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Sindromi
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E-book511 pagine7 ore

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Info su questo ebook

Una poliziotta sanguinaria è rinchiusa in un centro psichiatrico. Sola nel modulo di contenzione-controllo parla ininterrottamente. Da dietro un falso specchio uno degli psichiatri incaricati di monitorarla le presta viva attenzione, in deroga alla prassi ospedaliera che, rubricatala come delirante, impone di sedarla e disinteressarsene. Lo psichiatra capisce che la poliziotta, (la tenente colonnello Vasquez Matamòros, 48 anni) sta parlando a una ragazza: quella ragazza è la poliziotta stessa, così com’era all’età di 23 anni (Rosita Vasquez). La poliziotta-paziente ripercorre nella narrazione in seconda persona quella fase della sua vita che ella considera causa determinante del suo destino e del suo attuale, grave, stato psicopatologico. La storia (il corpo del romanzo) inizia quando il padre (il Maggiore Mezzafaccia) invita Rosita Vasquez a lasciare temporaneamente l’università e a tornare in famiglia per quella che dovrebbe essere una breve permanenza. La ragazza accetta: ma giunta nella casa dei genitori vive una sequenza di esperienze terribili e destabilizzanti. Ha i suoi primi atroci contatti con la malattia, l’invecchiamento, l’etilismo, la demenza, la morte. Il culmine del malessere è la convivenza forzata con la madre: dapprima nevrotica e alcolista e poi preda del morbo di Alzheimer.
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2014
ISBN9788868857738
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    Anteprima del libro

    Sindromi - Mauro Giacomozzi

    MAURO GIACOMOZZI – SINDROMI – In copertina: Clerici Vagantes, grafica mamo100 su bozzetto di Hieronymus Bosch: La Nef des fous.

    PARTE PRIMA

    UNO

    È la fine di ottobre, è il tuo compleanno e hai sonno. In questa storia tu hai sempre sonno.

    È il giorno 117 dalla Chiamata. Forse è un giovedì: ma non significa niente.

    Sei a Bologna, quartiere Barca. In un appartamento di lusso al terzo piano di un lussuoso condominio. Doppiservizi, tricamera, cucina non abitabile ma terrazzinata. Il soggiorno – o meglio: il salone: l’Irma ci teneva tanto! – è doppio. Dà su una terrazzona doppia. L'appartamento è protetto da tanto di porta blindata. Ne hai in tasca le chiavi, ma uscire di lì non puoi.

    La pendola batte le tredici. Hai appena sparecchiato il tavolo, il tavolo dio lo maledica rotondo.

    Siedi dondolandoti sulle gambe posteriori della sedia, con  i talloni degli anfibi neri appoggiati al tavolo. Niente venerabili Doc Martens: i solidi nostrani anfibi della Polizia di Stato, equipaggiati con doppia chiusura: stringhe e cerniera.

    Nella «V» formata dalle due calzature lucide – le punte paffute come krapfen – inquadri, seduta dall'altra parte del tavolo, Golem.

    Golem è avvenente, oggi.

    Indossa il suo casco HGU-33/G bivisiera (fumè e bianca) per piloti di Tornado. La maschera per l'ossigeno, la MBU-12/P di silicone grigio, sbaffata di minestra di semolino, le penzola sul mento. Uno dei due attacchi a baionetta è disinnestato per lasciarle libera la bocca e consentirle di grufolare, nel piatto di alluminio, un poco del cibo non destinato a divenire un proietto diretto in faccia a te – hallelujah! – all’arazzo, al pavimento, ai muri, a salamadònna.

    Il casco HGU-33/G non è quello che fu dotazione del Maggiore: quello dovette restituirlo all'Aeronautica Militare Italiana dopo il suo congedo anticipato. Come dire che nemmeno il suo proprio casco da combattimento gli lasciarono tenere, a lui non valse a niente il sangue nei capelli; e s’acconciò ad acquistare o s’ebbe in regalo da qualcuno, non sai, questo qui. Questo HGU-33/G: che è di taglia troppo grande per Golem. Le si regge in capo solo perché v’è trattenuto dalla struttura radiale di nastro adesivo per pacchi che tu appiccichi alla calotta e le àncori sulle spalle: a tutte le albe. A sera le sfili il casco perché con quel robo in testa Golem non solo non dorme, ma si lamenta di continuo, penoso minuto per minuto penoso, tutta notte.

    Con il macrocefalico casco sul capo e l'ancoraggio multiplo di nastro adesivo che le scende alle spalle, Golem sembra l’ibrido d’un polipo.

    Sotto il casco, ove fa spessore, il berretto militare di lana verde è scivolato in avanti e arriva quasi a coprirle gli occhi. Il casco HGU-33/G e il berretto, necessari all’incolumità di Golem, celano, vanificandolo, il tuo lavoro grafico di body art. Ogni mattina ti munisci di rossetto – le  scorte di Golem sono terminate da molto tempo, e acquisti tu stessa il cosmetico, sempre della stessa marca e tonalità – scrivi sulla sua fronte in stampatello il suo nome al contrario: scrivi: «AMRI». Speri che, guardandosi nello specchio del bagno mentre l’accudisci, Golem legga quella parola impossibile e speri che, leggendola, riconosca se stessa. Oppure speri che, leggendola, Golem se ne scompaia puf. O magari speri che, leggendola, Golem si riconverta d’incanto nell’Irma «di prima». Tu speri, scema. Speranza vana. Il controsortilegio non funziona così. Golem è lì, AMRI è lì, ma l’Irma se n'è andata da tempo: e non sa tornare.

    L’Irma: tua madre.

    DUE

    Dietro lo specchio 1/18

    «Questa donna disorientata. Da quante ore blatera così?»

    Il professor Arrigo Mutander, primario del Centro Psichiatrico «Stultifera Navis», picchietta due volte sul vetro antisfondamento del modulo Ono-Sendai.

