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Seconda pelle
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E-book390 pagine5 ore

Seconda pelle

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Fantascienza - romanzo (288 pagine) - Dopo la tragedia della pandemia in Italia è sorto il governo del Timone. Un regime dispotico con l'ossessione del controllo totale e della caccia ai clandestini. Finalista al Premio Urania


In una Genova scura e oppressa un uomo e una donna si conoscono dando il via a una catena di eventi che porterà a riscoprire un passato di eventi alternativi e innescherà un futuro dominato da cloni, androidi e coscienze traferite di corpo in corpo fino a smarrire il senso della propria stessa identità.


Giampietro Stocco è nato a Roma nel 1961. Laureato in Scienze Politiche, ha studiato e lavorato in Danimarca per alcuni anni. Giornalista professionista in RAI dal 1991, è stato al GR2 e attualmente è vicecaporedattore del TG regionale per la Liguria a Genova, la città dove risiede. Studioso e maestro del genere ucronia, ha pubblicato finora sette romanzi: Nero Italiano (2003) e il sequel Dea del Caos (2005), Figlio della schiera (2007), Dalle mie ceneri (Delos Books 2008), Nuovo mondo (2010), Dolly (2012), La corona perduta (2013). Da Dea del Caos il regista Lorenzo Costa ha tratto un adattamento per il palcoscenico che è stato messo in scena dal Teatro Garage di Genova nel 2006 e nel 2007. Nel 2006 ha vinto il premio Alien. Per Delos Digital cura la collana Ucronica.

LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2022
ISBN9788825420463
Seconda pelle

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    Anteprima del libro

    Seconda pelle - Giampietro Stocco

    A Paola, ovunque tu sia.

    I realize a miracle, is due

    I dedicate this melody, to you

    But is this the stuff dreams are made of?

    If this is the stuff dreams are made of

    No wonder I feel like I'm floating on air

    Chameleons, Second Skin

    When I was young, the sky was blue

    And everyone knew what to do

    But now it's gone, the telly's here

    Mass media, the sewer too

    Universal maximillion…

    Soft Machine, Dedicated to you but you weren’t listening

    1.

    Interno, notte. Amo questo divano. Di alcantara bianco, immacolato da anni. Ci tengo, sapete, all’igiene e alla pulizia. Come tengo alle mie comodità. C’è voluto tanto tempo e tanto lavoro. Ma ora si fa sera. Mi stendo qui sopra e mi godo il mio Talisker Single Malt. Due dita, liscio. Profumato al punto giusto. Per mollare gli ormeggi della mia nevrosi e riuscire a guardarmi. Schiocco le dita: l’olophone mi rimanda un volto insieme familiare e sempre più estraneo: di forma triangolare, il mento aguzzo, il naso dritto e deciso, qualcuno lo direbbe sporgente. Il verde mare degli occhi, che da sempre penso sia la cosa più bella di me, il taglio quasi a mandorla, esotico, che fa dimenticare le due piccole ragnatele di rughe che quando sorrido si irradiano verso le tempie. La fronte ampia e quasi senza segni, come senza segni è la bocca carnosa. L’ho ereditata da mio padre, sciupafemmine fino all’ultimo, fino all’anno scorso quando ancora in un fondo di letto, a ottantatré anni, il ciuffo sulla fronte ormai candido e rado, cercava di sedurre l’infermiera in cambio di un tiro alla sua amata pipa.

    Mi alzo, di scatto. Lo specchio che ricopre la parete alle spalle riflette le luci del Porto rimandate dal finestrone della sala e la mia figura ancora snella di quarantaquattrenne. Gambe lunghe e muscolose, sedere alto. Braccia segnate non dal tempo, ma dall’esercizio fisico, grazie alla tenacia con cui continuo a tenermi in forma anche in casa.

