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Sembrava la fine del mondo
Sembrava la fine del mondo
Sembrava la fine del mondo
E-book265 pagine3 ore

Sembrava la fine del mondo

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Info su questo ebook

Davide è un Commissario della Polizia di Stato e suo figlio Roberto è un ragazzino autistico.
Laura, invece, è un’infermiera e Paola, la sua stupenda bambina, è affetta dalla sindrome di Rett.
I due si conoscono e si innamorano ma ben presto il mondo apprende di avere sei mesi di vita perché un enorme asteroide minaccia di distruggere il pianeta.
Lo scoramento è generale. Il caos mondiale. Ma la notizia è falsa. Nasconde un complotto finalizzato a diffondere un coronavirus mortale così da piegare, controllare e decimare la popolazione terrestre.
Mentre tutto si sfalda, Roberto e Paola apprendono la verità e che i loro figli sanno come fermare l’armageddon. Ma chi crederebbe che proprio due bambini speciali sappiano come scongiurare l’olocausto?
Inizia per Davide e i suoi uomini una corsa contro il tempo per salvare l’umanità certi che alla fine … verrà un giorno più puro degli altri!
LinguaItaliano
Data di uscita27 apr 2020
ISBN9788867934577
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    Anteprima del libro

    Sembrava la fine del mondo - Daniele Catalano

    via…¹

    Parte prima: balenando in burrasca

    Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

    ove trovino pace.

    Io son come loro, in perpetuo volo.

    La vita la sfioro

    com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

    E come forse anch’essi amo la quiete,

    la gran quiete marina,

    ma il mio destino è vivere

    balenando in burrasca.

    Vincenzo Cardarelli - Gabbiani

    Con mille occhi

    Tu guardi le stelle, stella mia, ed io vorrei essere il cielo per guardare te con mille occhi.

    Platone

    La luce è accesa!

    Una volta non accadeva. Una volta Roberto si alzava senza farlo.

    Senza accendere la luce.

    E così gli capitava di sbattere sulle sedie o sui mobili.

    Di cadere.

    Di farsi male.

    Adesso lo fa…

    Accende l’abatjour e, solo dopo, si alza.

    Io lo sento.

    E quando lo sento mi sveglio. Immediatamente e senza far rumore. Perché se lo faccio, se faccio rumore o accendo a mia volta la luce, Roberto si farà prendere dall’ansia e si metterà a urlare.

    Così, ora sono io a muovermi nell’oscurità.

    Mi sento quasi un felino. Un leone o un ghepardo che, furtivo, spia, dai recessi della notte, la sua preda.

    Ma Roberto non è una preda.

    Roberto è la mia vita.

    Con un gesto meccanico sfioro il lato del letto che un tempo dividevo con Marisa.

    È vuoto.

    Lo è da più di un anno ...

    Marisa non era forte ed ha avuto paura. Ma io l’ho amata. Davvero tanto.

    Il suo sorriso, il suo cuore, la sua mente, il suo corpo… Quel corpo che ancora sento muoversi sinuoso su di me o sotto di me...

    Scuoto la testa. Mi alzo e aguzzo i sensi.

    Lo sento muoversi. Lentamente, con gesti studiati e con meccanica ritualità.

    È un ragazzino, ma quelle cose, le cose che fa ogni notte intorno a quest’ora, sembrano i gesti di un vecchio ormai al crepuscolo della vita.

    Apre il suo armadio, tira fuori il cappotto, lo indossa. Poi richiude l’armadio. Un mezzo giro, un breve clangore… Devo togliere di torno quel maledetto cestino di vimini!

    Ma Roberto non urla. Ormai anche quel rumore è parte della sua rassicurante normalità.

    Forse non lo toglierò.

    Ma sì! Lo lascerò lì!

    Poi apre il cassettone.

    Altro rumore. Rumore di libri sfogliati e di peluche che cadono per terra con un tonfo sordo. Ma lui li rimetterà dentro di nuovo e con lo stesso parossistico ordine.

    Dopo, però.

    Adesso prenderà il suo telescopio e lo piazzerà sul davanzale della finestra.

    Infatti la serranda dapprima cigola poi fischia.

    Dio, un giorno o l’altro la farò sostituire!

