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Il giovane clone di Gesù
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E-book264 pagine2 ore

Il giovane clone di Gesù

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Info su questo ebook

Simone è un orfano con un sogno che non può dichiarare. Pur di realizzarlo si laurea con lode in genetica. S'immagina quali potrebbero essere le conseguenze di un successo, di sicuro vincerebbe il premio Nobel per la medicina, perché nessuno prima di lui riuscirebbe nella folle impresa di realizzare il clone di Gesù.

La prima volta che pronunciò quell'idea, gli sembrò una farneticazione. Poi iniziò a pronunciarla davanti allo specchio. "Clonerò Gesù", fino a convincersi. Il suo piano non poteva compiersi senza la collaborazione di una donna, per impiantare l'embrione, così coinvolge Barbara, anche lei studentessa, e fingendosi seminarista, entra nel duomo di Torino per prelevare il sangue dalla sindone. Sembra tutto pronto per il primo embrione, Barbara pare appassionarsi alla follia di Simone.

Quali paterni conflitti subirà il giovane clone? Quali convinzioni svilupperà da adulto? Approverà il padre o lo condannerà? Il clone sembra nato con il carisma del leader, ma contrariamente alle convinzioni dei genitori si arruolerà nell'esercito per vivere la sua avventura.

LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2024
ISBN9798224981649
Il giovane clone di Gesù
Autore

Giovanni Menicocci

Giovanni Menicocci, Laureato in Lettere, è giornalista pubblicista. Ha lavorato nel 2005 come sceneggiatore a Mediaset per la scrittura di una sitcom, e ha collaborato al portale di cinema MyMovies.it. Attualmente direttore responsabile del portale Mauxa.com, si occupa di interviste ad attori, scrittori premio Pulitzer Pulitzer, artisti. Il suo primo romanzo, John e Marilyn. La fragilità degli dei ha avuto buon successo di pubblico e critica.

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    Anteprima del libro

    Il giovane clone di Gesù - Giovanni Menicocci

    HELIKE EDIZIONI

    Giovanni Menicocci

    Il giovane clone di Gesù

    ISBN 979-12-81813-02-1

    © 2024 Helike Edizioni

    www.helikeedizioni.com

    Helike Edizioni è un marchio di proprietà di Argo Editore.

    La presente opera è un prodotto della fantasia dell’autore. Nomi, personaggi, soggetti, luoghi ed eventi storici narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono stati usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o vissute, eventi o luoghi reali, è da considerarsi puramente casuale. 

    Guarda, anche il Sole oggi ti sorride

    Prologo

    In una cappella, il custode passa le dita su un muro, tocca una teca immersa nel buio, rotto solo da qualche candela che emana un flebile alone di luce.

    Accanto alla teca si erge l’insegna con la Sindone di Gesù: spuntano gli occhi chiusi, l’incarnato da radiografia. Il custode ha una pistola nel fodero, la tocca, si dilegua e si avvicina alla porta. Tra il ballatoio della cappella e il pavimento, all’improvviso una lama di luce trafigge l’oscurità: ecco l’alba. Il custode guarda l’orologio appeso al muro, lo stacca, sposta la lancetta indietro di un’ora.

    Il custode sbircia verso la porta, poi con tranquillità si riavvicina alla teca e con una chiave apre lo sportello. Dal fodero estrae un coltellino, tira a sé la Sindone e con la punta affilata stacca una scaglia di sangue che adagia delicatamente in una provetta.

    Simone si sveglia nel suo letto. Ha un’erezione.

    1

    Simone e Groglio

    Groglio non poteva immaginare che un giorno le campane avrebbero squillato insieme per Alessio. D’altronde lui, Groglio era il migliore generale del Comando per la formazione, specializzazione e dottrina dell’Esercito, e non accettava opposizioni alle proprie direttive. Tutti questi ragazzi imberbi che si affacciavano alla carriera militare, o che volevano evitarla appellandosi a quella che lui considerava l’insulsa obiezione di coscienza, lui li odiava, e li avrebbe arruolati con modi ferrei e obbligatori. Sarebbe stato lui a decidere, e ciò aumentava la propria vanagloria.

    Groglio sapeva che – anche alla città militare della Cecchignola – le reclute erano solite andare a far due volte colazione, poi uscivano a comprare il giornale, e per un nonnulla restavano via mezz’ora. Ciò lo faceva infuriare.

