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La tragedia di Mayerling
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E-book203 pagine2 ore

La tragedia di Mayerling

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Info su questo ebook

Nel gennaio del 1889 la corte imperiale d'Asburgo è scossa da un evento terribile: nel comune rurale di Mayerling, nel distretto di Baden, vengono ritrovati i corpi senza vita dell'Arciduca Rodolfo – figlio dell'imperatore e principe ereditario d'Austria – e della sua giovanissima amante Marie Alexandrine von Vetsera. Le ipotesi si mescolano ben presto coi pettegolezzi, trasformando una tragedia famigliare in un episodio sottoposto alle più morbose attenzioni dell'opinione pubblica mondiale. La teoria del suicidio, in opposizione all'impossibilità per i due di sposarsi, comincia ben presto a farsi strada, gettando una luce disdicevole sull'intera casata asburgica. Con uno stile asciutto e preciso, che non indulge mai in frivolezze, ma si attiene a un rigore storico costante, Borgese ci racconta così uno degli eventi più scioccanti dell'alta società europea di fine Ottocento... -
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2023
ISBN9788728552889
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    Anteprima del libro

    La tragedia di Mayerling - Giuseppe Antonio Borgese

    La tragedia di Mayerling

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1925, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728552889

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Giuseppe Antonio Borgese è stato uno dei personaggi salienti della cultura italiana durante la prima metà del secolo. Nel romanzo, nella critica letteraria, nel giornalismo, egli ha lasciato tracce durevoli. L’indipendenza da correnti e da scuole, e la stessa versatilità dell’ingegno hanno ostacolato sinora una precisa collocazione critica della sua figura nel quadro della letteratura italiana del Novecento, ed un consuntivo esauriente della sua attività; tuttavia un romanzo come Rubè e un’opera come la Storia della critica romantica in Italia restano punti fermi non solo della sua bibliografia e sembrano destinati a rimanere.

    Nato nel 1882 a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, Borgese esordi ventenne con alcuni saggi pubblicati dal «Leonardo» di Papini e dalla «Nuova Antologia». Il Croce, segnalando quei saggi, parlò di Borgese come della piú bella speranza degli studi letterari in Italia, ed accolse nelle edizioni de «La Critica» la tesi con cui il giovanissimo studioso si era laureato a Firenze. In quella tesi, dedicata alla Storia della critica romantica in Italia. Croce vide una precoce e geniale applicazione delle sue teorie estetiche. L’opera, che recentemente è stata stampata dalla casa editrice Il Saggiatore nella collana I Gabbiani, era destinata a rimanere una delle piú organiche del Borgese.

    Tra il 1905 ed il 1915, Borgese si dedicò soprattutto al giornalismo e alla critica militante, ma divenne anche (1909) professore di letteratura tedesca all’Università di Torino, poi in quelle di Roma e Milano, dove, dal 1924 al 1931, fu titolare di estetica. Come giornalista fu capo redattore del «Mattino», inviato speciale e critico letterario della «Stampa» e del «Corriere della Sera».

    Molte fame letterarie decretò Borgese, e molti suoi giudizi rimangono fondamentali. Particolarmente pronte e illuminanti le definizioni del mondo psicologico di poeti e narratori contemporanei, da Gozzano a Tozzi, da Panzini a Pirandello, da Moretti a Palazzeschi. Anche quando Borgese abbandonò, dopo il 1923, la critica militante, sue furono le prime autorevoli segnalazioni di autori giovanissimi, come Moravia, Soldati, Piovene.

    Nel 1931 Borgese si recò negli Stati Uniti per tenere alcuni corsi universitari. Era il periodo in cui il fascismo chiedeva ai professori di giurare fedeltà al regime: Borgese, che non aveva mai fatto mistero del proprio antifascismo, preferí l’esilio. Dall’ America non sarebbe tornato che alla vigilia della propria morte, avvenuta a Fiesole nel 1952. Le opere dell’ultimo periodo sono dedicate prevalentemente ai problemi della politica e della società. In Golia, marcia del fascismo condannò il totalitarismo fascista, in Idea della Russia quello comunista. La sua passione civile – di cittadino del mondo – e insieme le venature utopistiche del suo pensiero appaiono evidenti nel Disegno preliminare per una Costituzione Mondiale pubblicato in America nel 1948.

