Essere o avere: Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento
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Ebreo come lui, hanno condiviso esperienze al limite durante la guerra quando erano bambini. Una muta solidarietà dovrebbe unire i loro destini di uomini ormai di successo. E invece accade qualcos’altro. Sammy scopre che il suo amico è ben più famoso di lui, è un Premio Nobel. L’invidia lo divora giorno dopo giorno e lo getta in una profonda crisi creativa ed esistenziale, anche perché Isacco Smith fa di tutto per creare nuove occasioni di incontro.
A quarant’anni dalla prima pubblicazione, viene qui riproposto un grande romanzo della Wertmüller, una storia che indaga in profondità la natura degli esseri umani e la società capitalistica nei suoi aspetti più contraddittori e distorti.
Lina Wertmüller, all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (Roma, 14 agosto 1928), è una regista, sceneggiatrice e scrittrice italiana. È stata la prima donna nella storia ad essere candidata all’Oscar come migliore regista, per il film Pasqualino Settebellezze, nella cerimonia del 1977. Nel 2020 le è stato assegnato il Premio Oscar onorario.
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Anteprima del libro
Essere o avere - Lina Wertmüller
Lina Wertmüller
Essere o avere
Ma per essere devo avere la testa di Alvise
su un piatto d’argento
© 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-3402-2
I edizione settembre 2021
Finito di stampare nel mese di settembre 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Essere o avere. Ma per essere devo avere
la testa di Alvise su un piatto d’argento
Introduzione
di Valerio Ruiz¹
Faldoni gialli
Ogni regista cinematografico, quando è anche autore, ha cassetti pieni di storie che, per varie ragioni, non riescono ad approdare sullo schermo ed essere quindi condivise con il pubblico. Non si tratta solo di spunti, scalette o brevi frammenti, spesso sono storie complete, su cui l’autore ha lavorato a lungo, mesi o anni. Quanti spettatori avrebbero sognato di vedere il Napoleone di Stanley Kubrick, La ricerca del tempo perduto di Luchino Visconti, Il viaggio di Mastorna di Federico Fellini o il film di Sergio Leone sull’assedio di Leningrado.
Anche Lina Wertmüller ha molti progetti rimasti – per ora – sulla carta. La libreria del suo piccolo studio sopra Piazza del Popolo trabocca di storie ordinate in diversi faldoni gialli, sui quali spiccano titoli curiosi, esotici e avventurosi. Alì Babà, Angiolino brigante buono, Caligola, Napoli luntanamente, Lo strano caso del Signor Federico, Luna di marmellata… C’è anche la sua prima novella scritta in gioventù: racconta di un contadino che ha vissuto tutta la vita in campagna lavorando i frutti della terra e non sa che, se da bambino fosse stato iniziato allo studio del violino, sarebbe diventato un grande violinista. Oggi, Lina guarda con tenerezza questa sua prima prova letteraria; preferisce pensare che il talento, quando è autentico, prima o poi trova la strada per palesarsi e imporsi.
Precoce e prorompente, in effetti, la vocazione di Lina Wertmüller per lo spettacolo non incontra ostacoli a manifestarsi, favorita piuttosto dalla fortuna, o dal destino, che tra il 1943 e il 1944 la vuole compagna di scuola di Flora Carabella – figlia del compositore Ezio, poi attrice e futura moglie di Marcello Mastroianni. È lei, l’amica del cuore, a trascinare Lina, ancora adolescente, sulle tavole del palcoscenico, dando così inizio a una carriera inarrestabile che continua ancora oggi.