    O no…

    Se poi non dovesse più fare quel fracasso?

    E se questo dovesse innervosirlo, angosciarlo, farlo andare di matto?

    Un botto e comprendo che la vecchia serranda ha raggiunto il fine corsa.

    Sorrido sollevato! Ora mi sembra quasi di essere lì con lui. Di sentire la luce debole della mezzaluna calante colpire i miei occhi e farmi trasecolare abbagliato.

    Roberto posiziona il suo Bresser, trascina la sedia fin quasi a baciare la finestra, borbotta un lamento e poi più nulla. Adesso è con le sue stelle.

    E io …

    Io sono di nuovo in compagnia dei miei rimpianti.

    Passa del tempo: non molto o… beh, non so se è molto!

    Gli occhi si chiudono e si riaprono.

    Si chiudono di nuovo e, stavolta, si riaprono a fatica.

    Sento distintamente il mio respiro rauco e un accenno di russare.

    Finché …

    Lamenti e rumore di passi!

    Mio figlio si muove di nuovo mugolando come spazientito.

    Che stia avendo un altro dei suoi attacchi?

    Dio, non di nuovo!

    Vado per alzarmi ma m’immobilizzo perché, nel frattempo, ha preso a picchiettare al piano.

    Note alla rinfusa. Come quelle di un musicista che sta accordando il suo strumento.

    Sicché mi rassereno.

    Non l’ho detto ma Roberto suona.

    Oddio … suona è una parola grossa. Suona sempre la stessa nenia. Sempre il medesimo motivetto: la Gymnopédie di Erik Satie. Lo ha imparato al centro terapeutico.

    Prima amavo quel pezzo ma adesso mi causa solo ansia!

    Non a lui. A lui lo rasserena. Inizia e … ?!

    Non è quello?!!

    Il mio bambino sta suonando qualcosa di nuovo!

    Sento altre note. Tante per la verità e tutte iniziano con lo stesso semitono. Un si bemolle?

    Mi pare, ma non ne sono certo. Non conosco bene la musica. La ascolto e basta.

    Mi si piegano le gambe per l’emozione e rimango ad ascoltare, come incantato, suoni che sembrano vivi e … Dolenti!

    Note su note scorrono a comporre un puzzle che è una melodia. Una melodia davvero cupa e permeata di …

    Confusione?

    Tristezza?

    Due giorni dopo la tristezza è ancora dentro il mio cuore mentre la confusione si è dissolta come fumo.

    Questo finché non esco di casa.

    Chiudo la porta e faccio un paio di passi sul pianerottolo cercando di fare meno rumore possibile visto che sono le sei e mezza di mattina. Sto per scendere le scale che conducono al garage di sotto quando mi volto e la vedo: seduta sull’ultimo gradino della tromba di scale che conduce a casa sua c’è Sara.

    Mia sorella Valentina ha due stupende gemelle: Sara e Matilde.

    Le amo ambedue intensamente, ma Sara… Beh Sara è Sara.

    Lei è speciale anche perché speciale è il modo con il quale riesce a interagire con Roberto.

    Abitiamo tutti quanti in una villetta su due elevazioni, più una grande terrazza, alla periferia di Roma. Io al primo piano, mia sorella al secondo.

    I miei sono riusciti a comprarla a prezzo di immani sacrifici. E adesso abbiamo questo pezzetto di paradiso quasi in città.

    Quasi…

    Ah… C’è anche un piccolo giardinetto sul retro del garage.

    Vale lo coltiva con pazienza e amore e ogni tanto produce qualche ortaggio ammaccato o fiori dai colori sgargianti.

    Sara mi dedica uno dei suoi sorrisetti saputi, condito da tante lentiggini e poesia.

    Come mai già sveglia così di buonora? Sulle prime non l’avevo vista e difatti ho come un soprassalto che poi trasfigura in sole le cupe rughe che aveva iniziato a disseminare sul mio viso.

    Non riuscivo a dormire e poi ti dovevo parlare. Stai andando a prendere i cattivi, zietto?

    Ci provo.

    E vai in moto?

    C’è un gran brutto traffico a quest’ora!

    Devi stare attento con la moto mi fa lei seria mostrandomi il dito indice della sua mano sinistra come a volermi ammonire.