    Ancora un sorso, levo il bicchiere e bevo alla mia. il calore che si diffonde dallo stomaco alla testa. La solitudine è compiacersi di se stessi illudendosi di bastarsi. Due passi verso il finestrone. – Apri tutto, Holly – ordino all’IA domotica. All’istante il salone si riempie dell’aria di mare e del ronzio sommesso delle attività portuali. Quelle poche che sono rimaste. Le luci danzano sull’acqua. Un cane abbaia in lontananza. Mi accendo una sigaretta e sbuffo il primo tiro a disperdersi nella brezza.

    Il ronzio sale di intensità fino a raggiungere la frequenza di uno sciame di vespe. La notte non aiuta a distinguerlo, nero su nero, ma lo vedo bene quando si avvicina a un paio di metri, librandosi all’altezza dei miei occhi, sospeso come un colibrì gigante: un drone di sorveglianza, i due led rossi che sfavillano come uno sguardo demoniaco, fissi a valutare il mio, di sguardo, che, mi accorgo, è diventato di sfida. Una variazione di frequenza nel luccichio infernale, la macchina sta elaborando i dati che il mio chip personale gli sta fornendo via rete mobile. Alla privacy abbiamo già rinunciato da un po’ in cambio della sicurezza.

    – Va tutto bene Bianca? – mi chiede Holly. Sentinella 342 ha rilevato un improvviso aumento dei tuoi valori pressori e una concentrazione di 0,4 g/L di alcol nel sangue. Sei oltre il consentito del 50%…

    Prendo il bicchiere e lo scaglio lontano, nel vuoto, provocando un’oscillazione aggraziata nell’assetto di Sentinella 342. Un 8 disegnato con aeronautica eleganza, quasi a tratteggiare il simbolo dell’infinito. Zen robotico che mal si concilia con la mia ira. E soprattutto con la mia mira.

    – Bianca – interviene ancora Holly – hai compiuto una violazione di secondo livello al Codice Etico. Da questa altezza il bicchiere di cristallo massiccio codice 2358 può far male a qualcuno, senza contare il valore dell’oggetto perduto e il tuo servizio che da adesso ne conterà solo cinque…

    – Non c’è nessuno nel raggio di chilometri – rispondo stizzita. – E smettila di impartirmi lezioni. È solo uno stupido bicchiere.

    – Scusami, Bianca. Ma conosci le regole.

    Un cicalio e uno sfavillio condiviso con Sentinella 342 e Holly va diplomaticamente in stand-by. Ho dovuto faticare per insegnarle a comunicare in maniera meno asettica, ma con ogni evidenza la mia IA domotica teme quello scarafaggio nero almeno quanto ogni buon cittadino di questo paese. Sicuramente più di me, che mentre il drone si allontana lo saluto con il buon vecchio dito medio. Gesto che, mi rendo conto, in linea d’aria sembra diretto alla gigantolografia che campeggia sulla nuova Torre Piloti: un cielo azzurro con una corona di stelle che si anima, si distende e va a formare la scritta Verso il Futuro.

    2.

    Nella silenzio, all’improvviso, lo schianto di vetri sul selciato. Scatto dalla mia poltrona, provocando la fuga precipitosa di tre grosse nuvole lanose. Ciascuno ha il suo nascondiglio personale di emergenza, e al buio vedo tre paia di felini occhi fosforescenti studiare un territorio all’improvviso insidioso; rispettivamente da sotto la consolle arte povera, da dietro lo schermo del computer nello studio adiacente e da una sedia della cucina protetta ancora da un lembo della tovaglia della cena.

    Ridacchio fra me e apro le finestre considerando l’ossidazione degli infissi: dovrò decidermi anche io come quasi tutti gli altri condomini per i nuovi serramenti intelligenti, magari simili a quelli della vicina di sopra. Bella donna, single, un po’ austera. Ma di questi tempi la prudenza è una dote apprezzata. In lontananza distinguo la sagoma luccicante di un massiccio drone di sorveglianza in allontanamento, mentre altri tre scarafaggi più piccoli stanno volteggiando sopra uno spolverio di cocci di vetro. Li vedo incrociare più volte le traiettorie, poi abbassarsi fin quasi sul selciato e rimuovere tutto con pochi colpi ritmici di spazzola e paletta protruse dai lucidi carapaci.

