla fine, tutti o quasi gli spettatori si sono abituati alla morte mediata dalla tv.

    (…) Siamo attorniati da persone che se ne vanno. Nessuna, nemmeno una, si è mai data pena di ritornare a spiegarci che cosa si incontra quando si abbandona definitivamente questa terra, odiata perché faticosa ma anche amata perché sa di vita appunto e non di morte. (…) Il tempo presente ha dimenticato la morte o meglio finge di dimenticarla. La nasconde. La riduce a spettacolo. Riportarla in televisione o al cinema significa rimuoverla, tentare di scordarne il volto tragico, quello che più coinvolge ciascuno di noi. Farne un oggetto per il tempo libero, legarla a personaggi inesistenti o comunque diversi da noi. Insomma, alla morte esistenziale abbiamo sostituito quella spettacolo e l’abbiamo rivestita di caratteristiche meno tragiche per nascondere la tragicità che può cambiare ogni senso. (…) La morte vera, la nostra morte, è invece un tabù e fa scattare gesti scaramantici o liturgie magiche che manifestano la paura e la sua insostenibilità: del resto, una civiltà fondata sul successo e sul valore dei soldi non può in alcun modo coesistere con la morte, con il memento mori. Questo sottrarrebbe forza all’azione, all’eroismo degli affari che necessita di un’ubriacatura dell’esserci come se ci fossimo per sempre (V. Andreoli, Il lato oscuro, BUR).

    E forse tra i nuovi gesti per esorcizzare la morte alcuni di noi, non tutti, certo, hanno inserito proprio la visione delle serie tv che parlano di morte e di morti.

    Ai primordi, abbandonando per un attimo l’omicidio, le serie televisive hanno proposto tematiche e argomenti che, se ci si ripensa a trenta o quarant’anni di distanza, erano piuttosto profondi, non sempre facili da trattare, perfino scomodi in qualche caso.

    Nei primi episodi de Le strade di San Francisco si parla di violenza sessuale, prostituzione e pedofilia (anche se non si tratta effettivamente di pedofilia ma di adozioni clandestine, si scopre in seguito). Lo stesso accade in Starsky & Hutch, in Kojak, in Hill Street - Giorno e notte, in New York, New York e, prima ancora in Dragnet.

    Non che l’omicidio, come detto, non fosse contemplato. Lo era. Ma i temi che facevano da sfondo alla vicenda erano, volendo, più scabrosi del corpo morto, e da soli riuscivano a far sì che lo spettatore restasse fedele alla serie.

    I telefilm oggi sono entrati in tutte le case e quasi tutti hanno la loro serie preferita. A meno che non si tratti di qualcuno che odia con tutto se stesso la serialità...

    Ma cos’è la serialità televisiva?

    Capitolo 2

    La serialità

    Seriale si riferisce a qualcosa fatto in serie. Nel caso del telefilm, però, non si tratta di un prodotto replicato in serie con lo stesso stampino, sempre uguale, come la produzione industriale di un oggetto ripetuto migliaia di volte ogni giorno. L’idea è piuttosto quella della produzione in serie a partire da una stessa idea: una storia con un’ambientazione e dei personaggi. La componente seriale del telefilm prevede da un lato la produzione di tanti episodi e stagioni basati sulla stessa storia, e dall’altro lato la reiterazione di certi eventi o situazioni, spesso legati al genere.

    Quando inizia a seguire una serie tv, il pubblico si aspetta che in ogni episodio accadano alcune cose che ha già visto negli episodi precedenti. Se seguiamo un detective drama, ad esempio, ci aspettiamo che il protagonista o i protagonisti si troveranno a investigare su un nuovo caso, che alla fine risolveranno interrogando i testimoni e catturando il colpevole. Variazioni su uno stesso tema. Allo stesso modo, nel caso di un medical drama ci saranno sempre nuove storie di medici e pazienti, che nella maggior parte dei casi metteranno in luce le doti eroiche del personale ospedaliero, intento a salvare vite. O ancora: in un legal drama gli spettatori si aspetteranno un nuovo processo e una nuova vittoria in aula dei protagonisti. Pensiamo a Perry Mason e alla sua ricerca della verità e delle giustizia: non esiste che Perry Mason in aula venga battuto da un altro avvocato, sia che si tratti di un legale esperto che dell’ultimo novellino che ha messo piede in tribunale. Perry Mason risolverà il caso, assicurerà i colpevoli alla giustizia e trionferà in aula. Sono le regole del genere e della serialità intesa nel modo più classico. Oggi, ad esempio, qualche sconfitta in aula è tollerata in tutti i legal drama, basti pensare alla giovane avvocatessa Ally McBeal e alle sue frustrazioni: ciò che conta, spesso, è più la personalità dell’avvocato protagonista, piuttosto che il numero di vittorie riportate in tribunale. Come nel caso dell’ottima e spassosa Boston Legal, o dell’avvincente The Good Wife: tutti legal drama moderni, che mantengono le caratteristiche classiche del genere per attrarne il pubblico ma inseriscono elementi originali e, soprattutto, le vicende personali dei protagonisti. Anche a patto di qualche sconfitta in aula.

