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Fuoco Nuziale
Fuoco Nuziale
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E-book246 pagine4 ore

Fuoco Nuziale

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Fuoco Nuziale è un incendio tribale. Ribaltati i canoni convenzionali, possesso e violenza diventano valori e stigmate di un amore dissoluto. I tentativi di essere conformi ai cliché relazionali, completamenti saltati. Si ama e basta, fuori pentagramma in uno spartito atipico di furore e musica. Fuoco Nuziale sbaraglia il campo della letturina estiva delle trilogie asettiche. In questo romanzo si ama sul ring, senza guantoni e in guardia bassa. Sono validi tutti i colpi pur di amarsi con coraggio e verità. Fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. Dopo averlo letto, le nostre relazioni ci appariranno ombre sbiadite.

Opera prima di Luca Minguzzi, autore tsunami nella vita e nei fatti. La musica e il pianoforte nel suo travolgente DNA.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2013
ISBN9788867555413
Fuoco Nuziale

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    Anteprima del libro

    Fuoco Nuziale - Luca Minguzzi

    In copertina Luciano De Vita , "La grande ostrica" 1972

    Luca Minguzzi

    Fuoco nuziale

    I

    Mi organizzo ma con fatica, mi programmo ma sbaglio tutto, guardo l’orologio ma non so prevedere i tempi, appoggio sul mobile d’ingresso il regalo per lei (e che regalo!) ma subito lo dimentico, passo dalla banca appena in tempo per prendere dei soldi ma sono in rosso, il cassiere mi dice che lui può chiudere un occhio, che può farmi credito, intanto sa che a giorni arriva il bonifico dell’affitto di Parigi, che insomma un po’ di soldi lui me li dà lo stesso, che me li anticipa, che in fondo lui e il direttore dell’agenzia 11 ormai mi conoscono, che è da un po’ che sono loro cliente e che alla fine da qualche parte li vado a prendere, cosa? - i soldi, no?! e il colloquio francamente m’inquieta, che ne sa lui, il cassiere, o peggio, il direttore, se prendo i quattrini e soprattutto come mi arrangio a prenderli? ma soprattutto cosa gliene importa di come li spendo o di come li guadagno? sono i vostri, per caso? - beh, in parte sì, mi risponde insolente, sottintendendo il mutuo, ovvio, o il fido, come se su questo stramaledetto mutuo o fido che sia non ci pagassi gli interessi (e che razza di interessi!), ma è tardi, lascio perdere i prelevamenti e i versamenti, l’attivo e il passivo, il dare e l’avere, ritorno a casa invece e anche di furia, non posso certo partire senza il regalo per lei, sarebbe patetico oltre che sgradevole, patetico per me, s’intende, mica per lei, che se lei del regalo ancora non sa nulla lo stesso lo subodora e da un anno ne insegue accanita l’ipotetica traccia, mentre io, tra il furbesco e lo svampito, ecco che me lo dimentico, quasi mi voglia tenere una via di scampo, quasi abbia troppa paura di darle cosa parecchio pregnante, insomma il terrore di un buco nell’acqua, lo spauracchio profondo di uno sproposito anche se immediatamente addolcito dal pensare a quanto è bello (e sicuro) l’effetto di una tale sorpresa sulla donna che ami - Dio, sentire la sua voce che smarrita e insieme presaga mi chiede cos’è? dài! dimmi cos’è! un regalo? per me? ma... amore! - sì, la sua voce, l’esultanza fremente e inattesa, le mani nervose e le dita quel po’ affusolate che scattanti scartocciano svelte il pacchetto, cos’è? cos’è? - Dio, la gioia d’immaginarmela così! la felicità di poterla almeno pensare così! non dirmi che?... sì, per Dio, illudersi! illudermi sempre che lei... finalmente! mi dirà, amore! mi dirà - e intanto riempio una specie di borsa a tracolla, delle calze, un paio di scarpe, camicia e cravatta, m’infilo in tasca il famoso regalo che con quello che mi è