    Mi affaccio e d’istinto volgo lo sguardo verso l’alto. Appena in tempo per schivare un mozzicone ancora acceso e scorgere un volto aggrondato di donna che si ritira, mentre un sibilo annuncia la chiusura di una finestra polarizzata.

    Mi ritiro a mia volta, scuotendo il capo. Abito qui dai tempi della Riunificazione. Donne in casa mia ne sono passate, ma al momento sono solo. Solo, be’… Sorrido mentre i tre fratellini trotterellano verso di me appaiati come cavalli da tiro, tutti frascosi a celebrare il mortale pericolo scampato. Tanto grossi quanto fifoni, il senatore tigrato Cico e i due cuccioli più giovani Jarl il rosso e Ivan il marezzato – Gatto 2345, 2346 e 2347 per la Nuova Anagrafe – si strusciano a turno sulle mie gambe, marcano i loro angoli per farsi forza e tanto per non perdersi nulla miagolano all’unisono.

    È ora di cena? O forse è molto più tardi. Mi chiamo Gianluca e, sì, sono un nutritore di gatti. Solo nell’ultimo anno ho ceduto, ho chippato loro e anche me stesso, così con la nuova app governativa nata lo scorso anno posso tenere tutti sotto controllo con l’olophone. Sta diventando un po’ ossessivo questo mio monitorare lo stato di salute della mia personalissima famiglia arcobaleno, ma in fondo ho cinquantacinque anni e conduco una vita tipica da scapolo, comprese le cattive abitudini alimentari. E aggiungiamoci anche questo trip di spiare in 3D i miei mici che si inseguono per la casa.

    Un’altra volata in punta di polpastrelli sul telefono. La app mi informa che dovrei perdere qualche chilo. Le palestre vanno ancora ad appuntamenti e mi viene male pensare di riprendere il mio allenamento, ma dal lockdown ormai è passato un anno e alla mia età andare giù di fisico è pericoloso. Specie dopo il Male. Cambiato tutto. Lavoro, abitudini, amici, compagna. Uno sguardo a me stesso, ogni tanto mi faccio un selfie. No, lasciamo perdere. La barba lunga, sale e pepe. Capelli ancora folti, ma malcurati e a ciuffi caotici. Rughe sulla fronte, borse sotto gli occhi, che sarebbero anche di un bel blu cielo di primavera, come mi diceva Gina. Gina… Chissà dove sei.

    Un nuovo schianto, stavolta al piano di sopra, mi strappa al mio viaggio mentale. Cico, Jarl e Ivan volgono di scatto gli sguardi verso l’alto. No, ragazzi. Non sono i vostri invisibili unicorni. Questa è la signora del bicchiere. E del mozzicone. Mi vesto al volo, afferro le chiavi, esco e salgo due rampe di scale.

    3.

    Un ritmo house si diffonde per la casa. Mollo il bastone della scopa che mi è appena servito per infrangere in mille pezzi quel brutto vaso di ceramica danese, frutto di una relazione di qualche anno fa. Valuto con soddisfazione i cocci sparsi sul pavimento: tanto domattina Scooby Doo si farà la sua quotidiana passeggiata in casa e tirerà su tutto per me. Basta solo evitare di…

    Impreco come un carrettiere mentre un coccio acuminato mi si conficca nella pianta del piede. Zoppico verso la porta d’ingresso lasciando una scia di sangue degna di un vecchio film di Quentin Tarantino. Chi sarà a quest’ora? Lo spioncino digitale mi rimanda a schermo la figura di un anonimo cinquantenne con la barba lunga e la faccia da nerd invecchiato male. Le info dicono trattarsi del vicino del piano di sotto. Imbarazzata, e saltellante per il dolore, ordino a Holly di aprire la porta.