    «Da quando è arrivata qui, professor Mutander.»

    Mutander l'emerito è un omone alto e nero: nera la barba assira ridondante, vocione definitivo ma cordiale.

    «No, dottor Merisi: ti sbagli. Quando è arrivata al Pronto Soccorso si trovava in stato catatonico. Io stesso l’ho fatta trasferire qui nel modulo, perchè i tuoi colleghi di guardia l'avevano fatta allettare in reparto. In reparto! A portata degli altri degenti! Una signora così pericolosa!»

    «Lei, professore, si è reso conto della pericolosità del soggetto benchè esso fosse in stato catatonico?»

    «Con il novanta per cento di certezza, caro Merisi: grazie alla mia diagnostica predittivo-quantistica, la fulminante. Imparerai.»

    Il telefono di Mutander rumoreggia, lui estrae, sobbalza, rincula e si gira verso la porta alta.

    «Nuove info!» spiattella da sopra la spalla.

    Exit Mutander.

    Il dottor Michelangelo Merisi propina un’espressione insoddisfatta e interrogativa alla silenziosa Rita, infermiera-capo e sociopatologa, che fa spallucce e non abbocca. Poi si protende sul quadro di comando e attiva l’amplificazione audio del modulo Ono-Sendai «di costrizione e controllo a tutela del malato da se stesso e dal mondo.»

    Un ininterrotto flusso di parole invade la sala controllori, e attribuisce un’impressione di significato al’ondivago movimento di labbra della paziente rinchiusa oltre il falso specchio.

    Ma è impressione di senso è fugace.

    TRE

    Golem scalpita da seduta. Ne segui l'agitazione psicomotoria divaricando appena le punte degli anfibi per non perdere l’aggancio visivo. Intanto ti netti pleonasticamente le unghie, corte e sagomate e pulite, con la punta del tuo tattico da guerriglia urbana.  Finalmente Golem abbandona la sedia, rovesciandola come di prassi, e si rizza in piedi appoggiandosi al tavolo dio lo maledica rotondo. Laboriosamente, faticosamente. Sembra che faccia forza sugli arti sbagliati. E sì che ne ha solo quattro. Ti pare. Quattro: giusto? Quattro arti, sì.

    Trascorrono minuti: forse. La testa ti ciondola dal sonno. Hai sempre sonno, in questa storia. Golem si dondola in piedi dall'altra parte del tavolo dio lo maledica rotondo.

    Da dietro al mega-mirino composto dai tuoi anfibi sai perfettamente che cosa farà di lì a poco. Ciò che fa tutti i giorni a quell'ora.

    Infatti. Si muove. Dapprima si limita a girare su se stessa, con una macchinosa sequenza di sette, otto scatti isolati. Si ritrova di fronte alla portafinestra della terrazza che dà su via Giovanni Gioacchino Belli. È palesemente attratta dal colore assurdo, un rosso impossibile, di quanto rimane dei suoi pelargònii  OGM a fioritura perenne: schierati in fila sui portafiori di metallo agganciati alla ringhiera.

    Prego annotare, tu scema alla quale parlo, che per quanto rosso impossibile, il rosso dei pelargònii  OGM che furono dell’Irma è ancora un colore di questo mondo: non è ancora un colore metafisico: non s’è ancora transustanziato in «ross/sso».

    Ah. Vedo che ti fa un certo effetto come dire psicogastrico, questa parolina. E allora ascoltami, stronza: «Ross/sso», ti dico. Già. «Ross/sso». Sai a cosa mi riferisco.

    Intanto Golem tenta la maniglia della portafinestra, applicandovi tutta l'insospettabile forza di cui dispone: sì da farne vibrare i vetri. Tu recrimini con fastidio di esserti prefissa di sostituirli, quei vetri: con altre trasparenze, ma di quelle rinforzate da retìna metallica interna. È lungo tempo che rimandi questo operazione e a causa di tale procrastinare ti senti una merda. Comunque, la porta della terrazza ovviamente non s’apre. Non solo perché è chiusa a chiave e la chiave l'hai fatta sparire; ma più che altro perché hai assicurato entrambe le ante al telaio infisso, servendoti di tre viti ad anello, avvitate belle fonde due di qua una di là; e d’una catena e d’un lucchetto.

    Dopo parecchi scossoni alla porta a vetri, e altrettante testate ai vetri stessi – vero, indossa l'HGU-33/G; ma devi ugualmente deciderti a sostituire i vetri, sono troppo pericolosi – Golem rinuncia e si volge e come presa da subitanea ispirazione punta, e poi si dirige verso, l'angolo opposto del salone doppio.

    I suoi spostamenti fanno tintinnare le campanelle che porta, legate con nastro lucido rosso – «rosso», scema: non è ancora diventato «ross/sso» – alle caviglie: tre campanelle cadauna caviglia. Campanelle natalizie, ben costrutte, ben forgiate, che il Maggiore recò alla famiglia dalla Finlandia, da Rovaniemi, dalla casa di Babbo Natale. Il tinnìo delle quali t’è suono confortante, come d’ecogoniometro che ti sveli la posizione di Golem nella casa: acusticamente, quando essa sia fuori dal tuo orizzonte ottico.

    Golem attraversa la stanza con il torace inclinato di 30 gradi rispetto alla verticale delle gambe lunghe. Si muove lentamente. Un po' perché la diciamo «malattia» – parola inadeguata; ma tu, scema mia, lo sai bene cosa intendo – non  risparmia nemmeno un centimetro di vena, un millimetro di articolazione, una goccia di sangue; un po' perché calza le speciali pantofole semiaderenti che tu le costruisci e che tu le imponi al fine di impedirle di scivolare ogni momento. Assembli le appicciabatte usando calzettoni di lana grossa, cartone, e naturalmente nastro adesivo per pacchi – le suole le fai con il lato adesivo del nastro. Nelle prime ore d'impiego le suole appiccicose appiccicano troppo e Golem qualche disagio d’ambulazione lo subisce: ma dopo qualche ora, una volta degenerata l’efficienza del collante, si rivelano fantastiche garanti di sicurezza.

