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Prima e dopo il noir
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E-book530 pagine7 ore

Prima e dopo il noir

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Un'appassionata e colta ricognizione sul cinema noir dalle origini ai giorni nostri. Dai grandi film hollywoodiani fino alle serie televisive di grande successo degli ultimi anni.

Stefano Sciacca è nato a Torino nel 1982. Laureato in Giurisprudenza, ha studiato Human Rights Law presso l’Università di Oxford. È stato Fellow del Nexa Center for Internet & Society del Politecnico di Torino e ha lavorato per l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale. Collabora con la rivista “Giurisprudenza Italiana” (Utet). Cinefilo e giurista, ha pubblicato Il diavolo ha scelto Torino (Robin, 2014), La vendetta di McKoy (Europa edizioni, 2014), Fritz Lang, Alfred Hitchcock. Vite parallele (Falsopiano, 2015).
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2020
ISBN9788893041904
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    Anteprima del libro

    Prima e dopo il noir - Stefano Sciacca

    2020

    Prefazione

    di Silvio Alovisio

    Nessun altro genere cinematografico può vantare una bibliografia così sterminata come quella che è stata dedicata al noir a partire dalla fine degli anni Quaranta e dai primi anni Cinquanta, ossia dai tempi in cui Nino Frank, Pierre Chartier, Raymond Borde ed ètienne Chaumeton – come ci ricorda puntualmente Stefano Sciacca - coniarono questa fortunatissima categoria critica, poi fecondamente metabolizzata anche in ambito anglo-americano. Per avere una scala di grandezza del fenomeno editoriale può essere sufficiente citare un dato, tanto oggettivo quanto impressionante: se si digitano le parole film noir nel campo title di Amazon.com, i risultati della ricerca restituiscono i dati di oltre settecento monografie. In questa gigantesca biblioteca virtuale il genere è scientificamente sezionato in tutte le sue possibili declinazioni e nella pluralità quasi illimitata dei suoi temi culturali, sociali, ideologici, narrativi, stilistici, tecnici, filosofici: le donne, la modernità, l’influenza della cultura ebraica, il fatalismo, la città, le fonti letterarie, la musica, la mascolinità, la paranoia, le tecniche di illuminazione, e così via. Sarebbe tuttavia depistante collocare il libro di Sciacca all’interno di questa smisurata, prismatica e anche – va detto – assai diseguale produzione di studi sul genere (ben problematizzata nei suoi diversi modelli teorici e interpretativi da Massimo Locatelli nel suo eccellente studio Perché noir, pubblicato nel 2011 da Vita & Pensiero).

    A metterci in allerta rispetto al rischio di tale errore, in realtà, dovrebbe essere il titolo stesso del volume, Prima e dopo il noir , apparente indizio di una scelta che sembrerebbe rimuovere il noir classico americano dal perimetro della ricerca. Ma anche in questo caso occorre fare attenzione ed evitare le semplificazioni: il prima e il dopo qui non indicano tanto la possibile scelta da parte di Sciacca di soffermarsi solo sulla fase aurorale, quasi archeologica, del genere, per saltare poi direttamente allo studio delle sue numerose filiazioni postume contemporanee. L’autore infatti non intende certo rimuovere dai suoi percorsi intertestuali la golden age del genere, alla quale anzi dedica numerose pagine, non celando le sue predilezioni in materia di registi e di film, con quella competente passione cinefila e con quelle solide aperture culturali già dimostrate nel suo precedente studio su Lang e Hitchcock. Le indicazioni temporali dichiarate nel titolo segnalano piuttosto la volontà di individuare nel cinema noir il sintomo particolare ma potente, l’esito peculiare ed eclatante di un complesso processo storico dai confini cronologici ed espressivi ben più estesi rispetto al genere stesso, capace quindi di esistere, appunto, prima, durante e dopo il noir. Quest’ultimo si profila dunque per l’autore non tanto e non solo come un genere storicamente determinato e socialmente condiviso, con un corpus filmografico circoscrivibile (per esempio i 745 titoli schedati da Michael F. Keaney nella sua utile Film Noir Guide pubblicata nel 2010 da McFarland), profondamente legato - per citare il corposo studio di Venturelli uscito nel 2007 per Einaudi - a un’età (dal 1940-1941 al 1958, anno di Touch of Evil di Orson Welles), e tipico di un cinema nazionale a vocazione globalizzante (Hollywood, ovviamente). Le mappe del noir, nella proposta di Sciacca, fanno parte piuttosto di un atlante culturale molto eterogeneo, talmente stratificatosi nel corso dell’Otto e Novecento al punto da disegnare una cartografia quasi inestricabile se non addirittura contraddittoria, ma resa coerente ed unitaria - in una disseminata pluralità di riferimenti, di correnti, di esperienze creative - dal suo riferirsi principalmente a un unico forte paradigma: il rapporto con la realtà dell’età moderna. Con questa premessa interpretativa, allora, la cartografia del noir presuppone una filogenesi, le cui origini risalgono alla nascita e all’affermazione dell’egemonia borghese, e alla successiva rivelazione dei limiti di questa egemonia e del suo lascito di promesse disattese, di certezze compromesse e di ipocrisie malcelate.