Una storia americana
All’inizio degli anni ’80, Lina ha dietro di sé il decennio chiave di tutta la sua carriera cinematografica. Con Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Film d’amore e d’anarchia (1973) è la prima regista donna a concorrere per la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) conquista gli Stati Uniti. La storia della ricca capitalista del nord e del povero marinaio comunista del sud che naufragano su un’isola deserta e dopo scontri ideologici, insulti e schiaffi, vengono poi sopraffatti dall’amore, diventa un must see, il film da vedere. Travolti è un successo al botteghino, viene scelto dal New York Times
tra i migliori dieci film dell’anno, è il titolo di cui si parla. I critici lo elogiano, le femministe lo contestano, nei cinema del Greenwich Village si crea la fila per andare a vederlo. Mariangela Melato e Giancarlo Giannini sono il nuovo duo del cinema italiano, tanto da creare paragoni con quello, già all’epoca leggendario, formato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni. È Lina, tuttavia, la vera star. Con la sua personalità brillante, eccentrica, del tutto fuori dagli schemi, riesce a conquistare i riflettori della scena cinematografica internazionale, non certo abituata a vedere una donna dietro la macchina da presa.
La conferma e la consacrazione arrivano con il film successivo, Pasqualino Settebellezze (1975). Ispirato alla vera esperienza di una comparsa conosciuta a Cinecittà, questo film porta lo spettatore all’interno di un lager nazista dove il disertore, guappo napoletano, Pasqualino Fracuso – interpretato da Giancarlo Giannini – pur di sopravvivere arriva a sedurre la giunonica SS a capo del campo, divenendo poi lui stesso carnefice: non esiterà ad uccidere il suo amico. Una storia che per Lina è come un’odissea nell’orrore. Il film sconvolge, non solo per la crudeltà che mostra, ma per il registro grottesco e sopra le righe, spesso ironico o tragicomico, con cui Lina mette in scena. Si ride spesso in compagnia di Pasqualino – Pulcinella contemporaneo –, a cominciare dalla sequenza dei titoli di testa: un montaggio esemplare di immagini di repertorio che mostra scene di guerra, cadaveri nella neve, bombardamenti, folle oceaniche durante i comizi nazi-fascisti di Hitler e Mussolini, il tutto sincronizzato con la musica e le parole piene di scherno della canzone Quelli che, scritta dalla stessa Lina ed Enzo Jannacci. John Simon, il critico americano più feroce a quel tempo, dopo aver visto il film vola a Roma per intervistare la regista italiana. Lina, con i suoi immancabili occhialetti bianchi, appare così sulla copertina del New York Magazine
del 2 febbraio 1976, con il seguente titolo: The most important film director since Bergman. Una vera esagerazione
, commenta oggi, divertita, Lina. Qualche mese dopo, il Saturday Night Live, il programma televisivo che più di ogni altro entra nelle case degli americani, le regala una sorpresa: l’attrice Laraine Newman, volto noto della trasmissione, prepara il suo sketch impersonando una parodia di Lina Wertmüller. Occhiali bianchi, sigaretta, la voce impostata sulle note basse della regista italiana che annuncia un improbabile nuovo film con protagonisti, ancora una volta, un maschio e una femmina. È con la risata che Lina diventa un’icona popolare. L’anno successivo, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences di Los Angeles annuncia le candidature per la 49a edizione dei Premi Oscar: Pasqualino Settebellezze ottiene quattro nomination. La notizia fa il giro del mondo. Non è mai accaduto per un film straniero ed è la prima volta che una donna viene considerata nella cinquina per la miglior regia. Anche se il film non riesce a portare a casa nessuna delle quattro statuette – la regista verrà però risarcita con un Oscar alla carriera nell’ottobre del 2019 – da quel momento Lina Wertmüller entra definitivamente nella storia del cinema.
