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Il Paradigma di Vico
Il Paradigma di Vico
Il Paradigma di Vico
E-book438 pagine6 ore

Il Paradigma di Vico

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Info su questo ebook

Il paradigma di Vico è quello dei 'Corsi e Ricorsi', quello che per certi aspetti sembra riprodursi nella nuova pandemia da Coronavirus Covid-19) che si è presentata dapprima nell'Italia del Nord , poi nel resto dell'Europa, infine in altre parti del mondo. Il protagonista del romanzo - Max - viene sorpreso dai primi segni di tale evento durante una sosta nel villaggio di Bellavista, dove incontra la giovane Bea (Beatrice), di ritorno in quel di Milano da un convegno a Roma sulle Energie rinnovabili.Da quel momento la progressione degli eventi per Max è incalzante. Soprattutto si trova impegnato, in collaborazione con una vivace azienda che ha sede in Valle Seriana (BG), nello sviluppo di un prototipo di filtro per la purificazione dell'acqua potabile. Italo, titolare dell'azienda, e sua figlia Lucia (una giovane biologa) credono molto nel progetto, che anche per loro rappresenta un atout iportante.Il Covid dilaga. Max tiene duro sul progetto con Italo e Lucia; ma non rinuncia a certi suoi rapporti con Pietro e Umberto, due ex colleghi, "grilli parlanti" che sanno tutto... o quasi sulle pandemie del passato. Nel corso dei contatti con tutti loro Max ha molte occasioni di tornare a Bergamo, su in Città Alta, dove riemergono nitidi ricordi di quando - bambino, poi adolescente - andava a passare l'estate dai nonni paterni. Un giorno si fa viva al telefono Bea, che da Bellavista è venuta a Milano, presso una parente, per informarsi sul piano di studi della facoltà (Scienze Biologiche) a cui ha intenzione di iscriversi (Covid permettendo!). Durante i mesi della pandemia Max cerca dii detreggiarsi fra tutti quei contatti, cercando nel contempo di trovare risposte a domande di valenza molto più ampia che da sempre si è posto. Immancabili, nonostante il baratro della differenza di età, certi umori di delicato erotismo nel rapporto con Lucia (Lucy), ma addirittura in quello con Bea.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2024
ISBN9791222720944
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    Anteprima del libro

    Il Paradigma di Vico - Massimo Basagni

    0. Antefazione

    (Giugno 29 / 28)

    Andrò sul terrazzo; oggi è una giornata di sole, che con le ore diventerà sempre più calda.

    Maria sta spargendo briciole di pane per i piccioni: a volte li scaccia, ma spesso come adesso li attira con le briciole o con un pugnetto di riso, mormorando un richiamo a me non comprensibile. Chissà perché mi fa venire in mente Jack London e – improbabile overstatement – Elam Harnish che, al suono della voce di Didi (‘Here chick, chick, chick! Here chick, chick...’) intenta a dare il becchime ai polli, ricopre di terra l’ultima vena aurifera che ha scoperto poco fa dietro l’orto; e decide che non farà mai più il cercatore.

    No, nemmeno io farò più il cercatore. Smetterò di inseguire la luna e certe stelle come ho fatto per tanto, troppo tempo; forse da sempre.

    Ci voleva questa tempesta. Una tempesta per nulla perfetta; ma che ti mette di fronte a una realtà più essenziale e definitiva, nel momento e con le evidenze che riguardano la tua stessa esistenza.

    Anche se ormai da qualche settimana tali evidenze maturavano sempre più nitide agli occhi della mia mente, è stato ieri sera che tutto si è concluso; anzi, si è appalesato in modo irrifiutabile, fin dal momento in cui stavo per arrivare a Bergamo.

    *******

    La chiamata di Lucia mi raggiunge mentre supero l’uscita di Dalmine. Vorrà sapere se sono in arrivo. Sì, tra pochi minuti sono là, glielo confermo:

    «Ciao Lucy. Tra cinque minuti scarsi sono a Bergamo. Dove vuoi che ci vediamo?» le domando, e propongo «Magari è meglio dalle parti della stazione, dove sicuramente trovo da parcheggiare»

    «Senti, Max» – la sua voce è alterata – «non so come dirtelo, ma c’è un problema, un problema serio: al Monumentale non ci fanno entrare, entrano solo i sindaci della bergamasca, le autorità e alcuni medici…»

    «Ah, ti avevano assicurato che…»

    «Mi avevano anche dato una specie di invito; ma sembra che non avevo capito niente: ci sono limitazioni. Ora non so come fare»

    «No problem, Lucia: tanto sono quasi arrivato. Poi parliamo di persona» la rassicuro. «Ci vediamo davanti o di fianco alla stazione, se sei d’accordo»

    «Certo. A tra poco. Sono incavolatissima per questo disguido!»