costato per forza che sono in rosso, anzi in passivo, sbarro le persiane che prima avevo lasciate aperte, mi ricordo pure di chiudere il gas (ho orrore del gas), chiudo casa insomma come non dovessi tornarci per giorni per settimane per mesi, chiamo l’ascensore ma mi dimentico che è rotto, scendo a piedi, prendo la macchina ma sono senza benzina, faccio il pieno ma non faccio l’olio (e la spia è accesa da giorni) e parto, parto lo stesso, in barba al cassiere e al direttore dell’agenzia numero 11, parto se non felice almeno speranzoso di una serata migliore e assai più succulenta delle settimane fin qui trascorse, settimane a dir poco pesanti, anzi indigeste, piene di impegni pressanti (che fare con Matteo? un’onlus? una noprofit? una srl? una snc?) e di stanchevoli brighe (l’idraulico il lattoniere l’elettricista il fabbro, quello che attacca il fax, il computer le stampanti lo scanner, poi quello che monta i vessilli o le bandiere che è uguale), mi aspetta Lucca, la città turrita, la città dalle bianche pietre e dai rossi tetti, mi aspetta La Walkiria di Wagner, capolavoro sommo di musica e poesia, ma soprattutto (cosa voglio di più dalla vita?) mi aspetta lei... lei!... e via!... via anche se una stropicciata multa incastrata tra il tergicristallo e il vetro fa bella mostra di sé, via libero siccome il vento come dice Geronte di Ravoir, alla fine un povero vecchio flaccido e libidinoso, libero un accidente anzi che subito mi prendo i pendolari, tutti me li prendo, lungo i Bastioni, in viale Maino, in corso di Porta Romana, in Medaglie d’Oro, in corso Lodi, in corso di non so più cosa, un’ora per uscire da Milano, dalla città più europea d’Italia, dalla città dell’Emporio Armani e del Salone del Mobile ma anche del Pirellone e dei tram che pigri sferragliano, quasi rimpiango Parigi, anzi senza quasi, tutti in marcia a passo d’uomo, d’uomo isterico e dannato s’intende, punito per non si sa quale colpa a meno che non si voglia risalire alla solita mela e al solito serpente, a questo serpente di macchine e di lamiere, anche se forse è meglio risalire più semplicemente agli avvenimenti odierni, non a quelli accaduti all’umanità o ai milanesi, ovvio, che peraltro non conosco, ma ai miei, anzi al mio, che io ho un solo avvenimento, sempre lo stesso da un anno, l’angoscia che mi afferra di notte da quando inaspettatamente lei se ne venne su a Parigi da me, angoscia tonda e robusta come le sue palpebre incollate che mi fanno piangere lacrime che non consolano, perché temo che lei lontana da me si metta a dormire, ben prima di me, ben nascosta da me, e allora lei è distante, inesistente, visione annebbiata di una mente confusa, finta forse, anzi finta di sicuro, lacrime che dicono non dormisse come io non dormo, mi volesse come io la voglio, almeno lei non fosse incauto e irragionevole desiderio di una vita diversa, più audace, meno disoccupata di un tempo, di una vita qualsiasi purché non sia la mia, di una vita punto e basta, io che una notte in lei ci vidi una vecchia barca trascinarsi su un fiume, io che ci sentii antiche grida di carovanieri pronti a prendermi, a rapirmi, a sottrarmi, io che a quelle voci ci ho creduto, Dio, se ci ho creduto che lei venisse a portarmi via trascinandomi per un mondo dipinto e straniero, quasi febbrile, bye bye! tschüss tschüss! - e forse, stivate a poppa, quelle colorate carovane dei vecchi circhi con le gabbie per gli animali feroci, gli elefanti dell’Okowango, le tigri dei formicai, i topi pigmei, le pavoncelle coronate, l’antico sferragliare delle ruote sul pavé, il monotono sbattere dell’acqua ma lo sbattere denso delle gabbie, l’acre odore delle bestie selvatico ed aspro come quello delle sarde in saor - e lei, la domatrice, lei, quella che decide le nuove rotte che da sotto le finestre mi urla domani siamo a