    Sì, mammina! Vado verso di lei per salutarla ma Sara non mi dà il tempo di farlo.

    Dobbiamo parlare di quello che è successo l’altro ieri, zietto!

    A cosa ti riferisci? Le siedo accanto. Un gradino più sotto per la verità e alquanto perplesso.

    Robbi… Lui mi ha detto una cosa!

    Io non so se sia del tutto vera questa cosa. O meglio, credo sia possibile che Roberto e le cuginette comunichino in qualche modo. Ma che parlino, nel senso di bla-bla-bla, non lo ritengo probabile.

    Ma la piccola lo dice con estrema convinzione ed è indubbio che, spesso, le sue dritte mi abbiano aiutato a rimodulare i miei interventi maldestri con Robbi.

    Cosa ti ha detto tuo cugino! Ho un leggero e impercettibile sospiro che Sara coglie prontamente.

    Se vuoi torno a casa e non te lo dico più, zio! La piccola socchiude gli occhi con stizza. Voleva mostrarsi offesa con quel suo vezzo ma mi strappa solo un sorriso di tenerezza.

    No, Saretta, voglio sentire. E le bacio la gota destra cercando il suo perdono.

    Missione compiuta! Infatti…

    Roberto mi ha detto che ha suonato!

    Sì, ieri l’altro. Una cosa nuova! Non so dove l’abbia imparata. Magari un qualche spartito su internet!

    "Non l’ha imparata su internet. È stata un’amica a imparargliela quella musica."

    Si dice: insegnargliela!

    Sì, vabbè… Comunque non è che cambia quello che ti volevo dire!

    E questa amica dove l’ha conosciuta? Al centro? Roberto frequenta un centro terapeutico che tratta il suo caso. Ma lei mi fa no con il capo e mi indica il cielo.

    Un altro fantasma!

    Non vi ho raccontato la storia del fantasma? No certo, non ce n’è stato ancora il tempo.

    Forse lo farò più avanti.

    Parlamene, Sara!

    Giura che non ti metterai a ridere poi!

    Croce sul cuore!

    Allora… Da dove comincio? Ah, per prima cosa l’amica di Roberto si chiama Laduz ed è una stella. Anzi, no. A dirla tutta, Laduz non lo è ancora. Ma presto le capiterà di diventarlo e, quando le succederà, perderà la memoria: tutto quello che era … Sparirà! Per questo Roberto ha suonato una musica triste!

    Rifletteva il lamento della sua amica immaginaria!

    Zio, non è immaginaria! Se non mi vuoi credere, non è che dobbiamo parlare per forza!

    Faccio un gesto con le dita come a voler chiudere la bocca con un’immaginaria lampo e lei, Sara, pare soddisfatta.

    Difatti prosegue nella narrazione.

    Laduz era triste perché ha passato la sua vita a vagare per il cosmo e a osservare. Roberto mi ha detto che lei… Aspetta che me la sono scritta questa frase perché è molto difficilissima… Cerca in tasca e trova un foglietto di carta.

    Lo legge: Ama guizzare tra i sentieri di inconsistente bellezza che le forze del caos disegnano tra le pieghe dell’universo.

    E questa cosa l’ha detta Roberto? Il cuore mi palpita. La bambina non avrebbe potuto scrivere una frase così complessa. Sara ha appena nove anni!

    Sì, zietto. Ma che vuol dire? Lui me lo ha spiegato e io non è che l’ho capito bene!

    Vuol dire che Laduz vive in un mondo fantastico e lo gira come… Come farebbe un surfista sul pelo dell’acqua!

    Con la tavola e sulle onde?

    Proprio così!

    Allora si diverte tanto. Ecco perché è triste a fare questa cosa!

    Di cosa parli?

    Laduz deve sposarsi con un tizio che si chiama Antamil! Antamil?!

    Così l’ha chiamato Roberto. Un parente di Laduz, uno molto vecchio e che si chiama Ikur, le ha detto che lui, questo Antamil, la vuole e che è una cosa bella. Laduz c’è rimasta male perché pensava che c’era altro tempo prima di diventare una stella. Il vecchio, invece, era felicissimo e per convincerla le ha detto una cosa difficilissima!