    Qualche giorno prima, dalla soglia del suo ufficio, la recluta Giovanni Zaccaria gli aveva risposto: «Vada a crepare».

    Groglio senza pensarci due volte lo aveva colpito in faccia con un pugno, tanto da farlo sanguinare e maciullargli la mascella.

    «Sei un anarco-insurrezionalista» gli sbraitò mentre i suoi denti sanguinavano.

    «Non è lecito quello che fa» rispose Giovanni con coraggio, mentre afferrava un vassoio posto sopra la scrivania: cercava di non far colare il sangue per terra.

    «Sei solo una voce che grida nel deserto» sorrise Groglio, che cominciava a nutrire rancore verso quel moscerino.

    «Verrà qualcuno che le darà una lezione.»

    L’ematoma s'irradiava ancora di più su quella pelle pallida, e Giovanni si tamponò a lungo, si deterse con dell’acqua, ma la ferita continuava a sanguinare, e corse all’infermeria della città militare.

    In realtà la recluta era solo una persona che aveva osato porsi contro di lui, con un atteggiamento raro che Groglio riteneva irrispettoso. Nessuno si era rivolto a lui in tanti anni, e anche se lo ascoltava volentieri per com’era ardito, una recluta restava pur sempre un soldato. Temeva che, se avesse coinvolto altri commilitoni, ci sarebbe stata una presa di posizione contro di lui.

    Dopo qualche ora, Giovanni aveva fatto pervenire alla Città Militare della Cecchignola – dove si trovava la caserma di cui Groglio era generale– una lettera in cui si raccontava dell’episodio. Il segretario di Groglio, ovviamente, l’aveva intercettata e consegnata a lui, che ora la celava.

    «Hai fatto il tuo lavoro», disse al segretario, che in realtà era un soldato che fremeva di terminare i dodici mesi di naja. Si sentiva in colpa per avere nascosto una missiva, senza protocollarla. Groglio era così, incuteva timore e nessuno poteva permettersi di confutarlo.

    «Metto a verbale che l’abbiamo persa?» incedette il segretario.

    «Vuoi pulire i cessi come tuo padre?» rispose Groglio.

    Quello di Giovanni era solo uno dei più recenti casi che Groglio aveva insabbiato, l’ultimo in ordine di tempo. In realtà era raro che picchiasse una recluta, ma questa l’aveva fatto innervosire tanto che aveva agito senza accorgersene. Così prese la lettera nel suo ufficio disadorno e la nascose in un cassetto. Alle pareti c’era solo un quadro del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Una pianta secca era alla sua destra e vicino una teca di vetro con tre bandiere: quella italiana, quella dell’Europa e della Nato. Una poltrona bianca di pelle trapuntata dominava vicino a un angolo, e dietro una mensola. Sopra il piedistallo si ergeva un busto bronzeo: ritraeva Giuseppe Galliano, tenente colonnello del Regio Esercito che morì durante la battaglia di Adua nel 1896. Sopra la scrivania in legno di ciliegio c’era una foto di una bambina di circa un anno, con le guance rosse e paffute, che gli sorrideva: era Annalisa, sua figlia.

    Dopo qualche giorno, il generale Groglio udì una voce provenire dall’ingresso da cui il segretario sedimentava la propria insicurezza. Dai cianci comprese che era snilz: così lui chiamava gli obiettori di coscienza, che una volta al mese venivano a farsi pagare i 250 euro della mensilità, per dei servizi che poi non espletavano. Tipo stare in un ufficio a compilare le parole crociate, prendendo caffè, o – per chi era in servizio nelle case di riposo − a scommettere su quale anziano fosse morto per primo. Non era meglio eliminare questa stupidaggine dell’obiezione di coscienza? Chi diamine l’aveva introdotta? Se lo chiedeva, e avrebbe voluto averlo tra le mani per sistemarlo.

    Il tipo snilz era anche insistente, in maniera rara. Aveva, infatti, proprio chiesto se la raccomandata spedita da Giovanni Zaccaria fosse arrivata, perché erano ormai diversi giorni. Il segretario ormai ben addestrato rispose di non aver ricevuto nulla.

    Si fece avanti Groglio, anche se non ne aveva voglia.

    «Avete qualche problema?»

    «Nulla di cui preoccuparsi, signore. L’obiettore chiede se sia arrivata una raccomandata.»

    Il giovane, Simone Polveroni, si scostò dalla scrivania del segretario.

    «Giovanni è mio amico, mi aveva chiesto se fosse arrivata.»