    Per dirla tutta qua, Golem indossa altresì protezioni da skateboard ai gomiti, verde mela, e alle ginocchia, nere e fucsia.  Attorno alla vita porta il suo personale air bag: un salvagente di plastica, per bambini, bello gonfio turgido, rosso pompiere e giallo acido. Dietro, su su lungo la spina dorsale di Golem, sale un collo d'anatra pneumatica con testa e becco. Il becco, chissà perché, è giallo. Le anatre non hanno il becco giallo: quelli sono i merli. O le merle? O anche le anatre?

    QUATTRO

    Dietro lo specchio 2/18

    La «sala controllo modulo» del Centro Psichiatrico «Stultifera Navis», è uno spazio rettangolare di quattro metri per due, moquettato bordò anche sul soffitto. Una delle pareti lunghe è occupata quasi per intero dal triplo vetro blindato antiacustico: dall’interno del modulo il malato che è sotto controllo lo vede come specchio. Sui lati corti della «sala controllo modulo» s’aprono due porte. La porta «bassa», a sinistra di chi guardi il vetro è una lastra metallica pitturata bordò e dà sull’affollamento graveolente delle corsie – la stiva della Stultifera Navis. La porta «alta», rivestita di pelle bordò imbottita e trapuntata, conduce all’empìreo, alla direzione, alla sala del trono ed è apribile solo dall’esterno. Il quadro di comando del monitoraggio paziente, le poltroncine per i controllori, gli schermi di computer, le piramidi di faldoni gonfi riducono l’agibilità di quello spazio angusto in misura tale che il termine pomposo «sala di controllo modulo Ono-Sendai» è diventata, nel gergo degli operatori, lo «sgabuzzino»: e qualche sbarazzino audace non si pèrita di denominarlo «Sgabuzzino Cocò». L’acromimo «Cocò» è balzato fuori, da solo, dalle sillabe iniziali di «coazione» e «controllo». Talvolta è salutare, sdrammatizzare. Quando l’esigenza di sdrammatizzazione si fa pressante, la sala controllo modulo arriva a divenire lo «Sgabuzzino Cocò Chanel».

    «Io vado, Michelangelo» annuncia Rita spegnendo l’amplificazione. «Faccio il giro degli altri moduli. Ci vediamo più tardi. Quando Mutander torna qui, chiamami.»

    Michelangelo annuisce. Forse non l’ha ascoltata, concentrato su ciò che sta al di là del triplo vetro.

    CINQUE

    Il percorso davanti a Golem è sgombro. Niente tappeti. Non ci sono più mobili nel salone doppio, a parte il tavolo dio lo maledica rotondo e le due sedie. Un divano rosa scuro è stato motosegato in due, e i tronconi si sovrappongono l'un l'altro, legati da parecchie spire di cosa? Di nastro adesivo per pacchi.

    Detriti, calcinacci, frammenti di mattoni forati sono ammucchiati negli angoli. Li bagni d’acqua frequentemente, usando l’annaffiatoio che già servì la terrazza, affinchè, qualora urtati, non abbiano a rilasciare eccesso di polvere.

    Dal soffitto pendono, debitamente isolati con nastro adesivo per pacchi, spezzoni di filo elettrico. Là dove erano stati appesi i cazzuti lampadari di Murano, poi distrutti da Golem-Conan, penzola nuda una lampada da 80 Watt.

    Golem, precisa come una bomba intelligente, raggiunge l'angolo lontano del salone doppio. Si arresta come tutti i giorni davanti all'orribile mobile angolare finto antico con specchio  sovrastato da stalattiti lignee; e lì sosta. Il suo disagio viene tradito da fremiti delle spalle,  da spasmi muscolari; essi si trasmettono al collo dell'anatra-salvagente che ballonzola e annuisce beffarda. Golem, come tutti i giorni, a quel punto è completamente disorientata. Persa. Si è dimenticata cos’è andata a fare lì. Se n'è dimenticata da tempo.

    Il mobile angolare un tempo serviva da mobile bar. Golem ne ha dimenticato la funzione un mesetto fa, esattamente il 23 settembre, il giorno in cui è tornata a casa dall'ospedale, dopo la caduta conseguente alla scivolata sul tappeto. Allora tappeti giacevano sul pavimento del salone dio lo maledica doppio; qualcuno di essi, bizzarramente, era anche d’ottima fattura e di provenienza certificata. L'incidente – tipico della casalinghitudine – avrebbe dovuto spaccarle un femore o una spalla o l'anca e invece non aveva spaccato proprio niente. Se non le palle a te.

    Dal giorno di quel suo ritorno a casa, dopo i tre giorni ospedalieri di ricovero e controlli, ogni pomeriggio Golem celebra il medesimo rito: l’attraversamento del salone, il parcheggio davanti al mobile angolare tipo stazione d’una via crucis, e perplessità.

    Che ci faccio io qui? Cosa ci sono venuta a fare?

    Tu pensi che questi siano i pensieri di Golem. Ma pensi anche al tempo stesso che Golem non pensi alcun pensiero. Semmai è il suo corpo che pseudopensa, che dubita fisicamente, che esita.

    Golem esita poiché Golem ha dimenticato qualcosa. E ciò che ha dimenticato non è un’inezia. Ciò che ha dimenticato le fu ragione di vita fino al 23 settembre.