    Dopo l’irreparabile frattura aperta dalla rivoluzione francese, la storia culturale dell’Occidente vive due secoli di produttive ma spesso drammatiche tensioni: per ricordarne solo alcune, tra progresso e reazione, scienza e arte, natura e cultura, impressione ed espressione, soggettività e oggettività, logica e sentimento, ragione e follia, individuo e classe, essere umano e ambiente, campagna e città, eroe ed antieroe ecc. Intorno a queste polarità si sono incontrate e scontrate tendenze filosofiche, ideologiche, artistiche e creative divergenti: l’illuminismo e il romanticismo, il naturalismo e il simbolismo, fino all’eversiva esplosione anti-borghese scatenata dalle avanguardie storiche, in particolare dall’espressionismo e dal surrealismo. In questa temperie creativa di schieramenti e attacchi, di reazioni e contro-reazioni, di ascendenze e discendenze ciò che unisce esperienze così distanti è il condiviso riferirsi al rapporto – spesso inquieto – con la realtà. La rivoluzione realista ottocentesca, artefice – per citare l’autore - di una elevazione della vita quotidiana e dell’ordinario al livello dell’ideale è in definitiva per Sciacca la matrice di questo lungo e tormentato processo storico-culturale che trova nel noir un’espressione particolarmente angosciata, disorientata e critica, proprio in ragione delle sue tensioni interne (per esempio tra cinico individualismo e sensibilità ai danni collaterali della modernizzazione, tra documentazione della realtà metropolitana e irruzione soggettiva dell’incubo, tra evidenza fotografica del presente e peso psichico insopprimibile di un passato che non passa).

    Appare evidente, allora, il punto di vista fortemente politico, ancora prima che estetico-stilistico, dal quale l’autore – senza nascondere la sua posizione (si vedano i ricorrenti riferimenti allo storico marxista Howard Zinn) - ricostruisce la presenza del noir nella storia del cinema novecentesco. Il noir per Sciacca non può essere solo un’etichetta di genere con i suoi stilemi e la sua precisa riconoscibilità storico-sociale ma non può nemmeno essere visto – attenzione – come una categoria metastorica, quasi astratta: al contrario è una poetica storica diffusa, un campo di forze critiche insieme positive e negative che riverberano dagli incubi weimariani del cinema espressionista alle macerie del cinema neorealista, dalle nebbie socio-esistenziali del realismo poetico francese alla frontiera sempre meno luminosa di certi film western. Il genere noir, insomma, si ridisegna in queste pagine come una sorta di nebulosa ideologica la cui espansione transtestuale si attiva o riattiva nei periodi di crisi (i due dopoguerra, gli anni Settanta ecc.): si tratta comunque di una ideologia non dogmatica, non sistematica, pronta a confrontarsi con modelli culturali molto distanti fra loro (non solo gli Stati Uniti sulla soglia del maccartismo ma anche, appunto, la Francia del fronte popolare, l’Italia sconfitta del secondo dopoguerra, il cupo Giappone metropolitano di Cane randagio), sempre oscillante tra la protesta e la disperazione, tra la resistenza e la sconfitta.