    Ad ogni modo, per ogni genere e per ogni storia che vi appartiene, nelle produzioni seriali esistono dei tempi scenici ben scanditi che lo spettatore impara a riconoscere e ad aspettarsi per gli episodi successivi. Chi non ama la serie tv, al contrario, di solito preferisce le storie che iniziano e finiscono. Questo tipo di spettatore non ha alcuna intenzione di restare sospeso nel limbo in attesa della prossima puntata: preferisce di gran lunga un film, con la sua storia che si conclude entro novanta minuti o giù di lì. Non apprezza la produzione seriale perché non vuole lasciarsi catturare da quel meccanismo che, puntata dopo puntata, ti trascina nel vortice degli eventi e ti fa conoscere i personaggi così bene che ti sembra quasi che siano persone reali.

    La serie televisiva è un po’ come una fiaba che vogliamo continuare a sentire. Quando eravamo bambini ci piaceva sempre una fiaba in particolare più di un’altra. E la voglia di continuare a sentirla, risentirla e sentirla un’altra volta (per la gioia di chi ce la doveva raccontare) era tale da mettere da parte tutte le altre. La serialità nei telefilm è un po’ la stessa cosa: ci racconta sempre la storia degli stessi personaggi, delle loro relazioni, dei loro successi e sconfitte, mentre ci propone variazioni sul tema che rendono il tutto più interessante.

    Si tratta di avere delle certezze, insomma. Ai bambini piace avere sicurezza e la fiaba, sempre quella, con i suoi personaggi, le sue vicende, il suo finale, offre la sicurezza che tutto resterà invariato, che si può andare a dormire senza dover controllare che sotto il letto non si nasconda un mostro cattivo pronto a balzarci addosso, che mamma e papà saranno sempre lì per noi, che il male resterà chiuso fuori dalla porta.

    In questo senso la serie tv è una fiaba per adulti. O, almeno, lo era. Fino a quando i telefilm erano scanditi dai tempi scenici e l’eroe, senza macchia e senza paura, faceva trionfare la giustizia. Con il tempo il pubblico è cambiato, è maturato e le serie tv si sono adattate al suo gusto, evolvendosi (come dimostrano il grande successo e le abbondanti variazioni sul tema fiabe classiche di C’era una volta). Il che ci ha reso preparati all’inverosimile, al colpo di scena, in qualche caso perfino alla morte del protagonista (cosa che accade di solito alla fine di una serie, per ovvie ragioni produttive, oppure quando si decide di far rilevare il ruolo principale a un altro personaggio, portando la narrazione verso una svolta inaspettata).

    E il protagonista che più di ogni altro ha lasciato il segno nel cuore dei telespettatori e dei fan, forse proprio perché il telefilm si chiude con la sua morte, è stato Jack Shephard di Lost. Per sei stagioni ha corso, pianto, riso, combattuto, amato e, alla fine, ha chiuso gli occhi chiudendo anche un’epoca. Ne parleremo più approfonditamente in altri capitoli, ma crediamo abbia reso l’idea.

    È importante tenere presente che la serialità, per sua natura, abitua lo spettatore a determinate caratteristiche e che l’abitudine porta alla fidelizzazione verso quel particolare telefilm (o più di uno); a sua volta, la fidelizzazione crea intimità, uno scambio continuo tra chi guarda e chi propone cose da guardare.