    E prende di nuovo lo stesso foglietto di prima. Se lo rigira tra le mani poi ha come un’illuminazione e legge.

    È bello disegnare parabole, non riuscire a concluderle ma trovare alla fine ugualmente la serenità. Il segno scorre, la mina passerà di mano, ma la traccia proseguirà in eterno.

    Quindi mi guarda perplessa come a chiedermi il significato di quella frase.

    È quel che siete voi figli per noi genitori. Le spiego. Siete il segno che abbiamo lasciato del nostro passaggio. Questo Ikur forse le voleva dire che sposarsi non è una brutta cosa.

    Perché quando un papà e una mamma si sposano, nascono i bambini?

    Non sempre, ma sì… In genere accade proprio questo!

    Solo che Laduz non è contenta di farlo. Di sposarsi, voglio dire, e Ikur non lo capisce. Forse perché lui è molto vecchio e voi vecchi non capite le cose di noi ragazzi!

    Frena, frena, signorina! Intanto tu non sei ancora una ragazza… Zio, ho nove anni! Sono grande, io! E mette le mani sui fianchi come a rimarcare il grave oltraggio subito.

    Dai, ti concedo che tra poco lo diventerai. Ma io non sono di certo un vecchio! E questa cosa la convince.

    "Forse qua hai ragione. Però lui, Ikur, è davvero vecchissimo. Roberto mi ha detto che una volta era una stella grandissima. Un tempo lontano, proprio poco dopo quella cosa che hanno detto al Mondo di quark…Quella lì, come si chiama… Il bingbing!"

    Il Big Bang vuoi dire?

    "Ed io che ho detto! Comunque dopo il BingBang questo signore, che però non era un signore, ha cominciato a brillare per tutti i sessanta angoli dell’universo. Poi è scoppiato… È diventato un supernuovo."

    Una supernova?

    "Sì, come dici tu! Comunque, dopo che è diventato una supercosa, ha adottato Laduz. Ora, siccome lui si è sposato un sacco di anni prima e le cose non sono più come ai suoi tempi, forse per quello non capisce che cosa ha Laduz!"

    Cosa vuoi dire?

    Mi riferisco al fatto che una volta era una cosa fantastica per voi grandi sposarvi, ma Laduz, che lei è giovane come me, ha tanti progetti e prova un sacco di emozioni. Alcune molto belle altre proprio bruttissimissime. Per quello non si vuole sposare! D’altronde a chi piacciono i matrimoni combinati! mi scappa di dire. E so che la piccola mi chiederà il significato della frase.

    Infatti!

    Due persone si sposano dopo essersi conosciute e innamorate. Quando sono altri a decidere per te e tu neppure lo conosci tuo marito o tua moglie i matrimoni si chiamano combinati.

    Non deve essere una bella cosa vivere per sempre con uno che manco conosci!

    Già! Forse per quello Laduz è triste. Ma anche qui sulla Terra ci sono posti in cui capita. E difatti comincio a pensare che questa Laduz sia un’amica di chat di Sara…

    E poi, zietto, c’è pure un altro fatto! La bambina si carezza la fronte come per cogliere un pensiero appena affiorato. Suo marito la costringerà a stare ferma per sempre. Mentre adesso è libera. E pure che Ikur le dice che sarà madre e darà la vita lei non sta meglio. È sempre tris…

    Ecco dov’era finita la mia diavoletta! Questa è mia sorella Valentina che ha appena aperto la porta scoprendoci a confabulare come due congiurati. Sbrigati che devi andare a scuola.

    Ora vado, mamma. Dovevo dire questa cosa allo zio.

    Anch’io devo andare al lavoro. Scuoto la testa sconsolato pensando che quei momenti di serenità, presto saranno un lontano ricordo. Una breve oasi fagocitata dalla sozzura del mio lavoro. Giusto, zietto. Allora poi ti dico come va a finire la storia. Sempre che ti interessa! E allarga le mani facendomi cogliere, per un attimo, la stupenda donna che un giorno diventerà.

    Non vedo l’ora di sapere il resto! E le schiocco un bacio. Quindi, rivolgendomi a Valentina, le ricordo: C’è da portare Roberto al Centro.