    Simone sapeva ormai tutto, che Groglio aveva picchiato l’amico e che lui voleva fare un esposto.

    «Non sono fatti che ti riguardano. Continua a pulire la cacca nella casa di cura.»

    Simone – che era obiettore all’ultimo anno di università, per anticipare i tempi della laurea e di ciò che voleva raggiungere in seguito − avrebbe bramato rispondere, ma sapeva che era meglio non importunare Groglio. Fortunatamente il telefono nell’ufficio squillò: era il padre, anche lui generale dell’esercito.

    Ora l’obiettivo di Groglio era allontanare quel tipo, e fare in modo che il segretario fosse calmo e non spifferasse niente. Fece cenno al segretario di venire in ufficio, così da salvaguardare le apparenze, mentre Simone attendeva sul corridoio.

    «Cosa ti ha chiesto?»

    «Nulla, signore. Però ha capito qualcosa.»

    «Non è successo nulla.»

    Groglio non poteva sapere che Simone, mentre serrava il foglio timbrato per ritirare i suoi micragnosi 250 euro mensili, fosse informato di tutto e cercava di difendere Giovanni.

    Simone prima di andarsene controllò nel registro protocollo la posta arrivata – faceva anche lui quello stesso servizio alla ASL come obiettore – e si accorse che c’era la lettera di Giovanni Zaccaria, con il suo nome segnato come mittente: ma, con una riga: era stato cancellato.

    Groglio sapeva che la voce del suo gesto si era diffusa. Ma nessuno avrebbe spifferato. Salvo che quel demente di obiettore di Simone Polveroni non volesse mettersi nei guai.

    2

    Simone

    Non era un tipo notoriamente altruista, Simone. Chiuso nel suo solipsistico territorio fatto di studio e obiettivi da raggiungere. Lo aveva colpito il fatto che un amico, con cui aveva condiviso l’università, potesse essere stato usato in questa maniera. E chissà quanti altri abusi il generale Groglio aveva perpetrato. Stranamente questo pensiero emergeva proprio ora, la mattina in cui doveva laurearsi. Sì, perché era il giorno in cui i suoi anni di studi in genetica avrebbero fruttato il risultato finale. Cinque anni trascorsi nel suo alloggio universitario, composto solo da una branda, una scrivania e un bagno: quando si faceva la doccia doveva stare attento a non inondare la moquette. L’estate era torrida, e così lui aveva messo sopra la finestra un ventilatore davanti ad una bottiglia ghiacciata. Era la sua aria condizionata personalizza.

    Cinque anni in cui Simone Polveroni aveva completato tutti gli esami con dignitoso rigore, all’università La Sapienza, nota per essere poco permissiva: o sopravvivi, o sei fuori. Era una giungla e a lui piaceva aggrapparsi alle liane. Cinque anni in cui aveva discusso tutti gli esami ottenendo solo trenta e lode.

    Ricordava quel pomeriggio in cui controvoglia – con il professore che lui ammirava, Anthony Barhiona − passò tutto il compito di biofisica a una ragazza con la speranza che lei ci sarebbe stata, e per questo fu ripreso. Era una situazione che odiava, essere ripreso, perché lui aveva sempre adorato essere ligio al suo dovere di studente, e anche se non aveva qualcuno cui mostrare i voti scolastici, o qualcuno che si sarebbe congratulato con lui per la laurea, era appagato del proprio obiettivo.

    La cesoia con il passato lo conduceva a non dover rendere conto dei propri successi o insuccessi, a vivere con nonchalance il presente. Non aveva genitori cui raccontare qualcosa, cui confidarsi. O nonni che gli avrebbero dato la mancetta per i suoi risultati, o che gli avrebbero pagato l’alloggio universitario, o che gli avrebbero comprato l’auto con cui si sarebbe scapicollato – come fece un suo amico riccone, che ricevette una moto in regalo – o che gli avrebbero regalato la vacanza per la laurea.

    Così era Simone, tranquillamente geniale, e non aveva mai detto a nessuno ciò cui questa laurea doveva condurlo.

    Non era un religioso praticante, quanto bastava a fare la comunione che suore con cui crebbe − perché un orfanotrofio fu la sua casa – gli imposero quando aveva nove anni, e la cresima a dodici. 