    – Buonasera – saluta il tizio non appena il battente virtuale scompare. Fa per cominciare un discorso evidentemente preparato ma gli occhi gli scendono sul pavimento lordo di sangue e la bocca gli si apre in una O perfetta. – Va tutto bene? – chiede incerto.

    – Sicuro che va tutto bene, mi taglio un pezzo di piede tutte le sere per vedere se ricresce – rispondo acida. – Cosa desidera, signor… Loddi? – chiedo, rammentando già a fatica il nome sullo spioncino. – Ha forse sentito qualche rumore? – domando finalmente sentendomi subito in colpa.

    – Eh, be’, sì. Ho pensato che io… Che lei… Ma posso aiutarla? – Indica il mio piede ferito, e quella che ormai sul pavimento si è trasformata in un’apprezzabile pozza di sangue.

    – Ah, mi scusi – alzo le braccia continuando a saltellare come un grillo azzoppato e a schizzare liquido rosso tutt’intorno. – Sì, grazie, guardi, alcol, cotone e garze sono in bagno – indico, sdraiandomi lunga sull’alcantara e cristando di nuovo, gli occhi al cielo, quando due gocce vermiglie profanano il bianco.

    – Ferma lì. Ci penso io. – L’ex nerd, così l’ho ribattezzato, è già pronto in versione medica d’emergenza. Mi ripulisce con gesti insospettabilmente efficienti e mi toglie con destrezza due schegge dal piede. Il disinfettante brucia, ma la compressa fredda in pochi minuti allevia il dolore e ferma l’emorragia. Non mi sono accorta: nel frattempo il tizio ha anche rimosso dal divano le due macchie di sangue. Con aria competente ora annuisce tra sé e si produce in una spettacolare fasciatura incrociata. – – Stia lì adesso, si riposi un attimo – mi ordina. Trova da solo lo sgabuzzino, prende secchio, straccio e spazzolone, e in poco tempo, con acqua fredda e olio di gomito ripulisce tutto.

    – Ci avrebbe pensato Scooby Doo domani! – mi lamento inutilmente.

    – Chi? – chiede l’ex nerd mentre strizza lo straccio dentro il secchio.

    Il mio robot di servizio – esalo, mentre mi prende la sonnolenza. Il Talisker, lo shock e l’emorragia stanno chiedendo pegno. – Questa è una casa tecnologica.

    – Ho visto – dice, mentre risciacqua il tutto e infila lo straccio insanguinato in un sacchetto per l’umido. – Questo lo smaltisco io – dichiara – mettendo il palmo sul petto a titolo di garanzia. Mugolo di disappunto, ma non ho la forza per oppormi.

    – Lei adesso è stanca, dovrebbe dormire – torna a consigliare. – Se mi permette la aiuto a mettersi a letto.

    – Eh no! – protesto, improvvisamente sveglia e lucida. – Ha già fatto abbastanza e io l’ho disturbata.

    Mi tiro su a sedere e metto giù le gambe. Una fitta al piede mi fa strizzare le palpebre.

    La aiuto, su, venga – dice il tizio, stendendomi una mano, mentre mi alzo facendo leva su una gamba e sollevando l’altra.

    – Adesso lei se ne va a casa – ordino con voce che cerco di rendere perentoria. Con successo. L’Infermiere Premuroso torna ex nerd, arrossisce e si dirige, con me sottobraccio, verso la porta.

    – Ce la farò, stia tranquillo, sono solo dieci chilometri da qui alla camera da letto.

    Stiro le labbra in una smorfia, lui sorride, ridiventa per un secondo l’Infermiere Premuroso.

    – Posso lasciarla? È sicura?