Napoli! fra tre giorni a Grenoble! poi a Monaco! poi a Barcellona! poi ripassiamo per Parigi! e poi di nuovo a Milano! - lei, che una notte a Parigi, incantata ma conscia per Place des Vosges, presciente ma incauta unì la sua mano alla mia e alla mia l’intrecciò e la confuse (da quel giorno sempre in una gabbia, sempre su un palo, un gufo nel Brenta) - lei, che sempre una notte e sempre a Parigi, in rue de Turenne, mi promise di non addormentarsi mai prima di me, mai! mai! - lei, che mi condona lo strampalato mio carattere, lei, che mi condona di esistere, lei, che mi dice e poi di nuovo a Milano! la città ambrosiana dove ormai sicura di me e del mio amore mi avrebbe abbandonato e poi se ne sarebbe andata altrove, si sarebbe spinta più a sud, a Roma, forse a piantarci stabile un circo, Il circo di Nerina, che da lì non si sarebbe più mossa, cartelloni pubblicitari per la Cassia e lungo la Casilina, spot sulle televisioni locali, articoli sui giornali, manifesti incollati sulle vetrine e dépliant nelle scuole di Monteverde e Testaccio, Nerina e i suoi animali! Nerina e le sue gabbie! Nerina e i suoi elefanti! una strategica quanto puntigliosa programmazione pubblicitaria, un regolamentato palinsesto per il lancio, un’efficace calendarizzazione degli eventi o anche una cocciuta quanto estenuante agenda del giorno, mentre io, chiuso qui tra le lamiere delle macchine, assordato dai clacson, imbottigliato in piazzale Corvetto, abbandonato come un insonne rottame, mentre io ad aspettarla, pazzo! e sognarla, sognarti! vivere una nuova vita che vivo solo in quanto la credo più degna per te, e desiderarla, volerti! amarla, amarti! e - no! no! andare via! Cristo! raggiungerti! rapirti! e una tenda e davanti un campo di spighe e di papaveri come quelli di Vercagno, sparsi qua e là un po’ di covoni, qua e là un po’ di terra e di alberi, del cielo sulla testa e nella tenda una branda o un sacco a pelo che è uguale, una donna, lei, tu, prenderla ore, prenderti ore, giorno e notte, farci flapp fino a sfinirsi, fino a creparci, oh, immenso imper! anzi, meglio, im werten Reich der Weltennacht! che alla fine Wagner è davvero intraducibile, il Tristano soprattutto, ma l’idea insomma è quella, sparire, perdersi, sfuggire da una città che ti lascia solo se hai la forza di attraversare una strampalata costruzione chiamata barriera sud, barriera che comunque supero, che anzi quasi scavalco perché, sia chiaro, nessuna barriera al mondo si può mettere tra lei e me, perché voglio vederla, perché devo vederla anche se lei (sì, lei!) tra pochissimo sarà finalmente mia moglie, certo! sicuro! mia moglie! (un regalo?... per me?... ma... finalmente! mi dirà, amore! mi dirà) anche se mi si chiudono gli occhi dal sonno perché questa volta lei non ne ha voluto sapere di stare con me al telefono, stanotte era stanca, aveva la luna, di traverso l’aveva, stanotte non ce la faccio! mi ha detto, guarda che stanotte sono distrutta! mi ha detto, anzi è riuscita anche a dirmi stanotte ti tocca berti i tuoi intrugli! frase obbiettivamente offensiva arrogante e violenta, a ben pensarci frase spietata, e io ore a girare per casa come un corpo in un’anima, un gufo in una gabbia, mio Dio, le ore che non passano mai, minuti come ore, le ore come giorni mesi anni vite - e apro le finestre, annuso un po’ d’aria, guardo giù in strada e sferragliano i pochi tram della notte, è lei! schiamazzano tristi delle macchine, sei tu! ed ecco la barca, ecco la carovana colma di gabbie, e invece niente, solo gli operai del Comune che aggiustano le vecchie rotaie dei tram, quelle del 14 e del 12, quelle che vanno al Cimitero Maggiore e a Bausan, nome alquanto strano e misterioso, perché lei è là a Roma a fare chissà cosa, ovvio, lei non è qui a Milano, e adesso comunque dorme, alle quattro di notte, figurati, dorme