    Interpretare il noir in chiave ideologica non è un gesto ermeneutico nuovo (si legga per esempio il recente volume di Fabio Vighi, Critical Teory and Film. Rethinking Ideology trough Film Noir , pubblicato da Continuum nel 2012) anche perché ormai – come si è detto in apertura – nulla si può scrivere di interamente originale su questo fenomeno. Persino la scelta di aprirsi al confronto con le avanguardie è già stata fatta, in passato, in particolare per l’espressionismo e per il surrealismo (sul ruolo dei surrealisti nell’invenzione critica – tutta francese - del noir, per esempio, ha scritto pagine documentate e illuminanti James Naremore nel suo fondamentale More Than Night. Film Noir in Its Contexts, pubblicato nel 2008, in seconda edizione ampliata, da University of California Press). Ma l’obiettivo di Sciacca non è riconoscere filologicamente la texture delle influenze, o la mappatura delle eredità: il suo interesse prioritario è identificare la genesi, lo sviluppo e le conseguenze ultime di un inquieto comune sentire che unisce tempi e spazi della creazione artistica in apparenza così lontani. In questa prospettiva, allora, non è rilevante verificare se – per esempio – gli sceneggiatori di Il mistero del falco o di Le catene della colpa siano stati esplicitamente ispirati da Dostoevskij, mentre è interessante il tentativo di identificare le sorprendenti e numerose cogenze tra il romanzo dostoevskiano – considerato da Sciacca come uno dei fari della rivoluzione realista, insieme alla pittura di Courbet - e il cinema noir (la disumanità della metropoli, l’isolamento dell’antieroe rispetto alla sua comunità, la ricorsività dell’incubo, l’empatia – purtroppo non salvifica – dell’amicizia virile, l’oppressione psicologica del passato e del rimorso, l’inefficacia della ribellione, l’inevitabilità della punizione ecc.). E lo stesso vale per i dipinti di Van Gogh, di Munch, di Kirchner, o per i racconti di Hoffmann, di Gogol, di Conrad, per citare solo alcune fondamentali tappe di questo colto e singolare viaggio non solo cinematografico che, ne siamo certi, continuerà a coinvolgere il lettore anche dopo la sua ultima pagina.

    Istruzioni per l’uso

    Proseguendo con audacia a esplorare il territorio dell’assurdo e della destrutturazione di genere, i fratelli Coen hanno realizzato Ave Cesare! (2016): opera straordinariamente complessa e complicata, pur nella sua breve durata, che sfugge a qualunque definizione. Essa ha assunto i toni della commedia ma strizzato l’occhio al noir, di cui ha sfruttato uno degli spunti più ricorrenti e il finale beffardo: immaginando un grande colpo criminale, un malloppo che va perduto e la cattura dei suoi autori. È stata l’esasperazione dell’aspetto comico della tipica tragedia noir.

    Dal momento che il racconto è stato ambientato negli studios cinematografici all’epoca della Hollywood classica, molti episodi del film, iniziati ed esauriti all’interno di un set proprio, simile a una scatola chiusa, a un mondo a sé stante, hanno poi adottato quelle caratteristiche, dette anche stereotipi, che fanno di un genere ciò che esso è – il western, il musical o i film acquatici. Tutto chiaramente allo scopo di ridere e di far ridere sulla nozione stessa di genere: un concetto rigido e tradizionale, nell’età della flessibilità e della sperimentazione.

    Pertanto – dopo aver visto Ave Cesare! – dedicare una ricerca al noir, vale a dire a un genere, potrebbe sembrare anacronistico, forse addirittura demenziale, proprio come l’opera dei Coen. Ma, all’uscita del film, ahi noi, la fatica era già stata fatta!