    Annuisco, decisa. Lui fa un passo indietro. Tende la mano per stringere la mia, ma io ho già chiamato Holly. Il tizio fa appena in tempo a ritirare il palmo che il gate polarizzato, più impenetrabile di una vecchia porta blindata, gli si serra davanti. Di nuovo sola e padrona della mia vita. Il Talisker ammicca dal tavolo della cucina. Saltello ancora per qualche metro e mi preparo il bicchiere della staffa. Mentre mando giù il primo, ardente sorso ambrato mi rendo conto che Holly ha registrato tutto.

    – Ok, Holly, replay – ordino. Quindici minuti precisi, dalla distruzione del vaso all’uscita di scena del tizio. Niente di compromettente, solo un’altra violazione di secondo livello al Codice Etico, puntualmente marcata col bollino giallo su un piano sequenza in HD lungo trenta secondi. Devo stare attenta. Alla terza violazione quelli del Timone mi daranno un bollino rosso e un TSO. Proprio una bella fine per una giornalista.

    4.

    Proprio gentile, signora Diletti. Anzi, signorina, se è vero quello che mi rimanda il palmare. La porta sbattuta sulla faccia senza complimenti. Diletti, Diletti… Quel nome sul campanello mi dice qualcosa. Cerco nella rete, attivo un VPN di sicurezza e mi si apre subito un mondo: ma certo, la signora del bicchiere infranto è proprio la figlia di quel tipo di cui parlano i libri di storia: prima giornalista e poi senatore a vita… Eccolo qui, veniva male in foto, però, con quell'improbabile ciuffo… Marco Diletti, morto nel 2019 a ottantatré anni, una vita tra Vecchio Regime, Transizione e Riunificazione. Etichette di comodo per riassumere quasi un secolo di storia e contraddizioni.

    Ma guarda che coincidenza, giornalista anche lei, operativa fino all'anno scorso.

    Scorro impaziente le pagine web e anche lo storico di qualche social. La fine della carriera di Bianca Diletti pare coincidere con il diffondersi del Male e il lockdown. Quel Male che a quanto pare si è portato via anche il padre di Bianca e che adesso ci ha aperto la strada al Timone, alla società digitale e ai droni.

    Scuoto la testa ripensando all'epidemia. Al dramma di Bergamo e Milano prima, poi di Roma, Napoli, Palermo e di tutto il Sud.

    Torno a leggere sul palmare e mi salta agli occhi un vecchio post di Twitter. Apro il link a un articolo di Bianca sulla continuità tra alcuni reduci del Vecchio Regime e il Timone: il vecchio e il nuovo è il titolo, che campeggia sulla foto di un brindisi di fine anno. Quarantenni noti e meno noti, ma anche qualche vegliardo, boiardi di un Paese dell'Est, grandi sorrisi col calice levato. Doppi petti, cappotti e sciarpe. Qualcuno che alza il palmo destro in un gesto che non pare proprio di giubilo verso l'anno nuovo.

    Sotto il post, un profluvio di insulti provenienti da decine e decine di utenti, quasi tutti con uno o più tricolori nell'avatar. Scorro la shamelist, e fra le ultime repliche leggo testualmente: presto la troia non scriverà più falsità. La data risale alla metà dell'anno scorso. Maggio, per la precisione. Quando è anche mancato suo padre.

    La rivedo per un attimo, anzi la immagino al finestrone del piano di sopra, scagliare nel vuoto il bicchiere, forse insieme ai brutti ricordi.

    Mi sento improvvisamente osservato. Non mi ero accorto, nella mia concentrazione, delle tre paia di occhi felini fissi su di me. Cico, Jarl e Ivan, statuine gemelle ma diverse, tutti e tre appollaiati sul tavolino davanti al mio divano. Sobbalzo, anche perché il sederone di Ivan, assestandosi, ha attivato il telecomando sottostante e la TV si è accesa a volume stentoreo sulle ultime notizie del canale no stop.