    Chissà cosa è successo. Le avevano dato anche gli inviti per entrare tra i vip (se pure mi pareva un po’ strano). Capiremo.

    Eccola là; è arrivata prima di me, come al solito.

    È scesa dall’auto e sta fumando, deve essere proprio incazzata. Non è il caso di prendersela: la circostanza non permette – qualunque sia stato il disguido – di reagire sulla base di impulsi emotivi. C’è ben altro in gioco in questa serata, in questa città, anche dal lato dei sentimenti!

    «Sono qua, Lucia. Raccontami, ma non prendertela: se non si può entrare, avremo più tempo per parlare tra noi»

    «Mi sto calmando; ma mi hanno fatto arrabbiare. Tantissimo. Ti ho fatto arrivare da Milano per questo?» chiede, ma la domanda è rivolta a se stessa.

    «Avevamo programmato di vederci ancora una volta; anche perché l’ultima ci eravamo lasciati un po’ giù di corda. E stasera ci si vede, no? Ma dimmi, cosa è successo? Non ci sono più posti?»

    Sembra che abbia qualche problema a spiegare cosa è successo: quale sia la causa che adesso ci impedisce di entrare nell’area del concerto di commemorazione: la commemorazione delle vittime del Covid qui a Bergamo. Cerco di tranquillizzarla: non è un problema se sono venuto qui da Milano stasera. Niente concerto? Penso che possiamo benissimo fare qualcosa diverso. Ma lei è di un altro sentimento:

    «La colpa è del mio nuovo amico, quel medico: è lui che mi aveva promesso gli inviti. Ma stasera, quando l’ho incontrato là in Borgo Palazzo, quasi davanti al cimitero, mi ha detto che ero invitata solo io, e potevo entrare solo se ero con lui, perché gli ingressi sono nominativi e… strettamente contingentati»

    «Comprensibile: è stato un disguido. Ma tu devi assolutamente andarci, devi andare con quel medico. Anzi, è l’occasione per portargli ancora una volta i miei cordiali saluti, e ringraziarlo per le informazioni su Italo anche a nome del comune amico che mi aveva procurato il contatto con lui»

    «No. Ho capito che lui è rimasto malissimo per il… disguido (chiamiamolo così). Ma non sono una ragazzina. Se domani mi richiama,… vedremo. Ma stasera se la suona da solo. E poi, non facciamo i ragazzini: io avevo un appuntamento con te; e io rispetto gli appuntamenti!»

    «Okay, non insisto. La padrona di casa sei tu. Cosa preferisci, ci sediamo in un bar?»

    «Sei matto? Il Requiem non dobbiamo perdercelo, ho pensato come risolvere la cosa. E poi vorrei parlare un po’ con te. Ti voglio dire cosa ho in mente di fare, perché avrei piacere di sentire la tua opinione. E poi, potremmo anche parlare del futuro: voglio dire che se potrai lasciare un po’ la porta aperta, per decidere verso l’autunno per i tuoi filtri…, e comunque è meglio se ne parliamo con calma, magari seduti; non qui in macchina!»

    «Oh, bene per il Requiem! Ma non penserai mica di… scavalcare qualche muro! Potrebbero arrestarci»

    Ma Lucy – che ora sembra un po’ rinfrancata – mi spiega che possiamo andare dalla sua amica, su in Città Alta, a seguire il concerto alla tv: lei ha già parlato con quella, che è ben felice di ospitarci nel suo studio, lassù dove eravamo già stati una volta, vicino alla stazione della funicolare.

    Solo che dobbiamo salire in macchina, perché la funicolare a una certa ora si ferma. Anzi, sarebbe meglio andare con due macchine, visto che lei avrebbe deciso di fermarsi a dormire dalla sua amica («Così Giampaolo – pardon, quel medico – stasera si arrangia, e impara ad essere più organizzato…»).

    Okay, Lucia. Sono venuto stasera a Bergamo per questo, e il concerto non me lo voglio proprio perdere (altrimenti preferivo seguirlo in tv restandomene a casa). Facciamo come propone lei, andiamo con due macchine; ma lascio la mia vicino alla partenza della funicolare, così al ritorno me ne scendo a piedi per la scaletta.

    *******

    OK davvero, Lucia! Ieri sera là a Bergamo abbiamo vissuto il clou di questa storia inattesa. Era come trovarsi prigionieri nell’occhio della tempesta: la calma imposta dall’autorevolezza di quel Requiem; ma con una consapevolezza nuova e non più rinviabile.

    Sebbene ieri sera qualche nota stridesse. E non erano certo le note prodotte dall’incredibile ensemble dell’orchestra del Gaetano Donizetti; nonostante tutti gli orchestrali – incluso il coro – ci offrissero la loro passione protetti ma sacrificati dalle mascherine anti-Covid.