    SEI

    Dietro lo specchio 3/18

    Solo nello Sgabuzzino Cocò, in piedi davanti al triplo vetro, le mani incrociate dietro la schiena, il dottor Michelangelo Merisi guarda attento al di là dello specchio. Nel modulo bianco abbacinante il soggetto 4-7-1, la signora di piccole virtù, appare piccola e fragile: gli occhi chiari, forse verdi, sotto i capelli neri cortissimi confortano tale prima impressione. La paziente è atteggiata come nuotatrice sul blocco di partenza, pronta al tuffo. In una generale tensione muscolare tiene il sedere appena sollevato dal seggiolino imbottito – inchiavardato all'imbottito pavimento – e si protende sull'imbottito tavolino rotondo – al pavimento imbottito inchiavardato. Né le braccia la puntellano, giacchè con le braccia gesticola. Un camice bianco fornito dal Centro Psichiatrico le arriva alle ginocchia, un modellino sobrio che anche da remoto può essere trasformato istantaneamente in mezzo di contenzione immobilizzante.

    Michelangelo indaga di sguardi il soggetto.

    Il soggetto parla.

    E parla.

    Senza che a Michelangelo giunga un suono, il soggetto parla atteggiando il volto a un repertorio di smorfie; poi di colpo parla rabbiosa e rabbiosa urla: allora un raptus le inchioda il collo, con effetti congestionanti ben visibili. Poi il tessuto della faccia metamorfosa in gomma e la 4-7-1 parla chilometrica e inespressiva e senza pause come se ripetesse a memoria un manuale, come recitasse in automatico un Confiteor.

    Parla.

    Michelangelo aziona l’amplificazione audio del modulo e una sequenza di suoni-parole riempie lo Sgabuzzino Cocò. Non è certo d’individuare un senso nell’eloquio ma certamente il ritmo di esso lo seduce. E s’incanta: tanto da perdere il contatto visivo con la 4-7-1; e quando il cicalino della porta bassa lo riscuote, si sorprende a studiare sul vetro la propria immagine riflessa. Allungando una mano a premere l’apriporta e a spegnere l’amplificazione del modulo si congeda dal suo viso innegabilmente caravaggesco.

    SETTE

    Il 23 settembre del 1993 Golem ha definitivamente dimenticato di essere «una che beve». Ha dimenticato, dopo decenni d’assunzioni, la sua grappa, il suo grappino, i suoi cinquanta centilitri quotidiani di grappa di ramàndolo. E ciò è tragico. Poichè è ben vero che a chiunque può accadere di dimenticare qualcosa, minchiate, ad esempio di vivere; ma un’etilista, eppoi perché mai avere paura delle parole? un’alcolizzata non può dimenticarsi la sua droga. Eppure a Golem è capitato. Nel suo cervello si è installato un verme – verme nel senso di stringa di info – più verme dell'alcol. Il giorno in cui il verme cerebrale ha cancellato da Golem l’abitudine di bere, è iniziata, ma tu non lo sai ancora, la sua fine. E con la sua fine è iniziato il tuo disfacimento.

    Di questo intendo cronacarti adesso. È discorso fastidioso, ma te lo sei voluto: e dunque adesso m’ascolterai. Ti narrerò di come e qualmente e per quali vie orribili e segrete; e sbavando in quali recessi non reali della realtà tua madre, la tua mamma, la mamma, la signora Irma Vasquez diviene ciò che è oggi e che sarà in eterno: Golem, un costrutto di rappreso liquame cerebrale umanoide.

    Fino al 23 settembre ogni dopopranzo Golem s'impegna nella duplice traversata – consapevole e decisa – del salone doppio. Dalla sua postazione al tavolo dio lo maledica rotondo punta al mobile bar, allocato nell'angolo opposto della stanza; ne apre un’anta, ne fruga le viscere, ne estrae un bottino. Poi va alla sua sedia accanto alla portafinestra, e posa sul pavimento una bottiglia e un bicchierino brutto, sul marrone: e stortignaccolo.

    Prima del 23 settembre – è il tempo in cui la portafinestra della terrazza è sempre aperta – tu mai vedi Golem riempire il bicchierino. Mai la vedi compiere l'azione di bere. Pure, a sera la bottiglia è riposta vuota nel mobile bar, e tu di lì la togli e in cucina la lasci cadere nella pattumiera indifferenziata, sopra al puteolente contenuto di innumeri portacenere, dello svuotamento dei quali s’occupa Golem.

    Prima ancora di quel tempo, c'è un tempo in cui Golem assume la sua grappa di ramàndolo di nascosto.

    Di nascosto da te e dal Maggiore.

    Il Maggiore è tuo padre.

    È lui che effettua la Chiamata, il 3 luglio. Centodiciassette giorni fa.

    Oggi il Maggiore non telefona più a nessuno.

    È morto: dovresti saperlo.

    L’hai ucciso tu.

    OTTO

    Dietro lo specchio 4/18

    Rita entra nello Sgabuzzino Cocò dalla porta bassa: nello stesso istante Mutander irrompe dalla porta alta.

    «Rieccomi» s’annuncia. Accenna al vetro con il dito dell’autostop.

    «Avete qualche ipotesi sulla 4-7-1? Che età ha?»

    «Direi che è sulla cinquantina, professore» azzarda Michelangelo.

    «Questo dato è approssimativamente esatto. Bene, dottor Merisi. Che altro?»

    Michelangelo guarda Rita che guarda Mutander. Nel silenzio.

    «Fai bene a tacere, Michelangelo. Sarebbe azzardato che tu ipotizzassi alcunchè fino a quando non sarai padrone delle diagnosi ex-ante, le diagnosi predittivo-quantistiche – le fulminanti. Di un paziente possiamo sapere o dove è oppure con che velocità s’aggrava. Non è dato conoscere entrambi i dati.»

    «Sono qui appunto per imparare la diagnostica quantistica da lei, professore.»

    «Bene. Allora ammettiamo che sia sui cinquanta. Per la precisione la signora ha 48 anni ed è un ufficiale di Polizia. Presta servizio presso la Questura Centrale di Milano con il rango di vice-questore aggiunto, equivalente a quello di tenente-colonnello. Risponde al nome di Vasquez. Sic.»