di nascosto da me, chiaro, di nascosto da me consuma il proprio peccato, ovvio, è all’Aventino che pecca, è all’Aventino che dorme, e là, adesso a quest’ora di notte, di traverso la luna ma schiacciata nel cielo, all’Aventino le palpebre appiccicate di colla, all’Aventino il respiro profondo, la testa pesante sul cuscino come pesanti sono i pini conficcati di sotto, la coperta abbarbicata sulle spalle e quel po’ di sudore sul collo e sotto le ascelle, no! è atroce il suo sonno! è ingiusto! e allora richiudo le finestre, aspetto la luce, il sorger del sole, insomma aspetto il der Tag, addio Tristano, addio immenso imper, addio gottlich ew’ges Urvergessen, che ti tocca berti i tuoi intrugli, non c’è verso, che stanotte ti tocca, che Dio, lo giuro, prima o poi a questa faccenda del sonno ci dovrò pure andare in fondo, più prima che poi, s’intende, non so se con uno psichiatra, uno psicoanalista freudiano o junghiano o lacaniano che sia o con un guru o un santone, una specie di Sai Baba casalingo, che Milano è piena di Sai Baba casalinghi, del resto come Roma, che i Sai Baba rigurgitano dai tombini e dalle fogne, che anche quella dei Sai Baba è una bella mania, e se non con un Sai Baba almeno con una decisione irrevocabile e ormai presa da un anno anche se presa di colpo, ovvio, un po’ nei fumi dell’insonnia e dell’alcol, decisione chiusa nel pacchetto rosso scuro che quasi stavo dimenticando sul mobile d’ingresso, piccola e bruciante confezione che è un’anamnesi e una diagnosi, una promessa ma forse anche una guarigione, quando mi basterebbe vederti di più, stare con te almeno una notte, dormirti d’accanto, fare l’amore, farlo anche in albergo, in macchina, in un caravan, in un tram, chi se ne importa della tenda sul campo di spighe e del cielo sulla testa, chi se ne importa di Vercagno e del suo bosco di roveri, ti voglio prendere intera, che sono settimane che non ti vedo, che mi chiedo cosa sono venuto a vivere a Milano se poi tu da Milano sei sempre via per i tuoi dannati impegni, impegni peraltro assolutamente strani quanto misteriosi, altro che Bausan, adesso che ce l’hai con l’Aventino, chissà cosa ti frulla in testa, che anzi lo so benissimo cosa ti frulla in testa, cavolo se lo so, e io a passare i giorni a dirmi tra un po’ la vedi, ancora quarantotto ore ancora ventiquattro ancora dodici, tra un po’ la vedi, ancora sei quattro due e sì, tra un po’ la vedi, finalmente la incontri, a Lucca, la città delle pietre bianche e dei rossi tetti, poche ore insomma e d’accanto le indugio (quanto è bello Rilke tradotto da Errante), ovunque indugio su di lei, tra le sue tette, tra le cosce, nelle sue chiappe - e intanto, qui in casa mia, immersa nel tanfo di chiuso, polverosa e abbandonata nonostante la mia presenza (posto a cui non riesco a metter mani forse perché sempre in passivo o forse perché presago di ciò che avverrà), casa dove lei è stata un po’ di giorni la settimana scorsa, scoprire che mi manca lo stesso, che qui non è questione di giorni o di casa, di spazi o di tempi, da quanto lei è grande e sconfinata, senza bordi o con bordi incomprensibili, da quanto lei è immensa, gonfia come un pallone, Natascia-mongolfiera, Andromaca-dirigibile, Isolde-veliero, e intanto, folle e sovrumana, ecco che se ne va, ecco che mi dice me ne torno a Roma, lo sai, i lavori, i restauri, e ingabbia gli animali feroci, richiama gli elefanti pigri sull’Okowango e gli addormentati topi pigmei, e apre la porta, mi dice siamo d’accordo, allora? ci vediamo a Lucca, e poi ce ne andiamo tutti a Vercagno - tutti a Vercagno? - sì, da mia sorella - e perché a Vercagno? ma lei mi dice soltanto a Lucca forse ci sarà anche la nonna - la nonna? - ma lei mi dice soltanto mi raccomando, ricordatelo, è la nostra serata! e mi dice ciao, un ciao frettoloso e senza baci, scompare, svanisce