    Stamane, su questo terrazzo, proprio mentre Maria chiama i piccioni per dar loro il becchime, ho capito che non avrebbe senso rinunciare: non posso più non tentare di rendere con le parole il flusso dei fatti e delle emozioni di questi ultimi mesi, così come è venuto montando fin da quella mia strana salita con sosta notturna a Bellavista.

    Sono sempre stato convinto che non valga la pena di scrivere soltanto per appagare (parafrasando la pubblicità di un noto whisky, su un’ancor più nota rivista) il… tsk, tsk del teacher, che certe volte si mette anche a scrivere; ma sento che adesso non tentare di farlo sarebbe – al contrario – un altrettanto ingiustificabile atto di rinuncia.

    1. Bellavista

    (Febbraio, 10)

    Un filo teso di tramontano scende perentorio da Bellavista, mentre di buonora lascio alle spalle il Ponte Buriano che galleggia sulle acque quiete dell’Arno, uguali a quelle che intuisci alle spalle di una Gioconda forse mai stata in visita qui (1). Ho superato Cincelli e il Poggiolino ventoso della mia infanzia, dove me ne stavo certe sere con lo zio Riccardo e Irene, la sua fidanzata, a guardare le stelle ascoltando storie sul kibli che sollevava nuvole di sabbia e ti nascondeva agli inglesi durante la guerra laggiù nel deserto. Guido lento, salendo e puntando sicuro verso l’alto, verso Casavecchia e, ancora più su, Bellavista.

    Dopo lo sfinimento per le ultime notizie che ci avevano ieri sorpreso, nel bel mezzo del convegno romano sulle Energie Rinnovabili (quattro convenuti, ahimè…), circa la poco silenziosa invasione del nuovo Coronavirus all’inizio di questo 2020, avevo deciso: avrei fatto una deviazione, prima di proseguire verso Milano. Sarei passato ancora una volta nei luoghi da dove i miei avi se n’erano scesi, giusto un secolo fa, carichi di speranze e di una buona porzione del dna che mi porto addosso. Erano scesi in città all’inizio di quei benedetti anni Venti, forse spinti dal tramontano che ora mi accoglie un po’ rinforzando, quasi fosse incerto se lasciarmi passare. Avevano deciso dopo che la bufera della Grande Guerra si era accanita pure contro il nonno: prima sul Carso, poi in un campo di prigionia tedesco in Romania, giusto ai piedi dei Carpazi ventosi. Si erano mossi con coraggio incosciente, nonostante l’ansia accresciuta dai refoli di un ostro insistente che dalla piana aretina cercava di rallentarli.

    Erano anni che non salivo fin quassù. Mi torna in mente che in questo luogo ventoso – anzi, un poco più in alto, nel podere di Bellavista – il bisnonno Angiolo voleva realizzare una specie di mulino a vento, ‘Come quelli che si vedono’ pare dicesse, per convincere tutti che la sua era proprio una buona idea, ‘nelle stampe delle terre d’Olanda, là su quel mare…’

    Forse il suo scopo segreto era di competere con certi parenti che avevano installato con successo un piccolo mulino ad acqua Diderot (2) laggiù in basso, nel fosso che scende dietro al Poggiolino. Ma non ne aveva avuto il tempo, perché si era preso la polmonite a causa della pioggia e dell’aria gelida di un febbraio più inclemente del solito, la sera che – appena rientrato da una visita ai marchesi Abergotti nel loro palazzo di famiglia ad Arezzo – si era attardato ad asciugare la cavalla pezzata, invece di togliersi i panni bagnati e asciugare se stesso come continuava a raccomandargli preoccupata la moglie Assunta. Sì, Angiolo era morto di polmonite; ma non era stata la famigerata Spagnola, perché quella sarebbe arrivata a Casavecchia solo alcuni anni più tardi.

    Mi fermo nella piazzetta minima; spengo il motore per non violare la quiete perfetta, e scendo dall’auto nel cuore – quattro case senza età – di Casavecchia. Guardo l’edificio di pietra serena, con la classica torretta delle coloniche toscane, la scala esterna che sale verso una porta che sembra nuova (non certo la stessa dalla quale usciva e rientrava la mia bisnonna Assunta!). Ci voleva quel convegno a Roma sulle fonti rinnovabili, e l’ansia causata dal vento delle notizie su questa (forse) nuova epidemia da simil-H1N1, per riportarmi qui dopo tanti anni!

    Sto contemplando con piacevole stupore il decoro austero che questo edificio ancora ti propone quando, dalla porta al piano terra di quella che penso sia una rimessa per l’auto (ed era forse il ricovero della pezzata e del calessino di Assunta), esce un uomo che saluta con tono cortese:

    «Salve, si è perso?»

    «No, certo che no! Ma non ero sicuro di ritrovare il posto...»