    «E lei, professore, come ha ricostruito queste info? La diagnosi predittiva-quantistica funziona anche nel campo professionale e anagrafico?»

    Rita lo guarda allarmata.

    Mutander s’accarezza la barba assira.

    «Forse ho ricevuto una telefonata. Bene. Il modulo opera a pieno regime?»

    «Certo che sì, professore: memorizza ogni dettaglio e invia i dati vitali al computer in completo e costante flusso.»

    Mutander picchietta nuovamente sul falso specchio antisfondamento con il dito medio nocchiuto.

    Al di là la donna disorientata, il soggetto, la 4-7-1, non dà segno di avere avvertito alcunchè. Ovviamente.

    Exit Mutander.

    La signora Vasquez parla.

    E parla.

    NOVE

    È il tre di luglio del 1993.  Quando ricevi la Chiamata. Il tre di luglio, te lo ricordi bene. Di mattina, abbastanza presto. Sei a Padova per l’università. Nella soffitta riattata a mansarda che condividi con un ragazzo e una ragazza non c'è telefono. Il telefono è al pianterreno, nell'abitazione della vecchiaccia proprietaria dello stabile: che sale tre rampe di scale per avvisarti, rantolante scoglionatissima, che tuo padre richiamerà di lì a cinque minuti. Ringrazi senza smancerie.

    Sono mesi che non vi sentite, tu e il Maggiore. Il numero telefonico della vecchia lui ce l'ha per forza, considerato che paga lui l'affitto. Paga anche per gli altri due pirla con i quali condividi l’alloggio.

    Una telefonata del Maggiore.

    La strategia di comunicazione del Maggiore consiste nell'adozione alternativa di una delle due espressioni facciali che gli riescono. L’espressione normale – espressione d'ordinanza – è riservata alle «minchiate». Quasi tutto è una minchiata: che facoltà universitaria scegli, se sei incinto o incinta, se cambi casa e città, se il moroso tuo tenta di impiccarsi ma sopravvive e rimane paralizzato e si caca addosso con cadenza oraria: insomma le minchiate sono i normali ostacoli, di minimo conto, che sono sparsi a caso su un percorso di vita che è poco più di un addestramento.

    In alternativa il Maggiore dispone dell'espressione facciale che tu definisci «espressione da combattimento». Essa è riservata alle «emergenze»: termine che va preso con molta molta serietà. Nel lessico famigliare la presenza di un'emergenza significa azione: significa che per te c'è qualcosa da fare, immediatamente e perfettamente – cioè secondo le istruzioni superiori; e non ci sono alternative.

    Il più delle volte il Maggiore vede le vicende della sua, della vostra, della tua vita sub specie di minchiate:  caratterizzate da tale irrilevanza le tue scelte non meritano sue interferenze. Sto dicendo che tuo padre non ti ha mai rotto.

    Scendi i gradini di pietra d’Istria allisciata e trasudante fino alla stamberga della vecchia. Attendi in piedi la telefonata. Risponde la vecchia. Ti passa la cornetta.

    Dopo essersi informato sul tuo stato di salute, il Maggiore dice: «Ti chiederei di venir giù domani. Abbiamo bisogno di una mano». Tutto qui, il succo del messaggio telefonico. Tutta qui, la maledetta mistica Chiamata. Poiché non sei nuova alla laconicità del Maggiore, null'altro ti serve sapere: ti congedi da lui riagganciando e già preparandoti mentalmente alla trasferta a Bologna.

    Per tutto il resto della giornata e per buona parte della notte ti dissimuli un'inquietudine senza un nome, la cui origine ignori, o forse no.

    DIECI

    Dietro lo specchio 5/18

    «Caspita», sbotta Margherita appena Mutander è sparito dietro la porta alta.

    «Perché dici?»

    «Perché abbiamo qui una paziente eccezionale, no? Hai sentito il capo Mutander. Quella è Vasquez!».

    «E che mi viene a significare?»

    «Se tu considerassi anche il mondo di fuori, oltre che le tue manie, sapresti che questa signora è speciale e discussa».

    «Perché dici?»

    «Perché stiamo parlando della Vasquez poliziotta cui sono state ufficiosamente attribuite, tra l’altro, la strage di Gorgonzola e le bombe di Lione. Una trentina di morti ammazzati in circostanze non chiarissime.»

    «Dimmi di più.»

    «Pulotta efficacissima. Nei casi sporchi è ubiqua e in tutti gli affari sanguinolenti c’è il suo zampino. È in perpetuo odore di abuso di autorità: Vasquez uguale Callaghan. I suoi successi criminal-professionali sono piuttosto discussi. Qualche giornale e qualche TV insinuano dubbi sulla sua sanità mentale, accusandola di eccessi di violenza e di arbitrio. Rimane però un superpoliziotto e certamente è assai utile alla Polizia. Allo Stato, insomma.»

    «Dici che nel modulo abbiamo quella Vasquez? Vasquez Matamòros? Non dirmi!»

    «Te lo sto dicendo.»

    «E come mai la superfemmina è arrivata qui allo "Stultifera Navis"

    «Lo ignoro. Forse ce lo dirà lei.»

    Al di là dello specchio la  4-7-1, il soggetto, la donna di piccole virtù, la tenente colonnello Vasquez Matamòros parla.

    E parla.

    UNDICI

    Il giorno dopo, sul treno da Padova a Bologna ti tocca indagare le cause dell'inquietudine che persiste. Volentieri prenderesti le mosse dai massimi sistemi, o dall'avvenire dell'universo; quel poco che ti riesce è di congetturare te stessa.