    A onor del vero, durante la trattazione è stato compiuto uno sforzo sincero per evidenziare che lo studio di un determinato fenomeno cinematografico non può prescindere dal confronto con altri, all’apparenza anche molto differenti per sensibilità – si consideri la relazione tra cinema western e cinema noir – o per periodo storico – è il caso del raffronto tra il cinema degli anni ’20 in Germania e quello degli anni ’40 negli Stati Uniti.

    Inoltre è stata seguita l’evoluzione del movimento, passata attraverso la contaminazione della sua poetica e l’applicazione della sua ideologia a scenari profondamente diversi da quello originario – dando vita al wester – n – oir, al fantanoir, persino alla fiaba noir. E inoltre è stato documentato lo sviluppo estremo della sua tipica struttura narrativa, spinta fino alla destrutturazione, trasformando l’aleatorietà della tradizione in pura assurdità.

    Eppure, proprio il film dei Coen – con la straordinaria cinefilia e la conoscenza profonda della storia che dimostra e che, allo stesso tempo, richiede per essere pienamente apprezzato – suggerisce l’importanza di riscoprire i grandi capolavori del passato: si consideri l’episodio del cowboy, che tenta di catturare la luna riflessa nell’acqua, evidente omaggio al vecchio Hobson interpretato da Charles Laughton nel 1954. Ancora più rilevante per godere fino in fondo Ave Cesare! risulta poi sapere degli scandali che sconvolsero Hollywood negli anni ’20 – qui il concepimento di un figlio fuori dal matrimonio e i rapporti di sodomia – che le case di produzione tentarono in tutti i modi di nascondere e di reprimere, giungendo infine all’adozione del codice di autodisciplina, sostituito, nel film, da qualche sonoro ceffone, rifilato a una superstar pericolosamente disobbediente. Per non parlare della piaga del maccartismo, sulla quale gli autori hanno ironizzato architettando un complotto di monodimensionali sceneggiatori comunisti, guidati da un ancor più monodimensionale ballerino russo.

    Alla luce di queste considerazioni, acquistano preciso valore gli approfondimenti storici svolti nello studio e alternati ai contenuti più propriamente cinematografici, come la lunga digressione dedicata alla crisi sociale che ha diviso la società nordamericana sin dai tempi della Guerra di secessione, venendo nondimeno perlopiù trascurata dalla storiografia ufficiale: senza questa ricostruzione la poetica del cinema noir, attraverso la quale vennero espressi ribellione, sfiducia e rancore, si sarebbe potuta comunque definire, ma sarebbe risultata certamente meno comprensibile.

    Il cinema ha infatti recepito gli stimoli prodotti dalla storia nell’animo dei suoi autori, così come in quello di qualunque altro artista: nonostante la peculiare e spiccata propensione a diventare una forma d’intrattenimento di massa, anche l’opera cinematografica invero possiede – o, almeno, per molto tempo ha ambito a possedere – le caratteristiche della creazione artistica. È appunto nell’ottica di riaffermare la dignità del cinema a essere considerato un’arte che, in questo lavoro, esso è stato analizzato in continuità con i generi artistici tradizionali: teatro, musica, letteratura e pittura. Perciò, nel corso della trattazione, i nomi di grandi cineasti sono stati ripetutamente accostati a quelli degli esponenti di altre manifestazioni dell’ingegno e della creatività umana che hanno inequivocabilmente esercitato notevole influenza sulla rivoluzione realista alla quale ha partecipato anche il cinema noir: Schiller, Goya, Füssli, Novalis, Hoffmann, Lord Byron, Shelley, Sand e Chopin; Gogol, Dostoevskij, Van Gogh, Ensor e Munch; Gauguin, de Vlaminck, Rouault e i fauves; Hauptmann, Kollwitz, Kandinsky, Kirchner, Dix e Grosz; Courbet, Millet e la scuola di Barbizon; Balzac, Flaubert, Zola, Verga e gli scapigliati; Baudelaire, Rimbaud e Verlaine; gli impressionisti e Nadar; Shakespeare, Ibsen, Strindberg, Brecht, Gor’kij, Diaghilev, Shaw; Schnitzler, D’Annunzio; i fratelli Mann e Döblin; Panizza e Bulgakov; Breton, Dalì, Matisse; Heartfield, Hausmann, Ernst e il dadaismo; Moravia, Vittorini, Alvaro e Calvino; Poe, Doyle, Christie, Fletcher, Sayer e Van Dine; Hammett, Chandler e Cain; Conrad, London e B. Traven, Hemingway e Fitzgerald, Trumbo e Dos Passos, Steinbeck, Heller; Hopper, O’Keeffe e Bellows; Stieglitz, Riise, Hine e Weegee; Freud, Marx e Gramsci; Mahler, Prokof’ev, Satie e Stravinskij.