    Ai suoi esordi, Borgese fu ritenuto un crociano; in seguito, un oppositore di Croce. In realtà, al suo carattere mobile, prensile, impetuoso, ripugnava di essere imprigionato in schemi. La stessa molteplicità dei suoi interessi – fu anche poeta e autore di teatro – è una spia di questo dato psicologico fondamentale. Piú sensibile, anche se respinta e negata, l’influenza di D’Annunzio. La situazione da cui parte il suo maggior romanzo, il Rubè è, come scrisse il Momigliano, una situazione dannunziana, sebbene di un dannunzianesimo sfrondato dagli allori. E lo stile di Borgese si modellò in un rapporto costante, anche di opposizione, con le giovanili suggestioni dannunziane.

    In La tragedia di Mayerling Borgese affronta un tema nello stesso tempo storico e leggendario, passionale e politico, intimo e pubblico, che commosse l’opinione pubblica dell’intera Europa: il suicidio dell’erede al trono di Austria-Ungheria, Rodolfo, e della sua giovane amante, Mary Vétzera, avvenuto all’alba del 30 gennaio 1889, nel castello di Mayerling, presso Vienna. È lo stesso tema su cui Borgese aveva scritto un’opera di teatro, L’Arciduca, messa in scena da Dario Niccodemi nel 1924. Borgese ricostruisce i fatti sulla base di una documentazione di prima mano, ed approfitta della sua profonda conoscenza del mondo germanico per delineare, nella filigrana di due destini, un clima storico percorso da germi di crisi.

    La tragedia di Mayerling è un modello di ricostruzione giornalistica: mantenendosi aderente ai fatti, in polemica con deformazioni e pettegolezzi, Borgese riesce a dare un’immagine coerente dei protagonisti del dramma, e restituisce loro la dignità di personaggi tragici. Neppure le piú recenti pubblicazioni sull’argomento – la biografia Il principe ereditario Rodolfo d’Austria di H. W. Richter uscita in seconda edizione nel 1949 e Gli originali di Mayerling. Atti ufficiali del regio-imperiale presidio di polizia pubblicati nel 1955 – hanno modificato, salvo alcuni dettagli marginali, l’intelligente, minuziosa ricostruzione del Borgese.

    La tragedia di Mayerling

    Prefazione

    Già prima della guerra la sorte di Rodolfo di Austria e di Mary Vétzera m’era apparsa, per dirla con parola alfieriana, sommamente «tragediabile»: tema nello stesso tempo storico e leggendario, passionale e politico, intimo e pubblico. Essa offriva, oltre tutto, un esempio stranamente intenso di come un fatto reale, se le circostanze aiutino, possa rapidamente assumere un aspetto favoloso e mitico. Non erano ancora passati trenta anni; parecchi dei personaggi di Mayerling vivevano; eravamo in un’epoca di pubblicità abbagliante e d’orgogliosa esplorazione critica, che presumeva di ricostituire la certezza non solo intorno agli avvenimenti prossimi ma perfino intorno alla guerra di Troia e al re Numa Pompilio. Eppure era bastata la volontà di Francesco Giuseppe, congiunta ai pudori sentimentali e agli interessi pratici di pochi altri, perché della tragedia di Mayerling quasi nulla fosse certo se non la mera constatazione che fra il 29 e il 30 gennaio del 1889 un principe e una signorina sua amante erano morti di morte violenta. In questa atmosfera l’ignota realtà poté subire deformazioni d’ogni genere: da quelle di maniera turpe e brutale a cui la sottoposero i romanzieri di portineria e gli infimi reporters, a quelle, idealizzatrici, di una vaga e inafferrabile opinione secondo la quale Rodolfo finiva per apparire un infelice martire di libertà e di giustizia, un nuovo Don Carlos, e Mary una vittima pura, quasi somigliante alla Giulietta di Shakespeare. Le pagine seguenti mostreranno come questa vaga e inafferrabile opinione fosse sostanzialmente la piú vicina al vero.