e tutto fa male, ovvio, la cuccuma e il rimasuglio di burro nel frigo, lo scolapasta e lo spazzolino dei denti nel bagno, svanisce e tutto è ricordo di lei che forse non è lei, che forse è qualcos’altro, che unica densa certezza e unico confine sono le sue tette, le sue cosce sode e caparbie, il suo culo immaturo ma superbo, antro illegale ma sicuro del mio sonno e della mia pace, dogana cruenta ma sublime alle mie fantasie, accampamento armato ma carnoso contro dubbi tarli e sospetti, dove sei? cosa fai? tu mi pensi? domande che svolazzano come mosche lungo il corridoio, lungo il bagno e la cucina, lungo la veranda che sarebbe da restaurare al più presto e lungo l’ingresso che sarebbe da imbiancare se non fossi maledettamente presciente, e che se ne vanno fuori dalla porta, le domande s’intende, non i restauri, s’infrattano nell’ascensore per poco ancora funzionante, sbarcano nell’androne e spuntano vispe sul marciapiede, chi le ferma adesso? chi le prende? chi le acciuffa? e attraversano la strada, scendono in metropolitana e in metropolitana ci salgono, cambiano linea più volte (la verde la rossa la gialla - tale è il rispetto che il Comune ha dei daltonici), sbucano di nuovo alla luce, percorrono trafelate un altro tratto di strada fino ad arrampicarsi rapide su per i ripidi muri dello studio affittato da poco da me e Matteo, con gli operai che lo stanno rimettendo a posto a prezzi per le nostre tasche davvero esorbitanti, che neanche a Parigi le imprese edili costano così, lì fino alle persiane per poco (spero) ancora provvisorie e traballanti, e si depositano le domande come insetti impazziti sul mio tavolo e sull’agenda che non apro quasi mai (ma perché tieni un’agenda, allora?), sulla cornetta del telefono che non sollevo quasi mai (perché allora tieni un telefono?), sul fax nuovo di zecca ma vuoto di carta (e perché allora...), e si appoggiano pesanti sul mio nuovo lavoro che altro non è che l’ennesima illusione di vivere, di come provarmi organicamente pulsante ma soprattutto di vedere se almeno un poco riesco ad assomigliare agli altri che allegri intraprendono, perché qui tutti intraprendono, anche chi vende i biglietti del tram è uno che intraprende qualcosa, che importante è mettersi in proprio e non pesare allo Stato, che importante è ottenere linee di credito per poi aprire partite ive (sì, partite ive, sacro nome alla Patria e al Continente Comune), che importante insomma è la concorrenza e il mercato (si, certo, il mercato, sacro nome all’Europa e ai Continenti Comuni), che il mio lavoro comunque per ora altro non è che un’affaticante lotta contro elettricisti imbianchini idraulici lattonieri e falegnami, perché io restauro e intanto cerco di arrabattarmi in una qualche maniera per organizzare chissà cosa, complesse quanto lambiccate società che costituisco con Matteo al mattino per distruggerle con Matteo alla sera, perché io ridipingo e intanto già penso ad un’eventuale quanto visionaria mailing list utile a dire ai milanesi che io ci sono, che io sono tornato per sempre (per sempre?), che ho pure delle idee anche se confuse e che queste idee le ha pure Matteo confuse quanto le mie, è chiaro, ma una di queste mie idee (la più importante, s’intende) è quella di issare non tendoni per circhi o fatue iscrizioni alla Camera di Commercio bensì bandiere che sventolino coraggiose ai venti lombardi e che pure sfiorino audaci le crape dei cittadini ambrosiani giù in strada, e insomma io lavoro come una bestia ma non so bene su cosa e perché, dove sei? cosa fai? tu mi pensi? mosche impertinenti come il ricordo della sua bocca e del suo mettimi a cuccia, dài! animaletti fastidiosi e pungenti, mosche longeve da far paura come nessun’altra specie di mosche nel mondo, un anno che mi ronzano intorno, che fanno zrr di giorno e di notte, non