    Solo per citare i riferimenti più significativi.

    Il valore di una classificazione

    Il termine noir, che oggi identifica un genere cinematografico e letterario distinto dal giallo e dal thriller, ha saputo imporsi nell’immaginario collettivo e resistere nel tempo, pur subendo un progressivo travisamento e dando luogo a più d’una incertezza.

    L’autore della fortunata etichetta è noto, così come l’occasione nella quale la coniò: Nino Frank, critico cinematografico italiano (nato a Barletta da genitori svizzeri ed emigrato ancora giovane in Francia), nell’agosto del 1946 pubblicò sulla rivista l’Écran Français un articolo intitolato Un nouveau genre policier: l’aventure criminelle, accostando tra loro, in ragione di caratteristiche comuni, alcuni film americani che in un’ottica tradizionale sarebbero stati annoverati nell’ampio genere poliziesco o di inchiesta, ma che all’autore parve più opportuno isolare, in quanto opere di psicologia criminale contraddistinte da particolare durezza e spiccata misoginia. Caratteristiche mutuate dalla nuova tendenza della letteratura criminale nordamericana, inaugurata da Dashiell Hammett, a proposito della cui portata innovativa è celebre l’osservazione dello scrittore e collega Raymond Chandler: «Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo».

    Gli scritti di Hammett, infatti, non trattavano di delinquenti raffinati e capricciosi – esteti del crimine, il cui movente, spesso sfuggente, e il cui comportamento, ambiguo e sottile, ne rendevano complessa l’individuazione, dando vita a un’avvincente trama prettamente whodunit – bensì di persone comuni, spesso ignoranti e volgari, la cui spinta verso il delitto traeva origine da stimoli decisamente carnali, dalla passione, dalla fame, da un istinto irrefrenabile. La conseguenza fu che l’attenzione, invece di rivolgersi all’acume investigativo e al metodo dell’inchiesta di un eroe – campione delle migliori virtù – si concentrò sulla figura di un antieroe, sulla natura ambigua e prevalentemente colpevole dell’essere umano, sul contesto in cui egli aveva maturato la risoluzione criminale, determinando un passaggio dall’esercizio di astratta e distaccata logica – tipico del giallo – all’analisi appassionata delle pulsioni individuali e all’osservazione dell’ambiente da cui esse scaturivano, ispirandosi alla psicologia criminale o, più precisamente, alla sociologia del crimine.

    Ciò produsse inevitabilmente anche conseguenze di carattere stilistico, imponendo in particolare il ricorso a un crudo realismo, del tutto sconosciuto ai racconti investigativi di fine ’800 e di inizio ’900, come Chandler non mancò di evidenziare nel proprio articolo critico, The Simple Art of Murder (1944). Presto molti altri autori, tra i quali lo stesso Chandler e James Cain, dimostrarono un interesse per il crimine, la violenza e il sesso, analogo a quello di Hammett. Il loro approccio – immediato, spigoloso, disinibito – fu definito hard boiled, ricorrendo a un’espressione culinaria con la quale si indica la cottura dell’uovo sodo, la cui consistenza venne paragonata alla durezza dei personaggi. Per lo più detective solitari, silenziosi, ambigui, violenti e misogini oppure criminali, reietti, emarginati, gravati dal disprezzo e dalla diffidenza del mondo per bene, ma legati tra loro da una particolare concezione della morale. Tutti impegnati ad aggirarsi all’interno di un decadente paesaggio notturno e metropolitano, del quale condividevano il dolore e l’inquietudine, senza però sentire di appartenervi pienamente.