    La guerra e i suoi risultati accrebbero le risonanze del fatto. Sembrava lecito vedere nella fine di Rodolfo un prodromo del crollo. Le idee impetuose e immature del secolo XIX, le aspirazioni a una società ideale e perfetta, giungevano con lui a una disgraziata insurrezione, che faceva presentire l’inanità delle tentate rinnovazioni, la necessità della catastrofe. Gli Absburgo, abbandonando alla morte, sull’ultimo tratto della loro strada, il figlio ribelle, riuscivano a preservare se stessi e la loro legge; ma per poco; e la nemesi li raggiungeva a Vittorio Veneto e a Madera. Essi meritavano di perire; a Rodolfo e allo schematico ideale ch’egli rappresentava era mancata e mancava la forza di vincere; il nuovo secolo, quello cominciato nell’autunno del 1918, sorgeva deluso davanti a una tabula rasa, a un mondo tutto da capire e da fare. Senonché, non si poteva anche supporre che questa visione della tragedia di Mayerling fosse l’amplificazione inconsistente di un fatto di cronaca tanto illustre quanto brutto? Se il poeta si sentiva tentato dai significati e dalle lontananze che guerra e rivoluzioni parevano dare alla tragedia di Mayerling, allo storico s’imponeva la piú prudente cautela. Giacché, quanto alla speranza che l’armistizio e la repubblica, dissigillati gli archivi, facessero venire in luce la verità, bisogna dir subito che fu speranza in massima parte vana. Poco venne fuori dagli archivi; le rivelazioni testimoniali rimasero frammentarie, e contraddittorie, e spesso sospette; gli ultimi personaggi, uno dopo l’altro, sparivano e morivano; e in nessun caso sarebbe stato possibile, o umano, estorcere confidenze agli estremi superstiti, sottoporre a interrogatorio la madre di Mary o la vedova di Rodolfo. Il protagonista era dunque quale io tendevo a raffigurarmelo, o uno squilibrato qualunque, come altri voleva? La donna ch’era morta con lui era una specie di Parca che aveva guidato un eroe all’ultimo passo, o un’avventuriera di basso rango?

    La storia, si dice, cerca il vero e l’arte cerca il bello. Ma il bello è pure un aspetto del vero, e non si concepisce il sorgere di un’opera d’arte che si ponga in insolente contrasto con la coscienza intellettuale del suo tempo. Nel mio caso, poi, il problema si presentava piú delicato e complesso del solito, perché non poteva escludersi che da un giorno all’altro il «mistero» improvvisamente si chiarisse e mostrasse inani le figure drammatiche costruite su un’ipotesi frettolosa. Può essere che cosí dicendo io erri, anche se non è disonorevole errare sulle tracce del Manzoni; ma non errerò certo confessando quale fosse il mio stato di coscienza in quel tempo. Non sapevo staccarmi dal tema che amavo; e tuttavia nei miei personaggi volevo credere pienamente; e non mi sentivo tranquillo di ciò che vedevo con la fantasia e il sentimento finché la storia non avesse controllato e approvato quel modo di vedere. Sicché fui costretto a mettere in chiaro la sostanza storica del tema per vivere il tema poetico con pienezza di fede; mentre sarebbe superfluo aggiungere che questa fatica non mi fu fastidiosa, e che la mia curiosità della storia moderna e del clima letterario e morale in cui si formò la passione di Rodolfo e di Mary era già, di per sé sola, abbastanza fervida perché l’indagine storica, anche senza i fini artistici a cui giovava, mi occupasse la mente.

    Fui sui luoghi, interrogai chi potei, ascoltai opinioni, raccolsi libri, opuscoli, immagini. Ma il massimo sforzo, poiché non serviva sperare negli archivi, dové concentrarsi in un esame, mi sia lecito dirlo, industrioso e perseverante, delle fonti accessibili, in una specie di processo indiziario donde la verità emergesse soprattutto per effetto del confronto fra i testi. Le pagine che seguono, il racconto della Tragedia di Mayerling, offrono i risultati di questo lavoro; e non mi si farà colpa di averli esposti con studio di concisione, curando di dare al lettore i punti di arrivo con sobrie indicazioni delle strade seguite, senza vanagloriarmi esibendo le lunghe peripezie che ogni pagina, posso dire, è costata.