    Mentre tento invano di spostare il mio gatto più peloso e ciccione sento un percuotere ritmico sul soffitto. E poi, una voce stridula, soffocata ma assolutamente comprensibile: – Belin, la vogliamo finire coi rumori, stasera? Qui c'è qualcuno che lavora!

    Le o belle trascinate: Voltri o Sestri? Il caratteraccio di quelle parti. Un bel tipo, non c'è che dire. Sorrido e finalmente azzero il volume della tele per scoprire un altro suono, ritmico e pulsante, provenire dal tablet. Abbasso lo sguardo e vedo che al logo della VPN di sicurezza si è sovrapposto il timone rosso del Dipartimento interni. Link illegale, lampeggia la scritta in sincrono con il cicalio di avviso. Violazione di primo livello. Chiudo la pagina al volo, stacco la connessione di rete. Vado a controllare nel log della VPN: un sospiro di sollievo, i segugi si sono fermati due IP prima del mio. Esalo il respiro e poggio la testa sul divano.

    Quanti ricordi. Un’Italia affatto diversa. Uniformi, saluti romani. Poi, addirittura due Italie, divise da un confine tanto cervellotico quanto reale e invalicabile. Tragedie, operette, infine una riunificazione disposta a tavolino. Così ci hanno insegnato. Ma quanto sangue sparso, quanto sangue dimenticato. All’epoca ero un freelance, uscivo giusto dagli ultimi fumi di una carriera universitaria troppo lunga e di scarso successo. Spammavo di articoli il vecchio Secolo XX, e soprattutto l’ancora più antico Monitore, che poi avrebbe commesso, così dice almeno mio padre, l’errore fatale di assumermi.

    Due giornali all’antitesi: il Monitore, conservatore e tutto d’un pezzo, scabro come le facciate in ombra dei palazzi di questa vecchia città tignosa; l’altro, il Secolo XX, tutto preso dalle magnifiche sorti e progressive di quella che sarebbe potuta essere una nuova Italia unita, e magari anche di sinistra, sebbene non più comunista e ammuffita come la vecchia e agonizzante Repubblica Democratica che proprio qui nacque. Quando infine le due repubbliche si fusero, conservatori e progressisti si unirono a loro volta in un’alzata di spalle molto genovese: sarebbe durata pochissimo.

    E invece, eccoci qui. Quanto tempo è passato? Quindici anni? Roma ladrona si è presa tutto, e Genova langue dimenticata.

    Ma sto divagando. Me lo ricordano le iridi verdi di Cico. Sembra quasi rimproverarmi, dall’alto di quello scaffale della camera da letto che ho dovuto sgombrare di soprammobili per evitare che quel piccolo – si fa per dire, pesa quasi dieci chili – demolitore me li distruggesse tutti. Forse è proprio per quello che sembra così arrabbiato. Non gli piace il vuoto, proprio come a me, che dal divano mi sono trasferito qui a meditare sul nulla della mia vita.

    Almeno la signorina Chiara Diletti ha qualcosa da ricordare: la storia di un Paese, che dico, di due, tre Paesi alle spalle. Non è poco davvero. Tre nazioni in una, come un’offerta speciale del supermercato. Ricordo ancora la biografia uscita in quell’anno di grazia 2005, lei in copertina sorridente, in una composizione artistica di volumi arrangiata in vetrina come una piramide frattale. La Donna dei Due Mondi, così l’avevano iniziata a chiamare, cominciando da quell’aneddoto che puzzava di fake lontano un miglio: lei piccina in braccio al padre, fuggiaschi trent’anni prima sulle montagne fra San Marino e le Due Repubbliche… Quante volte lui l’aveva raccontata in televisione, ravviandosi quel ridicolo ciuffo che ormai si ricordava soltanto il mio vecchio. Lei, invece, aveva rilasciato poche e sobrie interviste, un blocco inesorabile ogni volta che qualcuno cercava di farla parlare di sua madre.

    Che strano.