    «Il posto o la casa? Vede, qui siamo sempre in pochi; e oggi ancora di meno; sarà anche per questo vento…».

    Mi sembra giusto spiegargli qualcosa di questa mia improvvisa comparsa: gli dico che stavo risalendo verso Milano dopo un congresso a Roma; cito le energie rinnovabili, il mare e soprattutto i venti, sperando non mi giudichi uno di quegli originali che continuano a sognare futuri migliori, o almeno un po’ più puliti. Soprattutto mi affretto a spiegargli che in questo villaggio – anzi, proprio in questa casa – sul finire di due secoli or sono era nato mio nonno (non aggiungo che anche vi era morto di polmonite il bisnonno Angelo).

    «Ma guarda! Interessante, molto interessante! Ma venga, saliamo in casa, se non vogliamo beccarci una bronchite o peggio, con questo ventaccio…».

    Seduti sui divani di cuoio davanti all’enorme camino, in una stanza con le travi del soffitto nere per il tempo e le antiche fiamme di quel focolare, decidiamo di darci del tu; e ci scambiamo notizie che un poco assomigliano a favole. Enrico (questo è il nome del mio nuovo amico) ha acquistato la casa qualche anno fa da un vecchio ingegnere, suo collega all’università di Pisa. Ci vengono spesso d’estate, lui, la moglie e la figlia; ma stavolta sono arrivati per un weekend…allungato: «Sai, con questa epidemia che sta dilagando… ma quassù la tramontana, che scollina da Talla e da Capolona, dovrebbe un po’ ripulire».

    Gli dico che invece il nonno (si chiamava Giovacchino) aveva accondisceso alla perentoria proposta di quelle folate, e aveva lasciato questa casa per scendere in città: giusto cent’anni fa. Non nasconde un moto di sorpresa, e considera:

    «Cent’anni fa era arrivata la Spagnola; quindi, si erano trovati nel pieno dell’epidemia… Ma se l’erano cavata?»

    «Sì, loro sì. Mi aveva raccontato qualcosa la nonna; gli altri non amavano molto parlare di certi argomenti. Lei diceva che l’epidemia aveva colpito in modo più crudele le donne, chissà perché; forse un problema di enzimi…»

    «Ma tu – che mi hai detto di lavorare da un pezzo nel campo biomedico – sai dirmi se ci sono delle somiglianze con l’epidemia di questi giorni? E questa che cos’è?»

    «Dovremmo farcelo spiegare da un virologo» tento, «ma non si può negare che alcune analogie siano impressionanti; e colpisce soprattutto il fatto che in cento anni si sia fatto così poco per la lotta contro certi virus».

    Concorda; da bravo ingegnere tende a fare una valutazione operativa, più che accademica, dell’irruzione di questo nuovo e inatteso fastidio. Già, cosa abbiamo (o non abbiamo) fatto in concreto per trovarci quasi riprecipitati nella condizione dei nostri antenati, che hanno avuto a che fare – senza capirci un granché – con la maledetta Spagnola o, ancor peggio e molto prima, con quelle pestilenze che imperversavano al tempo dei tempi?

    «È frustrante, irrazionale; mi pare che la gente» considera ora pensoso «reagisca in modo simile da non credersi a come si reagiva cent’anni fa. Naturalmente, fatte le debite proporzioni. Ma la paura del contatto con i tuoi simili, l’isolamento forzato imposto a quelli meno fortunati solo perché stanno dove il virus colpisce più duro… mi sembra che abbiamo fatto un salto indietro di un secolo».

    Concordo a mia volta. E ci tengo a dirglielo. Anzi, mi sbilancio (forse sbaglio) a rincarare la dose della sua frustrazione, e sbotto con un’enfasi perfino eccessiva:

    «State attenti, anni! Anzi, dobbiamo esser noi a stare molto attenti! Gli anni Venti (quelli del Novecento, intendo), cosa avevano portato? Giovacchino era sceso in città sperando di sfuggire alla tramontana che soffiava inclemente da Bellavista; ma, se pure aveva scansato la Spagnola, non aveva avuto fortuna: gli affari non erano andati molto bene, fino al crollo totale del ‘29…»

    «E dopo» conclude lui, ampliando e generalizzando il quadro, «a precipizio fino al ‘40, alla guerra. Non vogliamo credere a certi… ricorsi, certo! I Quaranta erano solo il doppio dei Venti, ma un doppio mai avrebbe potuto essere più… ugualmente sbagliato; se pure per cause diverse. E comunque oggi, a cent’anni di distanza, se fosse anche solo per l’emotività diffusa, prodotta dall’irruzione di questo virus…».