    Hai la tua vita. Sei del tutto autonoma, eccetto che sotto il profilo economico-finanziario, da poco più di due anni. Due anni su ventitre. Nascete a Napoli il 28 ottobre 1970. Siete: tu e la tua sorella gemella. La tua gemella ha nome Alicia. Lo trovi un nome orribile – trovi orribile lei. Comunque, quanto a nome, Alicia è messa meglio di te, che un nome o non ce l'hai, oppure è un nome inverosimile. Causa: ignavia dell'impiegato dell'anagrafe. Subito dopo il tuo battesimo i tuoi controllano gli estratti in loro possesso del registro dello stato civile. Il documento di Alicia è perfetto. Nel tuo, sopra il rigo che dovrebbe ospitare il tuo nome – il nome che  loro hanno accuratamente ponderato e che certamente hanno bene scandito all’operaio anagrafico idiota, nome di merda che loro e tutti gli altri informati dei fatti useranno su di te e contro di te per tutta la vita – sopra quel rigo non  c'è scritto proprio niente. Chiedono d’adire l'impiegato omittente. È in permesso: attendono che rientri. Rientra. Viene aggredito. Dall’Irma, chiaro. Confuso, il mattacchione è costretto a esibire il registro originale: s’è avveduto eccome del proprio errore; ma il suo cerebello ha creduto di poter rimediare – genio  e semplicità! – clonando, al posto del nome, il cognome.

    Cognome: Vasquez. Nome: «Ecché maronna! Nome: Vasquez, no?».

    Effettuare cambiamenti sul registro? Fuoco! Turchi! Terremoto! Nemmeno parlarne: per l'impiegato comunale sarebbe come ammettere di essere una vecchia scorreggia. I tuoi genitori – così ti racconteranno – non infieriscono: questo l’hai sempre trovato bizzarro, perché infierire è sempre stato uno degli sport preferiti dall’Irma. E così tu ufficialmente ti chiami Vasquez Vasquez. Ufficiosamente invece ti tocca il nome scelto dai tuoi: un nome nel quale non ti riconosci. Tuttavia trasformi tale avversità in una figata, perché l’incongruità dell’abbinata «Vasquez Vasquez» t’autorizzerà a inventarti un nome diverso per ogni bisogna o caso della vita. In famiglia però ti chiamano con il nome che hanno originariamente scelto per te, il nome immondo che mai venne pubblicamente trascritto.

    DODICI

    Dietro lo specchio 6/18

    Mutander entra dalla porta alta e punta deciso la porta bassa, senza dar segno di voler sostare nello Sgabuzzino Cocò.

    «Mi scusi, professore: solo un attimo. Credo di aver identificato la persona alla quale il soggetto si rivolge.»

    Mutander ristà. «Bravo, Merisi. Scommetto – Mutander occhieggia Rita – che hai scoperto che si rivolge a se stessa.»

    «Sì. Ma non la se stessa di adesso. Il soggetto parla a una persona di sesso femminile molto più giovane di lei, molto diversa da lei, estranea addirittura. Però quella persona – così ha raccontato il soggetto – si chiama Vasquez Vasquez. Il doppio nome spagnoleggiante è abbastanza inconsueto: perciò sono fortemente orientato a ipotizzare che il soggetto stia rivolgendosi a sé stessa. Ma non a un generico alter ego: alla Vasquez Vasquez di quando aveva vent'anni di età. Come se le parlasse attraverso il tempo.»

    «Attraverso il tempo! Tu ci confermi di essere un poeta, Michelangelo. Fa’ che ciò non ti sia grave. Fammi ascoltare l’audio.»

    Michelangelo preme un pulsante e la loquela ràbida e ininterrotta del soggetto riempie lo Sgabuzzino Cocò: «… gli occhi grandi e marrone umido dell’Irma. La tua gemella è lattea, di un latteo da inghiottonire una ghigliottina. Tu sei…»

    Mutander si protende sul quadro di comando, preme lui stesso il pulsante che spegne l’amplificazione dell’audio.

    «Basta così. Ho ascoltato troppi sproloqui di dementi. Sono tutti uguali. Quanto alla tua ipotesi, Merisi, che la 4-7-1 parli con se stessa, con dio o con il demonio è irrilevante. È chiaro solo che è dissociata e che sta a noi ricondizionarla. Trovale un'etichetta che possa reggere come diagnosi e cerca sul librone la corrispondente terapia. Tutto qui.»

    Exit Mutander.

    Michelangelo guarda Rita, che gli annuisce giudiziosa. I capelli biondi stopposi, trattenuti in alto sul cranio da una crocchia, enfatizzano l’ovale del viso. Si muove composta e veste dimessa. Qualunque colore indossi appare grigio, come i suoi occhi: ciò che non ne maschera l’avvenenza.

    «Diagnosi. Terapia. Il librone. Non ha detto nulla di nuovo.»

    «Forse no» dice Rita la solerte. «Ma lui è il professor Arrigo Mutander, primario del Centro Psichiatrico Stultifera Navis; e tu un neolaureato di trent’anni.»

    «Allora: obbedisco!» Michelangelo siede sulla poltroncina del quadro di comando del modulo e rimette in funzione l’amplificazione dell’audio. Rivolge la propria attenzione al soggetto

    4-7-1, tenente colonnello Vasquez Matamòros, del quale crede di sapere tutto ciò che gli serve sapere.

    «Ci vediamo» s’accommiata Rita. Michelangelo non risponde.

    Exit Rita.

    TREDICI

    E sei di pelo nero, e hai sempre portato i capelli corti. Tua sorella è bionda, e da quando si è sposata s'erige sul capo una complicata acconciatura di foggia e stazza seicentesche; che non la nanifica, poiché è più atticciata di te.