    Io invece? Tanto per cominciare, mia madre non ce l’ho più, e di questo la incolpo ancora con cieca ira. In compenso mi rimane un padre anziano, permaloso e teledipendente. A proposito, stasera non l’ho chiamato. Provo in automatico, segreteria. Sarà per domani. Torno a rimuginare. Cos’altro posso vantare? Un lavoro insensato e sottopagato, una moglie che non c’è più, una simil fidanzata a volte invadente, tre gatti che mi hanno già invaso. Sorrido, infine, ammiccando al severo Cico, mentre gli altri due ciccioni saltano silenziosi sul letto e si buttano giù a pesce morto come solo loro sanno fare.

    Forse non è così importante. Forse è solo la solitudine. Carezzo distrattamente Jarl. Ne scompiglio il pelo leggermente crespo. Lo ascolto iniziare le sue fusa, più acute di quelle degli altri. Pian piano la vibrazione si sincronizza con il battito del mio cuore e mi addormento.

    5.

    Mi sono sdraiata di nuovo sul mio alcantara bianco. Incredibile come l’Infermiere Premuroso sia riuscito a far sparire quelle due odiose macchioline di sangue. Non ce n’è la minima traccia, e io sono maniaca in queste cose. Metto su un vecchio disco di Isaac Hayes. 1964, vinile rimasterizzato digitalmente, gli strumenti ben suddivisi fra il canale di destra e sinistra, la voce calda che pare giocare con le dita della mia mano, che adesso si stringono intorno all’ennesimo bicchiere. I toni bassi che riprendono la tonalità ambrata del whisky.

    La musica è colore e il colore musica, e entrambi sono calore, rifletto pigra, mentre mi accorgo che il piede non mi fa più quasi male. Raggiungo la pianta offesa con l’altra mano. Ahia. La fitta è ancora acuta. Mi scruto la fasciatura, non c’è sangue. Bene. Annuendo tra me poggio con cautela il tallone sulla spalliera del divano. Ha fatto un buon lavoro, l’Infermiere Premuroso, penso, mentre l’alcol mi scalda salendo dall’esofago alla clavicola agli zigomi agli occhi. Mi rilasso, e rammento all’improvviso l’odore di quell’uomo: colonia sportiva, niente di che, ma gradevole. Un volto come tanti, barba lunga e capelli in disordine, quasi non si notavano quei begli occhi. Peccato così segnati. Un ricordo, forse un rimpianto. Voleva accompagnarmi a letto. Da quanto tempo non lo divido con nessuno. Da quando papà era ancora vivo, e c’era… Chi c’era? Chiedo al soffitto. Ma sì, Tony, mi risponde l’uniforme superficie bianca. And I began to loose control, canto insieme al disco.

    Già, Tony. Lavoravo ancora, e non c’era ancora questo schifo in giro. I droni, intendo. E questo cazzo di iconografia nazista, coi timoni e i cieli azzurri. Non che non ne avessimo già avuta in passato. Ma così sembra una beffa. Tutta questa fatica per liberarsene, e ora…

    And I began to feel insane… canto a squarciagola insieme con lo stereo, proprio mentre la calda voce maschile lascia il passo all’accento southern di Katie Crutchfield. Strofe strappate come i miei pensieri, mentre il Talisker appiana il mio pessimo umore. Tony, Tony, mormoro fra me. Non capiva nulla di me, ma scopava da Dio e stava sul cazzo a mio padre. Come se il vecchio senatore a vita della Nuova Repubblica ci potesse vedere mentre ci davamo dentro sul suo vecchio divano di casa, quando ancora non vivevo qui e l’alcantara immacolato era ancora nei miei sogni.

    Quando papà era ancora vivo.

