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Il quadro che visse due volte
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E-book169 pagine44 minuti

Il quadro che visse due volte

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Info su questo ebook

Hitchcock, Visconti, Ford, Dreyer, Saura, Scott, Minnelli, Kubrick. Sono registi, maestri assoluti. La loro estetica è riconoscibile e magica. È un incanto perenne. Fotogrammi che si assestano nella memoria di chi li ha visti, e lì rimangono.


Perché questi autori si sono affidati ad altri maestri, quelli della pittura, hanno riconosciuto la prevalenza di quell’arte nobile e hanno portato, nei loro film, quel grande valore aggiunto.


Hitchcock ha esplorato Hopper: l’inquietante casa di Psyco. Visconti ha attinto da Hayez: il famoso bacio in Senso. Il gladiatore di Ridley Scott è semplicemente un dipinto di Gérôme. Kubrick ha “ricostruito” gli inglesi del Settecento, come Hogarth, in Barry Lyndon e mostrato opere contemporanee (Brancusi) in Arancia meccanica. John Ford ha “rifatto” Remington, gran pittore del West in Sentieri selvaggi. Saura anima Goya (La fucilazione sulla montagna) nel suo Goya. I personaggi di Dreyer in Dies irae escono letteralmente dai quadri di Rembrandt.

Artisti come quelli citati, applicati ai film: dunque “scenografi” strepitosi, irripetibili, non più rintracciabili. Non sarebbero bastati... gli Oscar.
 Il quadro che visse due volte offre la chiave di lettura di questa straordinaria reciprocità fra la grande pittura e il grande cinema.
LinguaItaliano
EditoregoWare
Data di uscita24 set 2012
ISBN9788897324539
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    Anteprima del libro

    Il quadro che visse due volte - Rossella Farinotti

    volume.

    Il testimone figurativo

    Quando nel 1907 Picasso compone le sue Demoiselles d’Avignon 1 di fatto determina una svolta nella storia dell’arte e porta la pittura su una strada di evoluzione e ricerca che decreta la fine del figurativo. A oltre un secolo da quello snodo gli artisti hanno dovuto adeguarsi, ricercare e investire, con risultati diversi, con opere più o meno importanti, congrue, oppure semplicemente incomprensibili. Seguirono polemiche a non finire, e continuano. Con un comune denominatore: alla comprensione del grande pubblico occorreva la mediazione di un critico.

    Certo, ci sono artisti che fanno il figurativo, paesaggisti, ritrattisti, e ci saranno sempre. Ma l’arte contemporanea, quella dello sviluppo, dei musei, delle gallerie e dei mercanti, è molto lontana dal figurativo, dal reale. Per dirlo in chiave ancora più semplice: dalla fotografia. Non è improprio dire che il testimone figurativo, all’inizio del Novecento, è passato dalla pittura al cinema.

    Titolari della rappresentazione del reale sono dunque i film. Da quel momento la forbice è andata allargandosi, la distanza si è dilatata. Mentre un Carné negli anni Trenta dipingeva il suo realismo cosiddetto poetico (un Gabin nella nebbia del porto di Brest), un altro francese, Georges Braque – superata la fase cubista di Picasso – sperimentava collage, nature morte, il mare e il volo degli uccelli letti come simboli nuovi e complessi. Il tutto lontanissimo dal figurativo. E così, mentre De Sica otteneva un fotogramma perfetto fra documento e finzione in Ladri di Biciclette, Lucio Fontana spaccava gli ambienti, creando una terza dimensione con tagli di luce bianca e nera, colorata, innaturali, impossibili. Nessuna immagine riconoscibile. Questi esempi sono essenziali per determinare la distanza fra le due discipline: ricerca e simbolismo nell’arte definivano e confermavano il cinema come titolare del figurativo.

    Classica

    Naturalmente l’arte figurativa, quella grande, quella classica, quella della sindrome di Stendhal, non poteva essere ignorata dal cinema. Così come il cinema non ha potuto ignorare i grandi romanzi. La pittura è dunque una miniera dalla profondità infinita. Per molti aspetti, a cominciare dalle vite. I pittori erano spesso artisti estremi, con tutte, proprio tutte le coccarde della pazzia artistica. Una manna per gli sceneggiatori. Qualche nome e attitudine esemplari: Caravaggio il maledetto, la vita disperata di Van Gogh, il tormento di Michelangelo, il furore mistico di Goya, la predestinazione mortale di Modigliani, il machismo e la vitalità travolgente di Picasso, l’energia oltre gli ostacoli di Frida Kahlo. Tutti film realizzati. Insieme a molti altri.

    Opere

    Le vite sono un segmento. Poi ci sono le opere. Per cominciare valgono quelle degli artisti appena scritti. Chiamiamola ispirazione. In 2001: Odissea nello spazio ► 2, Kubrick ha certamente studiato Mondrian ► 3. Ancora Kubrick saccheggia Gainsborough ► 4, 5, Zoffany ► 6, Stubbs ► 7 e Constable ► 8, 9 in Barry Lyndon. Ejzenštejn aveva ben presenti Golovin e Wjatscheslaw G. Schwarz ► 10 in Ivan il terribile ► 11. Dreyer spiegò come certe sequenze di Dies irae fossero ispirate a Rembrandt.

    Ci sono dei fotogrammi in Sentieri selvaggi di Ford che sembrano pitture di Remington. Hopper è una grande fonte di ispirazione, tra gli altri, per Psycho, La stangata e Manhattan. Antonioni studiò Rosenquist per Zabriskie Point ► 12.

    Il Nosferatu di Herzog ► 13 è una derivazione di Friedrich ► 14. Senza contare i vari titoli dell’espressionismo. Poi c’è il solito Urlo di Munch ► 15, usato dovunque ► 16, 17, 18, anche nell’animazione. Sono stati citati doppi maestri, ma siamo ancora alla punta dell’iceberg.

    Focus. Luchino Visconti

    E adesso focus su un maestro tralasciato sopra, Luchino Visconti. Nel 1954 il regista milanese firmò Senso, un vero kolossal; venne venduto come il Via col vento italiano. Era una storia risorgimentale: la contessa Serpieri (Alida Valli), moglie di un aristocratico filoaustriaco, parteggia segretamente per i patrioti italiani; s’innamora di un giovane ufficiale, Franz Mahler (Farley Granger). Letteralmente perde la testa per lui. Alla fine tradisce tutti, compreso l’amante, che viene fucilato. Grande spettacolo, grandi colori e strepitoso mélo. Visconti chiamò due scrittori drammatici come Paul Bowles e Tennesse Williams che, per aderire a quello che ritenevano uno spirito romantico da romanzo d’appendice, esagerarono e tradirono (anche loro) la propria attitudine compromettendo il lavoro della nostra Suso Cecchi D’Amico. Melodramma

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