Tutti parlano di Lina, più negli USA che in Italia. Nei suoi confronti è esploso un innamoramento. I network televisivi fanno a gara per invitarla nei talk show, le università più prestigiose le assegnano cattedre di regia – con evidente sdegno di Nanni Moretti, che all’idea vomita un liquido verde in una nota scena della sua opera prima, Io sono un autarchico (1976) –, i produttori più potenti di Hollywood la corteggiano. È in questo frangente che Lina firma un contratto con la Warner Bros per realizzare quattro film. Lina ha diversi progetti che desidera proporre ma solo uno vedrà la luce. Si tratta del film La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978). Racconta lo sgretolarsi di un amore in una notte di diluvio, tra un giornalista italiano, intellettuale, comunista e una fotografa femminista originaria di San Francisco. Insieme alla relazione, si sgretola il mondo di ideali che ciascuno rappresenta. Nel cast, oltre a Giannini, c’è la star americana Candice Bergen. Per Lina è il primo film da girare in lingua inglese.
Dopo il clamore suscitato dai successi appena trascorsi, è naturale che l’opera sia molto attesa. Le aspettative vengono tuttavia tradite. Il film partecipa in concorso al Festival di Berlino senza raccogliere entusiasmi. In America, così come in Italia, La fine del mondo raccoglie stroncature piuttosto unanimi. In Italia appaiono titoli ironici come Questo film non è la fine del mondo
, ma è il critico del New York Times
, Vincent Gamby, che pochi anni prima aveva eletto Lina tra i registi più interessanti del momento, a dare il giudizio più negativo. Un film vuoto – scriveva – eccessivamente verboso, dove i personaggi sembrano creati apposta per incarnare due punti vista politici, mancando di spessore umano e verità. Sembrava che con questo film Lina non avesse nulla, o poco, da aggiungere rispetto ai suoi film precedenti. Al di là del magnifico appartamento disegnato e arredato da Enrico Job, il film si fa notare per rivangare i temi – sesso e politica – attorno ai quali la regista aveva costruito una visione del tutto originale nelle sue altre opere. La stessa Lina considera La fine del mondo una pellicola poco riuscita.
Hollywood, dove le regole sono spesso spietate – e oggi più che mai –, cambia idea facilmente sui propri eroi ed eroine: è capace di passioni sfrenate subito seguite da facili congedi, può voltare le spalle anche a coloro che fino a un momento prima sono stati osannati e inseguiti per accordi milionari. Così è stato per Lina. L’insuccesso al botteghino presenta presto il conto. La Warner Bros decide di rompere il contratto e Lina se ne torna alla sua amata Italia, senza tuttavia avere rimpianti, con una valigia piena di ritagli di giornali e un respiro di sollievo. Non si è trovata a suo agio, d’altronde, a lavorare tra le gerarchie di Hollywood. I produttori pretendono il controllo sul lavoro del regista, mentre Lina è abituata alla libertà tutta italiana di cambiare una scena il giorno stesso in cui deve essere girata. Successo e insuccesso, due facce misteriose di quell’imprevedibile medaglia che è la fortuna. Lina – ci tiene a dirlo – non ha mai creduto a nessuno dei due: Sono pericolosi
.
Il film nel cassetto. Ovvero: come nasce il romanzo La testa di Alvise
Con il ritorno in Italia, restano incompiuti alcuni progetti che Lina avrebbe voluto girare tra Europa e America, sfruttando le possibilità che dopo le nomination all’Oscar sembravano infinite. Uno di questi è una storia che porta la sua firma inequivocabile a cominciare dal titolo lunghissimo: Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento. Per gli appassionati del cinema di Lina Wertmüller, è questo – più di ogni altro – il film sognato da rimpiangere. Nonostante i tentativi di realizzarlo, le imprese di Sammy e Alvise non sono mai riuscite ad approdare sul grande schermo. Woody Allen avrebbe interpretato il personaggio guida di questa storia: un ruolo che, c’è ragione di credere, avrebbe affiancato gli antieroi già creati dalla fantasia cinematografica di Lina. Giancarlo Giannini, reduce anche lui da una nomination all’Oscar per il ruolo di Pasqualino, avrebbe invece impersonato il geniale Alvise. Dopo aver presentato Amore e Guerra (1975), Woody Allen ha accordi contrattuali già sottoscritti che gli impediscono, suo malgrado, di prendere parte al film – il suo prossimo titolo sarà infatti Io e Annie (1977). Il progetto di girare un film insieme naufraga e per alcuni anni resta sommerso da altri impegni che nel frattempo prendono il sopravvento. Fortunatamente, Lina è artista dalle mille risorse. Grazie al suo talento unico per la scrittura, non lascia la disavventura di Sammy e Alvise chiusa in un cassetto o in uno dei suoi faldoni gialli tra le mensole dello studio, ma elabora la storia affinché il pubblico possa conoscerla in forma di romanzo.
Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento viene pubblicato nel 1981 da Rizzoli e ha non poche affinità con le storie che Lina Wertmüller ha scritto e diretto per il cinema fino a quel momento. A cominciare dal titolo, nel quale circola aria di avventura ironica e sofisticata e che – quasi per urgenza – deve essere ridotto a poche parole essenziali, ovvero: La testa di Alvise. La storia si differenzia nettamente dai suoi film precedenti ma al contempo contiene tutta la poetica che attraversa il lavoro dell’autrice, in cui l’attenzione all’intrattenimento è bilanciata da un’indagine profonda – e assai amara – sulla natura degli esseri umani e la società. Proprio per questo, sono grato agli editori per aver assecondato il mio proposito di riportare il romanzo all’attenzione dei lettori, ripubblicandolo dopo quarant’anni esatti dalla prima e unica edizione.
L’invidia
La testa di Alvise appartiene al conflitto per antonomasia: cosa conta di più, essere o avere? A pensarci bene, si potrebbe pensare che tutto il cinema di Lina Wertmüller ruoti attorno a questa domanda. La lente attraverso cui Lina cerca una risposta è un sentimento capace di insinuarsi così profondamente nel cuore degli uomini, al punto da lacerare irrimediabilmente i rapporti, condizionare l’esistenza, provocare l’incapacità di governare istinti e gesti che ignorano il confine tra bene e male. L’invidia è il motore della storia: indomabile e totalizzante, risveglia l’interrogativo esistenziale che mette in crisi il protagonista.
Sam Silvermann, Sammy per gli intimi, è un famoso scrittore che pubblica un giallo al mese e vende centinaia di migliaia di copie. Ebreo americano, sembra avere tutto ciò che serve a rendere una vita felice: una moglie affascinante, due bambini suoi complici, una bella casa, una Ferrari con cui girare per New York, scarpe di Gucci, un conto in banca cospicuo, successo. Se ciò non bastasse è anche superdotato e ne va immodestamente fiero. Sammy potrebbe essere il miglior testimonial della società consumistica disegnata dai cartelloni pubblicitari che giganteggiano tra i grattacieli della città.
Alvise è il suo amico d’infanzia dalle nobili origini, l’amico nel quale ha sempre riconosciuto una fastidiosissima perfezione, l’amico che sa tutto. Il solo stargli vicino mette in evidenza i suoi irrimediabili limiti di americano della piccola borghesia. Dopo gli eventi avventurosi e travagliati della loro infanzia, le strade dei due amici si dividono.
A distanza di quarant’anni, il destino li fa rincontrare e quando Sam viene a sapere che Alvise è in realtà l’autore Isacco Smith, appena proclamato vincitore del Premio Nobel, il suo mondo viene sconvolto e l’antica invidia si riaffaccia prepotente. Sammy, di colpo, realizza: nonostante il titolo di best seller è uno scrittore mediocrissimo, insignificante, un autore che funziona commercialmente ma non vale niente dal punto di vista letterario. Alvise invece… Alvise è un poeta. Alvise è il genio dal talento autentico e puro. Alvise è. Come Salome nei confronti del profeta Giovanni in un quadro che, come una premonizione, i due si trovano a osservare da bambini all’inizio della storia, anche Sammy, per essere, brama la testa di Alvise su un piatto d’argento.
«Che figlia di puttana!… Ma perché ce l’ha con Giovanni quella puttana di una puttana!…».