    Fu proprio la penna di questi autori a fornire lo spunto per alcuni dei film più significativi tra quelli ricondotti dalla critica post frankiana al genere identificato con il termine noir: Il mistero del falco (1941) tratto da Il falcone maltese di Hammett; La chiave di vetro (1942) ispirato all’omonima opera dello stesso scrittore; La fiamma del peccato (1944) e Il postino suona sempre due volte (1946) realizzati guardando alle opere di Cain (ed il primo sceneggiato da Chandler); Il grande sonno (1946), L’ombra del passato (1945) e Il lungo addio (1973), che costituirono adattamenti dei romanzi del medesimo Chandler.

    Chiarita l’immediata parentela tra la letteratura hard boiled e il cinema noir americano, è opportuno richiamare fin d’ora un altro antecedente – assai più risalente e all’apparenza meno rilevante, ma in effetti oltremodo significativo: il Dostoevskij di Delitto e castigo. Il romanziere russo, infatti, nel presentare l’opera a Michail Katkov per ottenerne la pubblicazione su Il messaggero russo, sostenne: «si tratta del resoconto psicologico di un delitto». Inoltre sottolineò l’attualità della vicenda e la stretta correlazione tra l’impulso criminale e la crisi di valori che aveva colpito la società a cui appartenevano tanto i personaggi quanto autore e lettori: «l’azione si svolge al giorno d’oggi, in questo stesso anno. […] Nei nostri giornali si possono cogliere molti segni della straordinaria fragilità dei principi morali attuali che induce a terribili delitti».

    Non è questa la sede per indagare sui rapporti tra Dostoevskij e Hammett, ma vale comunque la pena di rilevare una comune matrice realista, condivisa anche dal cinema nero, alla luce della quale quest’ultimo deve essere considerato un fenomeno artistico che si pone in continuità con l’opera di Courbet, di Van Gogh, di Munch, di Kirchner, di Grosz e di Dix ovvero di Balzac, di Baudelaire, di Zola, di Verga, di Heinrich Mann e di André Breton, solo per citare i riferimenti più significativi del realismo e delle avanguardie nelle quali, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, esso si è evoluto.

    In considerazione di queste premesse letterarie, la scelta di Frank di ricorrere alla parola noir – letteralmente nero – oggi appare ovvia, quasi scontata: i film ispirati a questi modelli di narrativa criminale risultano infatti estremamente cupi. Nondimeno fu un’intuizione innovativa: creare, attraverso l’accostamento di un colore a un genere cinematografico, un binomio immediatamente auto – esplicativo. Ma si trattò di una felice improvvisazione? Se davvero così fosse stato, stupirebbe la circostanza che, appena pochi mesi dopo la pubblicazione del contributo di Frank, un altro esponente della critica francese, Pierre Chartier, abbia intitolato un articolo, apparso su La Revue du cinéma, «Les américains aussi font des film noirs» – ovvero Anche gli americani fanno film noir. Come sarebbe a dire anche gli americani? Non sarebbero dovuti essere appunto gli americani, stando a Frank, ad aver inaugurato un genere noir?