    Si chiedeva ora – chissà perché proprio in questo momento –cosa stesse facendo la madre, e se sarebbe stata orgogliosa di lui. Spesso si domandava perché i genitori lo avessero abbandonato, se si fossero chiesti se fosse la cosa giusta da fare, o paventassero tentennamenti. Forse erano poveri e in una situazione simile non avrebbero saputo come accudirlo, e lui conosceva bene cosa voleva dire fare i conti precisi per arrivare a fine mese. Avrebbe voluto anche dire che le suore l’avevano trattato male, per farsi compatire della sua situazione – magari per conquistare qualche ragazza – ma non era così. Non era mai stato adottato, perché le suore si erano abituate a lui e lui – ogni volta che veniva una famiglia a reclamarlo − diceva che voleva resta lì. Suor Licia l’aveva educato, e per lui era uguale a una madre. L’aveva anche invitata alla laurea, lei disse che ci sarebbe stata, ma poi telefonò la sera prima adducendo che un altro neonato era stato abbandonato e che doveva prendersi cura di lui. Simone si era informato di ciò, quasi volesse ammantare la sua situazione.

    Casa dell’Angelo era il nome del suo orfanotrofio, che già restituiva un senso di sicurezza. Almeno così aveva sempre avvertito.

    Forse per questo si era laureato in genetica: per dare una spiegazione razionale ai gesti, che non fosse solo comportamentale ma sedimentata nel DNA delle persone. Quel DNA era forse possibile modificarlo. 

    L’ultimo anno di università si affrettò e fece anche l’obiettore di coscienza, la mattina. Così da accelerare i tempi di ciò che avrebbe eseguito successivamente.

    Non bighellonava come gli amici figli di medici o di politici che erano a capo di aziende solo perché – conclusa la carriera politica − erano stati posti lì.

    Simone aveva ottenuto l’alloggio con le borse di studio. I 6000 euro l’anno che l’università gli passava erano frutto del suo sudore, delle serate trascorse a studiare, e magari a bere qualche birra con gli altri studenti nella cucina in comune che avevano.

    Si era fatto assegnare una camera più grande, perché quella in cui alloggiava era singola. In quella doppia – che aveva ottenuto implorando l’addetta alle attribuzioni – c’era un letto vuoto.

    Lui voleva svettare su tutti i delinquenti usciti dall’orfanotrofio. Anni di sacrifici passati a mangiare sempre verdure e fagioli: alimenti che costavano meno. La carne entrava a stento una volta a settimana. Mai un dolce, forse la domenica. Il mare visto per la prima volta a diciannove anni, appena entrato all’università. Comprendeva anche il rigore che le suore imponevano, i fondi erano pochi e non potevano bastare per sollazzare tutti in vacanza. Si era abituato a quel rigore, solo che verso i diciassette e diciotto anni non lo approvava più, e voleva non solo andarsene.

    Almeno aveva la fortuna di avere un cognome non scontato come quello degli altri trovatelli: il suo Polveroni fu scelto perché, quando fu abbandonato nella ruota degli esposti sulla sua copertina aleggiava della polvere.

    Li contava spesso negli annali, gli altri orfani della Casa dell’Angelo – un nome che rimase dopo la chiusura dei brefotrofi nel 2006, sostituti da case famiglie che però mantenevano il medesimo tenore − e tutti erano diventati o delinquenti, o erano finiti a lavorare come meccanici, oppure operai in fabbrica. Lui non capiva perché non avesse seguito quella strada, perché si fosse scostato dagli altri, volendo studiare. Nessuno si era spinto oltre le scuole superiori. Allora cominciò a ritenere che la sua forza di volontà fosse un’inclinazione genetica, perché aveva controllato tutto l’annuario dal 1970 fino ad allora, e nessuno dei trovatelli si era laureato. Com'era possibile che lui invece avesse avuto questo slancio? Cominciò ad affiorare in lui l’idea che avesse qualche avo studioso, e che uno di quei geni si fosse tramandato a lui. D’altronde la teoria della trasmigrazione dei geni di generazione in generazione, quelli non fisici ma psichici era avvalorata da diversi studi. Lui stesso l’aveva approfondita all’esame di Neuro-ingegneria. Prove certe non ce n’erano.

    Chissà, forse dopo la vittoria del Nobel si sarebbe dedicato a questi studi.

    All’università cominciò a vincere borse di studio, e con quelle si mantenne per tutto il percorso. 6000 euro l’anno, più l’alloggio pagato, e il cibo gratis. Una situazione in cui lo stato adotta i suoi figli. Di ciò andava fiero, erano i primi soldi guadagnati grazie

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