    Il dramma di Rodolfo, L’Arciduca, fu rappresentato a Milano nell’aprile del ’24. La Tragedia di Mayerling, di cui il materiale era già pronto, fu scritta nei mesi successivi e pubblicata dapprima in sei fascicoli della Lettura. Qui riappare con correzioni ed aggiunte, con note giustificative.

    E non avrei altro da dire, se la coscienziosità di storico con cui m’ero messo al dramma storico – titolo di merito piú modesto, ma meno opinabile del valore artistico – avesse ottenuto la generalità di riconoscimenti cui ritenevo di poter aspirare. Invece, molti in Italia videro nell’Arciduca l’abbellimento sentimentale e romantico di un fattaccio: tanto avevano potuto le dicerie eteroclite e scandalose che, abbarbicatesi per piú di un trentennio sul segreto ufficiale, avevano infittito la confusione e deturpato la memoria. A Budapest un critico autorevole negò perentoriamente che Rodolfo potesse avere inclinazioni magiarofile e che gli avvenimenti ungheresi del gennaio ’89 potessero esercitare un qualsivoglia influsso sul suo destino; e a lui manderò questo libro, pregandolo di riflettere con pensiero meno preconcetto sulle concomitanze da me stabilite e sulle parole, non mie ma di Rodolfo stesso, circa i suoi atteggiamenti politici verso l’Ungheria. A Vienna, un altro critico, Arnold Höllriegel, benché assai benevolo a me e alla mia opera, sorrideva (nel Tag del 22 giugno ’24) dell’ingenuo drammaturgo che faceva cantare il fiaccheraio Bratfisch in lingua toscana. «Il traduttore tedesco» soggiungeva fra parentesi «avrà qualche imbarazzo a ritradurre in viennese queste scene… ». Ma nessun imbarazzo. Bastava che il traduttore copiasse pari pari dalla Canzone del Fiaccheraio, dal Fiakerlied in dialetto viennese, le strofette che io avevo volte in toscano. Il lettore troverà in questo libro le parole originali e la musica; e troverà anche, se ne abbia curiosità, la lettera ch’io scrissi quando, tradotto l’Arciduca in tedesco, la censura viennese credé giusto di vietarne la rappresentazione, non per ragioni politiche ma per riguardo ai parenti superstiti di quelli ch’ebbero parte nella tragedia di Mayerling.

    Poi, parecchi di questi superstiti – e fra essi la piú importante, la madre di Mary – sparirono. Cercai di tenermi al corrente delle nuove confessioni e scoperte; ma nulla venne fuori che con autorità ed evidenza inoppugnabili svelasse il mistero, e nulla d’altro canto fu detto che contraddicesse seriamente alle mie deduzioni. Nuove sciocche leggende fiorirono da un momento all’altro. Si disse a un tratto che Mary Vétzera non fosse morta ma sopravvivesse, col viso sfigurato, in un convento; e la contessa Larisch, quella che. trentacinque anni prima era stata la male augurale confidente della fanciulla, mostrò di credervi. Nel marzo del ’25 morí un pover’uomo, tale Alberto Goebel, merciaio ambulante; e la vedova ed altra gente almanaccarono ch’egli fosse l’arciduca Giovanni di Toscana, Giovanni Orth in persona, sotto mentite spoglie. Fiorirono da un momento all’altro le nuove fandonie, e durarono lo spazio d’un mattino.

    Frattanto il dr. Otto Ernst, a cui dobbiamo la pubblicazione dell’epistolario di Francesco Giuseppe, poté esplorare l’archivio di corte; ma su Mayerling, com’era da aspettarsi, non trovò nulla d’importante, tranne i telegrammi con cui l’imperatore annunciò ai sovrani la morte dell’erede. In tutte le corti volle accreditare la menzogna dell’accesso cardiaco («Herzschlag» o «coup de sang») e soltanto al pontefice non osò nascondere la verità. Messo in chiaro documentariamente questo punto, su cui d’altronde non restavano dubbi ammissibili, per tutto il resto anche l’Ernst dové valersi di ragionamenti e d’induzioni. Ma il parere d’uno studioso, che aveva letto e ascoltato il leggibile e l’ascoltabile e a cui nulla era ignoto di quanto potesse sapersi circa i modi di sentire e di agire alla corte viennese, ha un’autorità singolare. Egli lo ha

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