    Hai gli occhi verdi. Alicia ha gli occhi grandi e marrone umido dell’Irma. La tua gemella è lattea, di un latteo da inghiottonire una ghigliottina. Tu sei di pelle leggermente scura. Leggermente ma abbastanza per essere presa per messicana, per cubana, per spagnola di Galizia. Quando viene a conoscere il tuo cognome Vasquez la gente si fortifica nell'errore. Per scherzo, ben presto inizi a non correggere i pregiudizi altrui. Per scherzo, durante il liceo studi e perfezioni lo spagnolo. Inglese e francese li parli come l'italiano: li hai imparati in casa. È in casa che trascorri i tuoi primi cinque anni di vita, poiché l’Irma stessa vuole prodigarti le sue cure, né delega asili: e quando si rivolge a te ama alternare all'italiano le lingue straniere. Bello. Meno bello ogni volta che ti tocca di replicare. E devi anzitutto indovinare in che lingua risponderle. Son azzardi. Ti va forse bene una volta, una sola volta? Mai. Sberloni, sempre, profluviano a correggere gli errori. Ma forse esageri.

    Mentre tu rimani a casa a goderti la pedagogia materna, Alicia frequenta normalmente un normale asilo. Non ti chiedi mai il perché di questa disparità: tu e tua sorella venite regolarmente trattate in maniere differenti, quindi mai ti stupisci di alcunchè.

    Quando viene il tempo delle elementari, ad Alicia tocca la scuola pubblica: e la frequenterà fino al diploma delle superiori. Tu invece frequenti una dopo l'altra una serie di superscuole per deficienti super finanziati, ovvero collegi di lusso. Le «migliori scuole d’Europa». Salti dall’una all’altra, a causa del lavoro del Maggiore, che trasferisce lui e l’Irma da una base aeronautica all'altra senza consultazione e senz’appello e te da un istituto all’altro.

    Non capisci per quale motivo ma quando si spostano loro devi appena possibile muover dietro anche tu: e inserirti in una nuova scuola che sia nei pressi della loro nuova effimera residenza. La tua vita è pur sempre meno erratica di quella dei tuoi genitori; che tendono  a farti terminare l'anno scolastico nel collegio che frequenti, anche se loro si spostano lontano. Ma ti succede anche di fare un trimestre di scuola al Sud, il secondo al Nord e l'ultimo al Sud ma ancora più a sud.

    Ad ogni modo zingarare diviene un'abitudine nel tuo quotidiano e una vox media nell’argomentare tuo; chè, considerati i pro e i contro, muoversi e cambiare forse non è sempre cattiva sorte. l’Irma e il Maggiore si fanno un bel flipper su e giù per l'Italia e l‘Europa: Ancona, Comiso, Napoli naturalmente, Pozzuoli e Capodichino, Berlino prima volta, Treviso base di Sant'Angelo, Berlino seconda volta, Brescia Montichiari, Catania Fontanarossa, Parigi, Rimini, Palermo, Vicenza e Verona (queste due senza cambiamento di residenza) Udine Campoformido, Roma (un paio di volte, a distanza di dieci anni) Brindisi, Cagliari Elmas.

    Ah, sì. Problemi simili ai tuoi, di impossibilità di rapporti umani duraturi, esistono anche per l’Irma e il Maggiore. Così congetturi tiepidamente talvolta.

    Le tue vacanze vengono programmate dall’alto, e non sono vacanze riposanti. Aerei di linea e libri da vedere e posti da imparare. Viaggi da sola, appena ne sei in grado.

    Hai sogni, a quei tempi? No, sogni nel senso di obiettivi precisi vagheggiati non ne hai. Il presente e il reale non t’annoiano: non senti ancora sazietà d’apprendere e ti fa gola e ti soddisfa vincere tutti gli scontri nei quali t’impegni, anche se gli avversari non sono, lo sai bene, che sparring-partner. Per te vedi in prospettiva, ma per speculum et in aenigmate, una laurea, e poi un’altra, e poi, ancora, qualche corso di perfezionamento all'estero.

    E dopo? Lo ignori.

    Se invece per sogni s’intenda luoghi non reali dove mandare la mente a vigorire: tu sogneresti le montagne.

    Tu sogneresti le montagne: se a ogni fuga onirico-orografica non tenesse dietro, inopportuna, una visualizzazione dell’Irma. Poiché ciò che sai dell’Irma lo impari nei momenti in cui vi muovete insieme voi due sole:  per raggiungere le montagne, di qualsiasi gruppo o sottogruppo e per calpestare i sentieri canonici che conducono ai rifugi ed alle cime classiche. E altri sentieri, meno noti: noti solo all’Irma. Sentieri inesistenti.

    Anche da questo Alicia è esonerata.

    La montagna è passione giovanile dell’Irma, che la vive con grande intensità anche se con modalità tutte sue: modalità che impone anche a te. Fare montagna con lei è come servir l’esercito. È d’obbligo il rispetto assoluto dei tempi preventivati di salita e di discesa – stabiliti chissà da chi e con quali criteri. Soste, poche o niente. Momenti conviviali, zero. Conversazione? «Se senti bisogno di conversare non ti sei calata abbastanza nello spirito della montagna e non sei abbastanza stanca». Amen. Solo l’rma stessa può violare la regola del silenzio: ma se parla durante una sosta lo fa solo per narrare frammenti della «Storia delle due ragazze partigiane».

    Silenzio anche sui sentieri, tra voi. Sembra che il nemico sia in ascolto. Tutto un rigore, che per anni tu intendi come corollario d’un atteggiamento agonistico. E negli anni formuli qualche regola tua propria, che non ti viene dall’Irma. Una: non impegnarti mai al cento per cento: conserva sempre una riserva di potenza intatta. Da sfruttare all’occorrenza. Non tanto per esser certa di raggiungere la meta – che tu ce la debba fare è fuori discussione, sai già formulare il pensiero: «Io son capace anche di morir di spossatezza ma due metri dopo la cima non un centimetro prima»; quanto per poterti battere qualora sfidata. Per poter vincere l’unica sfidante possibile, l’Irma: per passarle davanti in una salita che non finisce, per umiliarla sportivamente. Una sfida esplicita dall’Irma non giunge mai; ma il tuo meccanismo mentale ti consente di starle al passo sempre e comunque: e con una riserva mentale, nel doppio senso, sempre pronta.