    La serialità propone inoltre una celebrazione di culto legato a un rituale di visione. Lo stesso appuntamento, settimana dopo settimana, alla stessa ora, scandisce il tempo arrivando addirittura a influenzare la vita del telespettatore. Oggi ci sono registratori digitali, canali che offrono repliche a ogni orario e cofanetti DVD. Una volta il telespettatore era costretto a rispettare rigorosamente i tempi e i modi della messa in onda, attribuendo alla serialità quel carattere di culto che le compete. Anche oggi alcuni titoli di grande richiamo, nonostante le molte alternative proposte dalla tecnologia e dall’avvento delle reti tematiche, spingono il telespettatore a ritagliarsi uno spazio di visione che coincida con la messa in onda della serie in prima visione per prendere parte a quel rituale collettivo che poi potrà celebrare commentando ogni episodio sui social network, con i colleghi, la famiglia o gli amici.

    Il culto, come riportato anche nel volume Culti TV - Il tubo catodico e i suoi adepti a cura di Ugo Volli, prevede un rapporto basato sulla cura e la dedizione verso il proprio oggetto di interesse da parte di chi lo pratica. Le serie tv si prestano particolarmente a questo tipo di rapporto, visto che vanno coltivate episodio dopo episodio. Una puntata dopo l’altra, il telespettatore entra in contatto con i meccanismi narrativi, gli stilemi propri di un genere e di una serie, i personaggi che impara a conoscere tanto da prevederne le reazioni (salvo talvolta trovarsi spiazzato da azioni o reazioni imprevedibili, opportunamente introdotte dagli sceneggiatori per tenere alto il pathos). La fidelizzazione del telespettatore porta una visione basata su un rituale, che influisce sulle scelte di fruizione del tempo da parte di chi segue una serie senza mai perdersi una puntata. Oggi, poi, come dicevamo, la tecnologia consente agli appassionati di un genere o di un telefilm di scambiare opinioni entrando in contatto con milioni di altre persone in tutto il mondo tramite internet e i social network. La condivisione delle informazioni non fa che arricchire il carattere rituale e di culto delle serie più seguite e discusse. Ci basta pensare alle centinaia di migliaia (sì: centinaia di migliaia!) di persone che, dopo ogni puntata di Lost, condividevano in rete teorie e supposizioni basandosi sui nuovi indizi rivelati dall’episodio appena visto. Fan e telespettatori di tutte le età impegnati, come novelli detective, a esporre le conclusioni tratte da ciascuno sulla base della propria esperienza e delle proprie preferenze, a partire dagli indizi disseminati nei vari episodi.

    Ecco: il nostro campo di interesse è proprio questo. Gli indizi. Le conclusioni. Le deduzioni. Le intuizioni. E il loro raffronto con la realtà, che pur essendo molto meno affascinante e avvincente della finzione televisiva, ci insegna a distinguere fra ciò che è vero, tangibile, e ciò che non lo è. Un presupposto irrinunciabile per affrontare serie che parlano di omicidi e di morte con la dovuta serenità e oggettività.

    Capitolo 3

    Emozioni seriali

    Come da bambini ci piaceva tanto il brivido che ci coglieva nel sentire (ancora una volta, l’ennesima) di Cappuccetto Rosso alle prese con il sanguinario e affamato Lupo Cattivo, o Hansel e Gretel imprigionati in attesa di diventare belli grassi e finire nel forno e poi in pasto alla Strega Cattiva o, ancora, i Tre Porcellini in balìa di un altro Lupo Cattivo che di lasciarli in pace non ne voleva sapere, così con le serie tv ci culliamo nell’attesa dell’ennesimo omicidio televisivo.

    Perché? Perché ci piace, semplice. Anzi, ad alcuni di noi piace. Gli stessi che volevano le tre fiabe di cui sopra, con ogni probabilità saranno appassionati di serie tv costellate da crimini e investigatori che li risolvono (o li commettono, come nel caso di Dexter). Gli altri magari preferivano Cenerentola, Biancaneve, La Bella Addormentata e probabilmente oggi guardano altre serie tv, di generi diversi (magari Desperate Housewives, Brothers & Sisters, C’era una volta o Grey’s Anatomy).

    A prescindere dal genere, comunque, la serialità fa provare emozioni. E in questo mondo basato sul politicamente corretto le emozioni ogni tanto restano sopite. Le serie tv hanno il merito di risvegliarle. Così ci si sente con il cuore in gola e il fiato che sembra venire meno perché American Horror Story ci ha fatto tanta paura oppure ci ritroviamo con gli occhi gonfi sul divano, circondati da mille fazzolettini di

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