«Beh… Credo perché lui è puro… Perché è un santo… È Giovanni, il profeta, il Battista… E Dio parla con lui… Mentre con lei no! Con Salome, Dio non ci parla…».
Variazioni sul tema
Il medesimo argomento – l’invidia che cova un talento nei confronti di un genio, il quale, per il solo fatto di essere un genio, mette in evidenza i limiti insormontabili dell’artista di talento – è comune a un altro romanzo che negli anni è divenuto un classico: Il soccombente di Thomas Bernhard (Adelphi). Pubblicato nel 1983 – due anni dopo La testa di Alvise, che nel frattempo si è fatto strada tra i lettori angloamericani, spagnoli, francesi e tedeschi – Il soccombente racconta la storia di tre giovani pianisti che condividono un tratto di studi assieme, al Mozarteum di Salisburgo, sotto la guida del maestro Vladimir Horowitz. Non c’è dubbio sul talento dei tre musicisti, ma uno di loro si chiama Glenn Gould ed è molto più che un talento. Per gli altri due pianisti, Wertheimer e il narratore in prima persona, l’ascolto delle Variazioni Goldberg da lui eseguito provoca una crisi profonda, li rende consapevoli del loro limite e porta entrambi alla decisione di abbandonare definitivamente il pianoforte. Glenn Gould, come Alvise, è. Gould è il genio, colui che sa guardare il cuore degli altri e indovinarne la natura. È lui a definire soccombente
il suo compagno Wertheimer. Per quest’ultimo, l’incontro con le "interpretazioni glenngeniali", come usa chiamarle, sono il metro di paragone che mortifica tutto di sé e provoca un’invidia nera che lentamente offuscherà autostima e voglia di vivere.
Lina Wertmüller e Thomas Bernhard sono mondi certamente lontani. La loro natura si somiglia come il giorno e la notte – dove Lina, con la sua luminosità mediterranea, è ovviamente il sole – ma è singolare come l’indagine sull’uomo che compiono entrambi con i rispettivi romanzi, nonostante le direzioni narrative, il tono e lo stile diametralmente opposti, conduca alla medesima conclusione. Testimonia della profondità che si cela dietro le situazioni del tutto grottesche e dietro il senso più autentico dell’umorismo e dell’intrattenimento, che sono impressi in ogni pagina scritta da Lina Wertmüller.
Wertheimer di Bernhard non agisce di fronte alla genialità di Gould; come recita il titolo, subisce passivamente il confronto e, infine, crolla rassegnato. Sam di Lina, invece, somiglia più a Pasqualino Settebellezze: non si arrende di fronte al destino, fa di tutto per cambiarlo ignorando i rischi irreversibili che ciò comporta, come infrangere un tabù. Quella di Sam, per quanto moralmente discutibile, è una reazione vitale – sebbene non meno disperata rispetto a Wertheimer – che il personaggio pagherà a caro prezzo.
Il grottesco di Lina
Come avverte già il titolo, La testa di Alvise è un romanzo narrato in prima persona. È Sammy a condurre lo spettatore sulle montagne russe di questa storia. Nel protagonista c’è tutta l’arguzia, il tono sfacciatamente ironico, dissacrante, al contempo amaro e divertito, che corrispondono al modo unico di guardare il mondo da parte di Lina. Sam Silvermann c’est moi
: non avremmo difficoltà a crederlo se lei lo dicesse alla maniera di Flaubert. Basta notare di quanti riferimenti cinematografici sono fatti i pensieri del protagonista: dal fascino di Leslie Howard, al sorriso di Gary Cooper, passando per la bellezza di Gérard Philipe e l’eleganza di James Bond, i divi del cinema sono come coordinate stellari che identificano sguardi e caratteri dei personaggi che Sam incontra lungo la strada.
Lina è una cantastorie, un’affabulatrice sapiente che conosce il pubblico, lo prende per mano sussurrando una promessa: vieni