    E storci il naso ma te lo godi, lo stolido rigore dell’Irma: quelle modalità ti piacciono, scema: e impari a far buon viso anche a fatiche prive di senso.

    Vero anche che se volentieri accetti i modi e i tempi imposti dall’Irma, non tardi a renderti conto che gli stimoli che portano in montagna te e lei sono differenti. Non è agonismo, quello dell’Irma: per lei ogni escursione è una battaglia. La preparazione di una salita è l'approntamento di una tattica. La scelta dei sentieri è spesso effettuata in base a criteri che non capisci, che allungano i tempi di salita – e aumentano le ore di fatica – effettuando varianti di percorso che ricostruite a posteriori sulle cartine al 25.000 appaiono come ghirigori cervellotici. Un po' per volta riesci a capire che le scelte degli itinerari sono fatte in modo da evitare i percorsi più battuti e più visibili, in modo di arrivare a rifugi cime selle o altre mete per vie improbabili, quasi per far sorpresa a qualcuno o coglierlo di sorpresa. T’appare progressivamente più leggibile che l’Irma non è mossa a quelle prove dall'amore per la montagna né da una sfida a superar se stessa. La sua motivazione, così credi per anni e per decine di migliaia di metri di dislivello, sembra essere una lotta contro la montagna stessa. Il tuo personale atteggiamento è alquanto differente. Moltissimo differente.

    La montagna può scrollarsi di dosso quei fessi che la calpestano, per lavoro o per sport che sia, con un unico sternuto soffio ruttino sussulto scorreggia. Lotta contro la montagna? No no, tu vedi la questione in modo diverso. Non consideri affatto l'escursione e l'arrampicata come una lotta. E allora? Donde quest’amore tuo per quei grandi sassi? Non dal diporto semplice, certo. Congetturi, scema, d’esser fascinata dall'esplorazione, dal proiettarti all'esterno, dall'avventura nel mondo di fuori. E invece, come scoprirai più tardi, la montagna è per te equipollente, dal punto di vista simbolico, alla nave. Sogni la nave e credi che il tuo inconscio frema dal bisogno d’andar via, d’andar lontano. No, scema. Al tuo inconscio non interessa la funzione transoceanica della nave; gli interessa solo la forma convenzionale. Poveramente il tuo inconscio – che non è né maschio né femmina – fa leva sulla somiglianza tra la stilizzazione della barchetta e la stilizzazione, d’origine immemorabile, della figa. Ti sta dicendo che ha bisogno di pace di calma, di regressum ad uterum, non mica di avventure; che non brami d’andare ma di ritornare; che non anèli vette ma vagine accoglienti, tranquillanti, immemori.

    Quello che sai della psicoanalisi ti fa sorridere: in specie, l’ovvia simbologia, così rustica se paragonata a quella di Jung. Ti diverte che Freud, distruggendo una mitologia trimillenaria, si sia trovato tra le mani un’altra mitologia, assolutamente speculare. Però quella psicoanalitica è un'interpretazione che talvolta ti fa gioco. In alta quota, al cospetto di cieli lunghi lunghissimi – quali quelli del New Jersey – tu trovi, sempre, un tuo anfratto, una spaccatura nella roccia, un ricovero, granitico o dolòmio: quantunque precario, angusto. E in simili latèbre t’intàni nei rari momenti in cui l’Irma si disinteressa di te e del buon esito della propria missione alpinistica. Intanàta avverti, sempre, una trasformazione che ti retrocede allo status di organismo monocellulare: vivi la sensazione di essere un bacillo, un treponema pallidum  annidato in una vagina; e lì vorresti restare per sempre e consistere. Calpestando i monti non ti senti mai fuori di qualcosa, ti senti invece in spazi interni: e t’adoperi, con tecnica e con umiltà, per non farti espellere o distruggere dai sistemi immunitari delle Alpi. Passi in silenzio accanto ai possenti complessi di organi che presiedono agli eterni processi digestivi: l'acqua, la vegetazione, l'erosione della roccia stessa, lo sbriciolarsi dei massi.

    Sei sola. Un rumore. Davanti a te s’alza la parete, una muraglia quasi verticale di quattrocento metri di granito. Ad artigliare la cresta sommitale compare in appiglio una mano larga quanto una stazione ferroviaria, dalle dita grosse come autobus protette dall'armatura di metallo a scaglie di drago. Lentamente. Nella lentezza leggi difficoltà e forse dolore, finchè, certamente con difficoltà e dolore, rizzandosi di là della parete di roccia che lo nasconde e reggendosi ad essa si tira in piedi un guerriero privo di elmo, la testa coperta solo dalla cotta di maglia, l'armatura lucente. I quattrocento metri della parete gli arrivano appena alle anche, è ferito al petto, guarda in basso e guarda te ma non è ostile, io vado a morire, senti dire da voce ferma nel silenzio, io vado a morire, ora tocca a te, tocca a te. E tu non ci stai e tu scompari ficchi la faccia nel muschio sottostante un pino mugo, t’immergi nell'umido nel marcio nel molteplice invisibile, nelle minirane e nelle lumache trasparenti e nei funghi diafani e nei licheni piede di lupo; o sotto una zolla isolata, tra le radici d’odore amaro dei rododendri dove non avverti altro che il fatale borbottìo digestivo eterno e dove attendi. Cosa attendi?

    L'amore?

    Sei una trista figura, soldato Vasquez.

    Come vuole, Signore. Signorsì, Signore. Ma il punto – Signore – non è la trista figura. Il punto è che io non sono affatto un

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