    All’improvviso punture di spillo agli angoli dei miei occhi. Lacrime tanto amare quanto inaspettate. Me le strofino via con un palmo, tirando su col naso. Con gli anni mi sono convinta di non amare poi così tanto quel vecchio pallone gonfiato. Così inutilmente pieno di sé. Così inutilmente pieno di me. Sarei dovuta essere la sua erede. Prima, La Donna dei Due Mondi. Poi, la Figlia della Repubblica. Me l’avevi preparata bene la strada. Scusa, papà, per non esserci riuscita. Scusa, papà, per non essere salita anche io su un carro armato per una diretta, o che cazzo d’altro stessi facendo tu quella sera di quasi mezzo secolo fa.

    E comunque anche Tony non c’è più, constato mentre mi verso le ultime due dita di liquido ambrato. Così come non c’è più neanche lei, mi rammenta la voce della bottiglia scolata.

    Mister America

    Try to hide

    The emptiness that’s you inside

    When once you find that the way you lied

    And all the corny tricks you tried

    Will not forestall the rising tide of

    Hungry freaks, Daddy…

    Frank Zappa mi irride. Lo so, sono paleolitica nei miei gusti. Ma dovevate sentire cosa si ascoltava mio padre. Puccini e Donizetti, Verdi quando era di buon umore, cioè quasi mai. Una volta lo presi in giro ricordandogli quel film di Fassbinder dove il protagonista psicopatico definisce volgare Donizetti in confronto ai madrigali di Orlando di Lasso. Cosa ne sa quel frocio di musica, era sbottato papà, che era inorridito di fronte a Querelle de Brest, censurato ai tempi in entrambe le Repubbliche, e malvisto anche in quella nuova. Costanti del moralismo, di destra, di sinistra e di centro.

    Così ero corsa allo stereo, lo stesso che ho qui adesso, e avevo messo su a tutto volume Freak Out! In tutta risposta l’ormai austero senatore a vita aveva abbandonato il salotto e se ne era andato in camera sua a fumare la pipa.

    Quanto mi manca quella pipa del cazzo, sibilo a denti stretti, battendo il palmo sull’alcantara. Allungo la mano verso il bicchiere, ma è inesorabilmente vuoto. Il mio viso è di nuovo bagnato di lacrime e i miei singhiozzi echeggiano in un rimbombo bizzarro…

    Cazzo, impreco. Il tizio di sopra. Ha acceso la televisione ad alto volume. Scatto in piedi, corro a prendere la scopa e ne sbatto il bastone sul pavimento, più volte, con rabbia. Grido, infine, la prima cosa che mi viene in mente. Me ne pento subito. Non voglio vedere più nessuno. Ma ormai è troppo tardi, il mondo fa troppo schifo e io sono troppo ubriaca.

    6.

    Lo specchio mi rimanda la solita fisionomia sofferente. Rughe e pelle cadente, barba ispida. Mi pizzico una guancia con due dita, la carne rimane increspata e giallastra per qualche secondo per poi tornare, lentamente alla sua configurazione originaria. Mi decido a sbarbarmi, nel modo frettoloso che Marghe detesta. Devo andare per forza al Monitore, e lei è solita accogliermi con una carezza veloce della mano. Apparentemente distratta, ma non tanto da non farle rilevare ogni minima increspatura. Ha la pelle delicata, Marghe, e detesta la mia carta vetrata sul viso.

    Faccio del mio meglio, ma detesto rasarmi almeno quanto lei detesta i miei peli ispidi. Metto su un paio di pantaloni meno liso del solito e una maglietta nera. Benissimo, Marghe mi contesterà anche il colorito pallido che poco si addice al mio abbigliamento tetro. E dire che mi sento abbastanza bene, nonostante lo scarso sonno della notte scorsa, disturbato da un ronzio particolarmente persistente dei droni di sorveglianza.

    Esco e il sole mi colpisce come una martellata sulla fronte. Forse Marghe ha ragione, dovrei passare più tempo all’aria aperta. Mi faccio scudo agli occhi con una mano e guardo in alto: c’è in effetti un traffico intenso di scarafaggi – qui li chiamano tutti così – sopra la quota dei cinquanta metri stabilita

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