    Ora l’atmosfera in questa stanza che ha conosciuto i passi e le voci dei miei avi si è fatta più intima; il fuoco acceso poco fa nel camino da Giovanna, la padrona di casa, ci riscalda nel pomeriggio che avanza mentre il vento là fuori soffia più forte. Aspettano il rientro della figlia Beatrice, una ragazza di diciotto anni, che è andata con gli amici fino a Capolona per distrarsi («In barba a tutti i virus!» sbotta lui). E mi invitano a fermarmi, almeno per la cena: tanto loro cenano presto. Sono molto incerto; tento una debole resistenza, ma alla fine mi arrendo. Solo però se potrò ripartire non troppo tardi, perché poi ho molta strada da fare, di notte; e la mia macchina non è esattamente una ragazzina!

    Enrico parla da ingegnere, durante una cena (prosciutto salato e pecorino stagionato) tanto frugale quanto per me emozionale per via dei sapori che avevo quasi dimenticato dal tempo dei soggiorni estivi nella mia infanzia toscana.

    Lo colpiscono certe somiglianze – o anche solo analogie – tra fatti e vissuti così lontani:

    «Lo senti, il vento sta rinforzando; ma tanto tu sei in macchina… . I venti – c’è chi dice – insegnano qualcosa; ma anche ingannano, come in fondo stavamo affermando poco fa: dipende soprattutto da noi saperne decifrare i messaggi»

    «Mi pare però che parlavamo degli anni, dei Vénti! Ma sì, anche i vènti ci possono insegnare; anzi, avvisare. Sarebbe stupido far finta di niente».

    Ora Giovanna ci osserva con uno sguardo più attento, un poco interrogativo:

    Certo che son sicuro che lei sta pensando questi uomini a volte sono tanto zotici, quanto sognatori….; ma forse se li lascio proseguire ne vien fuori qualcosa….

    E di sicuro rimane delusa quando – ormai entrambi sotto gli effetti benefici di un impareggiabile rosso, che Enrico ha voluto tirar su dalla cantina in onore mio e dei miei avi – lui riparte (non lo diresti un freddo ingegnere!):

    «Tu cosa ne pensi: la fine ingloriosa della civiltà umana sarà causata da un nuovo virus, uno non più controllabile né contrastabile? O sarà invece dovuta all’esaurimento di tutte le fonti di energia su un pianeta divenuto ormai troppo freddo, dopo quest’attimo fuggente?»

    «Domanda difficile» gli rispondo, ma con un tono – me ne rendo conto con meraviglia – quasi allegro. «Domanda da un milione di euro: per i virus non saprei; ma le energie rinnovabili dal Sole, dal Mare, e soprattutto quelle dai venti, forse ci salveranno; ce ne sarebbero di cose da fare! Naturalmente, sul lato… catastrofico dobbiamo anche escludere una devastazione termo-nucleare!»

    Enrico adesso mi guarda, beve un sorso del suo rosso, e non risparmia la sentenza:

    «Sì, certo; ma tu vedi l’uomo che… fa le cose giuste? O almeno che comincia a pensarci? Dinosauri stupidi e pigri, andiamo avanti a bruciare petrolio e foreste!»

    «I dinosauri non sono stati attenti» ribatto pronto: «forse non potevano, erano solo un banale esercizio per il Creatore. Ma noi non lo siamo, non vogliamo esserlo!»

    «Certo» chiude lui con la voce un poco incrinata, «certo; se lo fossimo, credo che sarebbe davvero difficile uscire da un tale esercizio».

    La figura della ragazza occupa il vano della porta, seguita dalla breve raffica. Beatrice è carina, un’aria più matura dei suoi diciott’anni.

    «Ciao, Bea; sei tornata presto stasera» la accoglie lui prima ancora che quella richiuda la porta; e, facendo un cenno del capo verso di me, «Questo è un ospite speciale…»

    «Speciale….? Non mi pare di conoscerlo, Enrico: uno dei tuoi amici-colleghi dell’università?»

    Sono solo poco sorpreso che lei si rivolga al padre chiamandolo per nome (non è la prima che sento); ma subito mi domando se questa ragazza sia figlia sua o… di sua moglie.

    «Vedi» mi viene in aiuto lui, «questi giovani in fondo ci fanno un favore con il loro anticonformismo: Enrico, non papà (o, peggio, babbo), il che mi ricorda di essere una persona, un uomo, e non solo un… genitore»

    «Certo, e non è la prima che sento. I miei figli – tutti e tre – sono più tradizionalisti (sono anche meno… giovani), e hanno sempre usato il canonico ‘papà’».

    La ragazza scappa dalla stanza, è ovvio senza salutare; penso – chissà perché – debba raggiungere il bagno.

    Enrico insiste perché mi fermi a dormire qui, perché si sta facendo tardi, e il vento potrebbe portare anche la pioggia, e l’autostrada non è proprio qui sotto. Sono tentato, l’atmosfera di questa casa mi è stranamente familiare. E dire che da ragazzo non ero in pratica mai salito fino a Casavecchia; solo una volta con lo zio Riccardo e Irene ero venuto a cercar funghi (lui conosceva i posti) non molto lontano da qui.