    La verità è che l’accostamento colore/opera, al quale ricorse con tanta fortuna Frank, non era affatto un’invenzione, poiché la critica transalpina aveva già definito neri i capisaldi del c.d. realismo poetico. Soltanto che l’utilizzo del termine, compiuto in riferimento a questi ultimi, risultò meno accattivante ed esotico: erano film francesi, anziché stranieri, e applicare ad un’opera francese una parola francese dovette apparire assai meno chic che ricorrervi in relazione a un prodotto d’importazione! Non solo meno elegante, ma anche meno efficace; una classificazione funziona come un marchio – vale a dire l’associazione tra un simbolo (parola, disegno, forma) e un bene: più questi sono distanti concettualmente, più forte è l’effetto distintivo prodotto dalla combinazione. Per non parlare del fatto che, negli anni trenta, al termine era stato attribuito un significato politico, piuttosto che artistico. I critici, simpatizzanti con la destra, considerarono nere le opere che esprimevano i valori ideologici del Fronte Popolare; ad esempio, in un editoriale apparso sul Petit-journal (8 luglio 1938) si lamentava che «il più prestigioso dei premi del cinema francese, il Prix du Ministère, [fosse stato] attribuito ad un film – certamente ricco di qualità artistiche – ma affatto particolare. Un film noir, un film immorale e demoralizzante, il cui effetto sul pubblico può solo essere dannoso». Si trattava de Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné. E, ancora, nel 1940 un rappresentante del governo di Vichy sostenne pubblicamente che la sconfitta bellica si doveva proprio a film come quello sceneggiato da Prévert e tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Mac Orlan. Lo stesso che sarebbe dovuto essere prodotto dall’UFA (la compagnia che riuniva i principali produttori cinematografici tedeschi), la quale tuttavia all’ultimo rinunciò su richiamo di Goebbels in persona: il gerarca nazista lo ritenne infatti troppo decadent – come si leggeva in una nota apparsa il 13 ottobre 1937 sulla rivista Marianne.

    Peraltro, anche parte della critica di sinistra, in particolare George Sadoul, su L’Humanité, attaccò Il porto delle nebbie, ricorrendo all’espressione «la politique du chien crevé au fil de l’eau», sottolineando così il disinteresse dimostrato dagli autori del film per la situazione del proprio Paese.

    Ad ogni modo, appunto la circostanza che il colore nero sia stato accostato tanto alle opere americane degli anni ’40, quanto a quelle francesi del decennio precedente, suggerisce subito il legame tra la stagione del realismo poetico e quella noir. E l’affinità non fu percepita soltanto da questa parte dell’oceano – con Frank, Chartier e l’opera del 1955 di Raymond Borde e di Étienne Chaumeton, Panorama du film noir – ma anche negli Stati Uniti, dove nel settembre del 1944 Bosley Crowther sostenne sul New York Times che La fiamma del peccato possedeva «un realismo degno della crudezza dei film francesi del passato».

    Comunque, seppure la componente realista – documentaristica costituisca una significativa intersezione, non mancano differenze profonde e evidenti tra il noir francese degli anni ’30 e quello americano degli anni ’40 e ’50. Chartier sottolineò acutamente che nei film americani del secondo dopoguerra – e, diremo noi, in quelli successivi ad opera degli epigoni francesi, su tutti Melville – è irrinunciabile la circostanza che «le azioni dei personaggi sembrano sempre condizionate da un’attrazione ossessiva e fatale verso il crimine».

    Una considerazione estremamente rilevante, utile a delineare una netta distinzione: nei film vicini all’ideologia del Fronte popolare i protagonisti sono i rappresentanti di un’umanità che avvertiva su di sé l’incerto senso di predestinazione alla sconfitta, alla quale tentava disperatamente di reagire, attraverso l’evasione, l’amore e il sogno; nel noir statunitense, invece, i personaggi sono creature ambigue, sostenute da una propria, particolarissima morale e animate da un’aspirazione sincera al riscatto sociale, ma travolte dalla cupidigia e corrotte da una sfrenata ambizione criminale. Dal confronto tra i tipi tratteggiati, sembrerebbe che il conflitto mondiale avesse ribaltato la prospettiva sull’uomo: da vittima innocente del destino, a peggior nemico di se stesso.

    Dunque, la portata innovativa della classificazione di Nino Frank va ridimensionata, sebbene al critico italofrancese debba essere riconosciuto quanto meno un merito: aver cioè individuato un gruppo relativamente omogeneo di opere americane degli anni ’40, dotate ciascuna di caratteristiche innovative rispetto alla tradizione cinematografica hollywoodiana e, in un certo senso, mondiale.