    Lo so. Non sono rincretinita. Io vado ma tocca a te recuperarlo. Non andare in moto, però. Sai che Roberto s’innervosisce.

    Finito il turno scappo in clinica. Chiaramente dopo aver cambiato mezzo di locomozione.

    Per strada non faccio altro che pensare a quel che mi dirà Boschi circa le nuove competenze musicali di Roberto: Valentina sicuramente gli avrà accennato la storia.

    Purtroppo non ho notato niente di nuovo! Mi dice quello senza neppure darmi modo di parlare. Il dottore mi guarda mortificato, ma io oramai sono abituato a quella risposta.

    È da più di undici anni che me la sbattono in faccia.

    Suo figlio ha la sindrome di Kanner ci dissero allora. Io che avevo letto qualche libro risposi a quel neurologo a muso duro: non è un po’ prematura questa diagnosi?

    Ero certo di avere ragione.

    Roberto non aveva ancora tre anni. Ma anche il dottore era certo.

    Infatti Roberto aveva davvero la sindrome di Kanner.

    Ancora adesso preferisco chiamarla così!

    Mi sembra meno devastante, meno definitiva come definizione, una sorta di orticaria o esantema. Una specie di dermatite. Uno di quei disturbi che hanno i ragazzini che passano tutto il tempo a farsi le seghe e a sbavare davanti a un paio di tette.

    Roberto, però, non lo fa.

    Lui ha la sindrome di Kanner e quella non ti fa sbavare davanti a nulla. Neppure dinnanzi a una gran figa con le gambe aperte e pronta ad accoglierti nella sua origine del mondo. Perché la sindrome di Kanner provoca questo e poche altre cose.

    Un milione di piccole altre cose.

    Mio figlio non parla. Al massimo ripete meccanicamente qualche parola.

    Mio figlio si muove troppo ma in modo disordinato.

    Non mi tocca. Se lo fa, lo fa per usare la mia mano per prendere qualcosa.

    Quando lo chiamo non viene come fanno i figli degli altri. Oppure… Quanto vorrei lo facesse… non mi manda al diavolo dalla sua stanza.

    Non mi abbraccia, non mi sorride, non s’incazza.

    Non fa tutte le cose che fanno gli altri ragazzini.

    Perché ha la sindrome di Kanner.

    Oppure l’autismo. Che detta così fa male.

    E, infatti, non lo dico mai! Però non cambia il fatto che Roberto sia diverso dagli altri adolescenti. Diverso da tutta una vita…

    Il giorno in cui ce lo dissero, quando appresi della sua malattia oppure accettai la realtà, rammento che il ciliegio di casa perdeva i suoi petali. I suoi piccoli fiori, bianchi e screziati di rosso quasi fossero un lenzuolo di morbido raso, agghindavano il selciato e la panchina del giardino di casa. E questo mi pervase di una gentile malinconia.

    Rammento persino mia moglie... Ah, allora avevo ancora una moglie.

    La povera donna era incerta. Ferma sul ciglio di quella mattina di marzo oltre la quale temeva di cogliere i contorni che avrebbe avuto poi la sua vita.

    Io no. Io, contrariamente a lei, ero fiducioso.

    È un mio difetto.

    Anzi no!

    ERA un mio difetto. Ora non lo è più.

    Quando i medici ci fecero entrare nel loro studio erano così sorridenti che mi parve quasi di scorgere i loro incisivi.

    Vi giuro: brillavano come quelli dei lupi quando si apprestano ad azzannarti. I due aprirono una sottile carpetta, la consultarono ripetutamente con fare ieratico. Buffamente sprofondati in quella lettura come se non la comprendessero del tutto.

    E forse in parte era davvero così.

    Ci sbirciarono di sottecchi più e più volte… sapete come fanno, alzano e abbassano la testa fintamente partecipi, cercando di studiare anche il più piccolo e impercettibile movimento… finché, ad un certo punto, uno dei due ci lanciò una pietosa smorfia. Quasi a dirci che sapeva. Che poteva capire. Che poteva anche comprendere.

    Attesero qualche secondo. Fecero un paio di mezzi sospiri. Finché cessò ogni indugio.

    E parlarono…

    Quando ti devono pugnalare al

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