    Penso che se mi fermo questa notte sarà per me come una non programmata avventura. È proprio strano: questa stanza, questi muri, hanno visto mio nonno bambino crescere, baruffando con le sorelle e facendo disperare la madre dopo la morte del marito; lo hanno visto novello sposo con mia nonna, che subito dopo le nozze per seguire il marito aveva dovuto abbandonare la Pieve, laggiù dove era nata meno lontano dalla civiltà.

    Lei era nata e cresciuta nella canonica dello zio prete, curato di campagna, nella famiglia allargata come si usava a quei tempi. Da ragazza aveva continuato a vivere in canonica assieme a un fratello che all’età giusta aveva preso il posto dello zio passato a miglior vita, e assieme all’altro fratello che curava i poderi della famiglia insieme a quelli della canonica, e che – anch’egli all’età giusta – si era invece sposato e aveva messo al mondo quattro figli (tre femmine e un maschio, il cugino Riccardo, che per me era come uno zio data la differenza di età).

    Sì, questi muri hanno visto nascere anche mio padre; lo hanno visto crescere e uscire per affrontare, ancora bambino, le lunghe camminate quotidiane per scendere nei mattini verso la scuola; con le interminabili risalite nei pomeriggi assolati dell’estate, e in quelli ventosi con le piogge della brutta stagione.

    È stato un miracolo – mi sorprendo a pensare – che mio nonno e soprattutto mio padre non abbiano subito il destino del bisnonno Angiolo: una polmonite o qualcosa del genere, beccata d’inverno – nel caso di mio padre – andando o tornando a piedi da scuola, e… amen.

    Certo, mio padre doveva avere un’istruzione degna dei tempi nuovi; mentre il nonno – che era anche un po’ delicato di bronchi – alla fine della terza elementare era stato considerato istruito a sufficienza per non dover continuare a rischiare qualche brutta bronchite, o peggio, continuando quell’avanti-indietro quotidiano per seguire le lezioni: e così era stato deciso per la conclusione del suo percorso scolastico. Mi meravigliavo sempre, da bambino, quando leggevo le lettere che lui ci inviava con regolarità, nel trovarle così ben compilate (e che calligrafia!); e ancor più quando mi chiedeva, ormai in età avanzata, di passargli i miei libri di storia (dapprima quelli delle scuole medie, poi via via anche quelli degli anni del liceo Galilei che frequentavo con profitto ad Alessandria).

    La ragazza, che ci aveva piantati in asso senza salutare (davvero urgenze fisiologiche?), rientra ora nella stanza. Sembra più rilassata; si è cambiata e addirittura sorride; si avvicina al padre seduto davanti al camino e gli passa un braccio attorno alle spalle:

    «Scusami papi Enrico, ma lo sai che sono abituata fin da bambina a chiamarti per nome…»

    «Tu lo sai che per me va benissimo; anzi… è tua madre che ogni tanto si stizzisce per queste abitudini… moderne»

    «Moderne, cosa significa? Certo che ai tempi tuoi o di tuo nonno…».

    «Al tempo dei nonni» cerco di intromettermi io «credo di aver sentito – proprio da mio nonno – che i figli (e anche le figlie, è ovvio) si rivolgevano al padre con il voi e in certe famiglie addirittura con il lei».

    La ragazza mi guarda come se si accorgesse per la prima volta della mia presenza in questa stanza; ma non esita a sparare:

    «Mi chiedo come facessero i vecchi a… sopravvivere con quei meccanismi; ma soprattutto come facessero a fare dei figli (eppure ne facevano, ne hanno fatti tanti; in molti casi anche troppi)!»

    «Be’, non poso darle torto» non posso fare a meno ora di reagire. «Anche io me lo sono chiesto tante volte»

    «Ma cosa fai, le dai del lei a questa qui?» interviene Enrico «Ti ho detto quanti anni ha, è una mocciosa…».

    Giovanna, che è rientrata anche lei in silenzio e si è accomodata su un trespolo accanto al camino, vuol dire la sua: è evidente che non è d’accordo con l’uscita del marito; mi guarda fisso, come per chiedere un supporto, e lancia

    «Lui è rimasto… indietro, a quando questa qui andava all’asilo; non si è accorto che sta per uscire dal liceo, e fra poco magari se la ritrova all’università»

    «Sempre che io ci voglia andare, all’università» ribatte pronta la signorina, «e comunque non a Pisa».

    Ora respiro un po’ d’imbarazzo nell’aria; ma non voglio entrare in questioni di famiglia, di questa famiglia che ho appena conosciuto.