c’è vape che tenga, non c’è zampirone o citronella che sia - Dio, come ci scopo con quella donna! come me lo fa crescere solo a pensarla! mettimi a cuccia mi dice quando lo vuole, e io che temevo che i flapp col tempo calassero di intensità e di virulenza, idiota, che tempo fa hai inoltrato il piè lì fra le sue gambe, lì tra le sue cosce - ma dov’è andata a pescarla un’espressione simile? dove? mettimi a cuccia! troppo bella e goduriosa, salace e pungente, ma soprattutto troppo significativa e cocente, parole folli e impenitenti come il mio ritardo di adesso, che ti dirà anche di metterla a cuccia ma quanto si arrabbia per i tuoi ritardi, quanto si irrita, s’infuria, certo, e permalosa sbatte la porta a sfacciato gesto di rivalsa, l’inusitato e rauco rombo dell’ira, compresso dal livore il tuono nel cuore, e insomma lei va davvero fuori dai gangheri e perde le staffe, e a questo punto ormai delicatissimo del nostro amore, giunti ormai a questo bivio cruciale, meglio è proprio non farla uscire dai gangheri o farle perder le staffe che è uguale, tant’è che la smetto di vaneggiare, fossi scemo, sciò, come dice lei, stop, come dice lei, alt, come sempre dice lei, finish, come continuamente dice lei, lei, lei... lei!... e supero i tir, lampeggio fremente alle macchine, si spostassero tutti, tutti si mettessero sulla destra, tutti mi lasciassero libero di correre, di volare, anche di rischiare la pelle (è bello rischiare la pelle per lei), ed eccomi a Lodi, eccomi a Casalpusterlengo, supero il Po ed eccomi a Piacenza, mi appiccico alla macchina davanti e dài! dài! fatti in là! ed eccomi a Parma (nemmeno mi sono accorto di Fidenza, dell’antica San Donnino), adesso supero a destra  che c’è sempre il deficiente che non si sposta, c’è sempre l’ottuso, l’ignorante, il mulo che non capisce, che non sa la mia fregola d’amore, e suono, abbaglio di nuovo e sono a Reggio, forsennato lampeggio e sono a Modena (intravvedo pure la bianca Ghirlandina, misero stuzzicadenti sepolto dai palazzoni), abbaglio accanito e finalmente laggiù ecco spuntare San Luca, ruga di arcate e pilastri che solca la collina d’argilla, eccomi allo svincolo di Bologna, al bacchelliano Borgo Panigale, e quasi sbaglio, cose da matti, rischio di dover uscire a San Lazzaro e dovermene tornare indietro, ci mancherebbe anche questa, solo per miracolo riesco a infilarmi nella Bologna-Firenze e al solito qui c’è un traffico d’inferno, ci sono dei lavori in corso mal segnalati, lavori che però si chiamano variante di valico, un nome che copre un obbrobrio, un obbrobrio che copre un delirio, il delirio delle autostrade italiane e non solo italiane, i cantieri e le corsie strette come budelli, tutto definitivo perché tutto provvisorio, tutto provvisorio perché tutto è variante di valico o di passo che sia, e tutti come tartarughe a respirare i gas di scarico degli altri (e io ho orrore del gas), che mi scappa anche da pisciare, ho pure fame, oggi non ho mangiato, potessi mi fermerei all’autogrill, altro posto da incubo, lo so, ma ci scaricherei l’ansia del viaggio mangiandomi delle cose che invece di chiamarsi panini si chiamano zufolo contadino rustichella... rustichella!... ma cosa vuol dire essere dei rustichelli? certi nomi chi l’inventa? gli addetti al marketing? e cosa vuol dire essere addetto al marketing? che sfiga è? cos’è il marketing? e poi, cosa me ne importa di chi ha inventato lo zufolo o la rustichella? cosa me ne importa di chi ha avuto la bella idea di scrivere dappertutto rustichella + cocacola + caffè = sconto cortesia? cos’è? un’espressione algebrica? o uno degli enigmi della Principessa di gelo? della candida discendente dell’ava Lou-Ling? insomma, di Turandot (guizza al pari di fiamma)? e Calaf sarebbe mai riuscito a risolverlo

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