    Mi domando invece all’improvviso cosa possano provare i muri di questa stanza all’udire queste chiacchiere (ammesso che i muri di una casa antica come questa si possano chiedere qualcosa), se in essi sono ancora incise (e perché non dovrebbe essere così?) le cantilene della mia bisnonna, o quelle che la nonna sciorinava per far addormentare mio padre bambino.

    Cosa possono capire questi muri – in più mi chiedo – di tutte le chiacchiere della serata, se in essi sono di certo ancora impresse le voci dei miei nonni quando tra loro discutevano sulla ormai improrogabile necessità di lasciare questa casa, Bellavista e Casavecchia, per scendere – sospinti dalla tramontana, se pure frenati dal refolo di un ostro insistente che saliva dalla piana aretina – verso un futuro che non conoscevano?

    Alle gentili parole di Enrico e alla pacata cortesia di Giovanna, che insistono perché non scappi via subito, fa eco (a dir poco imprevista) una considerazione della ragazza, che ora mi fa notare:

    «Se scappa stasera, di notte, non vede niente qui attorno. A parte il fatto che io preferisco stare in città (persino Pisa è un paesone, guardi…), a lei potrebbe interessare vedere come è diventato questo posto rispetto a quando ci veniva da ragazzo; quindi le conviene fermarsi. Non si preoccupi, noi siamo ospitali; non abbiamo intenzione di farle passare la notte nella scuderia; e poi qui di cavalli non ce ne sono più, come forse c’erano ai tempi della sua bisnonna….».

    «Dai, vedi che se insiste persino Bea» rinforza Enrico «vuol dire che ci fa proprio piacere se ti fermi almeno fino a domattina».

    «Non si preoccupi» interviene adesso Giovanna (forse ha compreso che mi serviva anche il suo, di rinforzo), «non ci mancano i letti; a volte ospitiamo gli amici…»

    «Sinceramente, vi ringrazio di cuore; vorrei tanto accettare la vostra incredibile ospitalità, ma in fondo mi avete appena conosciuto…»

    «Sì, ci siamo incontrati da poche ore» considera Enrico, «ma questa casa, questi muri, hanno conosciuto e ospitato per anni – forse fin da quando erano stati eretti – i tuoi antenati più diretti, e tuo nonno, e tuo padre, quindi…»

    «Quindi» gli fa eco completando il concetto Giovanna «se lei si ferma stasera, per noi potrebbe aprirsi uno scenario inatteso… direi importante: conoscere un po’ la storia di questi muri, di questa casa. Vede, noi la sentiamo come nostra questa casa; ma tante volte ci siamo chiesti chi ci viveva prima di noi, e come era sorta ai suoi tempi; e la storia di quella famiglia»

    «E… potremmo viverla in modo più completo, senza domandarci ogni tanto chi fossero e dove siano finiti quei fantasmi» conclude Enrico.

    «Ora non fatelo emozionare troppo» mi viene in soccorso la ragazzina: «se vuole fermarsi, fa piacere anche a me; anche se faccio meno smancerie di voi due».

    È fatta; mi sono lasciato convincere. Forse è stato proprio il tratto più cameratesco della ragazza a togliermi il timore di essere invadente. D’altra parte, quale occasione più ghiotta per tentare di fare anche un tuffo nel passato, quello più vicino a me, al mio sentimentale? Da tanti anni mi capitava di pensare qualche volta (anzi, abbastanza spesso) alla storia della mia famiglia, dei miei antenati, a questi luoghi che erano stati permeati della loro presenza…

    La cena era stata magnifica nella sua semplicità; ora il dopocena è emozionale nella ricchezza di scambi tra queste persone che si sono appena conosciute, ma sono unite dal semplice trovarsi qua dentro, tra queste mura dalla cui materia sentono se pure in modo diverso – direi simmetrico – sgorgare frammenti di vite realmente vissute.

    Non mi risparmio, e racconto; mi sembra il minimo per ricambiare la loro ospitalità, che è qualcosa che va oltre la semplice accoglienza. In verità questa situazione è per me come un’opportunità datami per effettuare davvero, non solo mentalmente, un tuffo nel passato: in un passato profondo che avevo sempre scrutato come spinto da una curiosità che non era solo una prurigine, ma qualcosa di più determinato, direi di più definitivo; quasi un bisogno di comprendere meglio me stesso, conoscendo e capendo più a fondo il tratto di strada – tutto sommato abbastanza breve – di chi mi aveva preceduto, generandomi. In effetti penso pure che glie lo devo – a coloro che mi hanno preceduto e generato – questo impegno nella ricerca e nella comprensione del loro percorso esistenziale prima che io li incontrassi, li conoscessi, e anche li amassi.

    Sono io che adesso ho in mano il pallino; e non mi risparmio: parlo e parlo, mentre i miei ospiti assorbono le mie parole quasi in un religioso silenzio. Enrico e Giovanna ascoltano e a tratti annuiscono con cenni del capo, forse per farmi intendere che seguono il dipanarsi delle mie storie; o addirittura che approvano certe scelte dei miei avi che sono vissuti tra queste mura, almeno fino a quando le cose della vita li avevano convinti a lasciarle, per avventurarsi giù oltre la Pieve, verso le pianure, fino a raggiungere la città.

    Così, non lesino la storia del bisnonno Angelo, che era un amico di famiglia – non solo l’amministratore – dei Marchesi Albergotti (sì, quelli che un secolo prima avevano organizzato la resistenza contro Napoleone, cacciando le sue truppe dalla Toscana), ma che non ce l’aveva fatta a sconfiggere una polmonite e aveva lasciato sola in questa casa la moglie Assunta con due figlie e il maschio.

    E la storia di quell’unico maschio, che da ragazzo era il principino viziato cresciuto tra lo svolazzare di tutte quelle sottane, che adolescente accompagnava Assunta sul calesse trainato dalla cavalla pezzata a far visita ai mezzadri che curavano i poderi di famiglia giù verso il piano, e più su verso il monte dove allevavano anche le pecore dalla lana cangiante e dal latte grasso che nelle prime giornate d’autunno cagliava nelle pignatte, in attesa di trasformarsi in delicati pecorini che sarebbero stati per mesi a stagionare quassù nell’aria impareggiabile di Casavecchia.

    Quel ragazzo, Giovacchino: un ragazzo, se pure con il peso di un nome imponente. Un ragazzo che a volte sfuggiva ai controlli di Assunta, a lei che pure aveva promesso al marito che se n’era andato per colpa della polmonite di farlo crescere come avrebbe fatto lui, con la disciplina necessaria per farlo venir su dritto, capace di assumersi al momento opportuno la responsabilità di amministrare le cose di famiglia.

    Quel ragazzo, mio nonno, che invece preferiva spesso sfuggire ai controlli della madre-sergente, per scendere alla Pieve a giocare con i ragazzi più grandi e con gli adulti. Soprattutto al gioco della rulla, che consisteva nel far correre giù dalla discesa del Poggiolino grosse forme di formaggio pecorino: cercando di non perderla, la propria rulla, perché i grandi erano più allenati; o forse – anche se lui non capiva il come e il quanto – molto più furbi in quelle strane gare di velocità.

    «Incredibile; cose di questo genere si facevano a quei tempi? Ma quando era, quando è vissuto suo nonno?»

    È la ragazza. Era uscita poco fa dalla stanza, e non mi ero accorto che fosse già rientrata: me la immaginavo in camera sua col telefonino all’orecchio a cianciare con i suoi amici, quelli che stasera aveva lasciato troppo presto giù a Capolona.

    «Non tantissimo, ma… beh, neppure poco tempo fa» le rispondo: «qua parliamo di… cento-centoventi anni or sono; comunque ben prima della Grande Guerra, e ovviamente prima che il nonno si sposasse – giovane, molto giovane – con Maria anche se Assunta non era del tutto contenta…»

    «Assunta avrà accettato comunque per avere un aiuto nel gestirlo, quel… ragazzo di suo nonno» ribatte lei.

    Lo sguardo severo di Giovanna la blocca, mentre Enrico se la ride sotto i baffi. Ma la ragazza non rinuncia a un’altra battuta:

    «E dove l’aveva conosciuta quella ragazza, quella Maria? L’aveva vinta al gioco della rulla?»

    «Forse sì, forse in un certo senso l’hai azzeccata» rispondo, mentre Giovanna ora se la ride anche lei. «Sta di fatto che Maria, quella che ancora non sapeva che sarebbe diventata mia nonna, abitava alla Pieve: anzi, per l’esattezza, era cresciuta e viveva nella canonica; era addirittura la sorella del prete, e anche la nipote del curato precedente, che era il fratello del padre di Maria»

    «Accidenti, una vera dinastia! E di certo anche una bella confusione… . Ma i comunisti non erano ancora arrivati da quelle parti?»

    «No, non ancora» la accontento; ma subito voglio aggiungere che «sono arrivati qualche anno dopo; e hanno fatto disperare non poco mio nonno, che nel frattempo aveva ereditato onori e oneri da Assunta».

    Noto l’espressione allarmata di Enrico; ma ancor più quella di Giovanna. Ora non vorrei commettere qualche… gaffe politica; ma rischio:

    «Giovacchino non aveva in pratica idee politiche, a quel tempo; ma certi militanti socialisti arrivavano dalla città in quel periodo (subito dopo la fine della Grande Guerra), e… davano fuoco ai campi di grano pronti per la mietitura; così le idee politiche lui aveva cominciato a farsele, e la storia ci ha fatto sapere come andò a finire in generale, non solo ai Giovacchini, a causa di quelle idee».

    La ragazza sta facendo

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