    Tuttavia anche nella selezione dei film, che Frank considerò i primi noir, si avverte debolezza sistematica. Uno degli elementi distintivi individuati dall’autore era, come si è detto, la misoginia – espressa attraverso l’elaborazione di dark ladies (o femmes fatales), donne tentatrici, capaci di risvegliare nell’uomo le più pericolose passioni, fino a determinarne la rovina. Sul modello dei personaggi interpretati da Louise Brooks, ne Il vaso di Pandora (1929) di Georg Wilhelm Pabst, e da Marlene Dietrich, ne L’angelo azzurro (1930) di von Sternberg, e, ancora prima, da Pina Menichelli ne Il fuoco (1915) di Pastrone; figure ispirate alle opere di Tarchetti e di D’Annunzio, di Wedekind e di Mann e già, più indietro nel tempo, alle donne vampiro della narrativa hoffmanniana. Ebbene, questa caratteristica ricorre certamente sia ne Il mistero del falco sia ne L’ombra del passato, ma non si può affatto riscontrare in Vertigine (1944), che pure Frank accosta a essi. La protagonista del film di Preminger non ha nulla della dark lady; piuttosto vive la sfortuna di essere l’oggetto dell’ossessione, morbosa e fatale, di uno spregiudicato esteta: ella dunque è preda, non predatrice.

    Neppure, del resto, convince il confronto tra i film, nei quali occupa rilievo preminente l’analisi criminologica, con Quarto potere (1941), in cui essa è del tutto assente: il capolavoro di Welles riflette sul tema della tirannia, altro e distinto caposaldo della campagna letteraria e cinematografica antiborghese – e al riguardo si considerino ancora una volta le straordinarie analogie tra le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, Il professor Unrat di Mann e alcune tra le più significative opere del cinema espressionista tedesco, come L’ultima risata (1924) di Murnau e L’angelo azzurro di von Sternberg.

    Da tutte le considerazioni svolte, emerge la necessità di affrontare il genere noir – quale si è imposto nella classificazione cinematografica, dalla seconda metà degli anni ’40 in poi – tenendo ben presenti gli antecedenti culturali dai quali esso discende, tentando soprattutto di individuare i soli aspetti davvero caratterizzanti dei film che vi si possono ricondurre.

    Il cinema della disperazione: una reazione romantico - espressionista al fallimento borghese - liberale

    Il cinema della disperazione presenta due tratti fondamentali: inquietudine e rottura. In tutte le sue declinazioni, infatti, si manifestò una reazione allo sgomento provocato da una crisi di valori e di certezze; quella che segnò l’inizio del secolo scorso; quella che scatenò una seconda guerra mondiale a pochi anni dalla conclusione della prima; quella che ha segnato e continua a turbare l’età contemporanea.

    Simili stravolgimenti sono frequenti nella storia della civiltà occidentale: un esempio paradigmatico è l’appesantimento delle forme architettoniche a cavallo dell’anno mille, sotto la minaccia di un fosco presagio: come noto, l’interpretazione più cupa della frase attribuita dalla tradizione a Gesù – «mille e non più mille» – e suffragata dal versetto dell’Apocalisse «dopo mille anni Satana sarà sciolto» – era penetrata così a fondo nell’ideologia dominante di una generazione piegata da guerre, carestie e morbi, che ne condizionò inevitabilmente anche lo stile, reso grave, pesante, opprimente.

    Ma, senza volgere lo sguardo tanto lontano nel tempo, vale la pena di considerare due movimenti intellettuali più recenti e, soprattutto, più rilevanti; parenti l’uno dell’altro e, entrambi, con il cinema disperato.

    Il primo è il romanticismo, attraverso cui si espressero sia il disorientamento provocato dal crollo dell’ordine che per secoli si era conservato saldo e inattaccabile ma che, improvvisamente, era stato sovvertito dalla Rivoluzione francese, sia la reazione al rigore logico del pensiero illuministico che quei moti rivoluzionari aveva ispirato e legittimato. Fu il trionfo del soggettivismo, in risposta all’universalismo illuminista; dell’istinto irrazionale sul culto della ragione; del sentimento religioso sul laicismo. Oltre all’interesse per la componente intima dell’individuo, che si ammise – anzi, si rivendicò persino – di non poter comprendere e conoscere a pieno, il romanticismo rivolse l’attenzione alla relazione empatica tra l’essere umano e l’ambiente: non solo quello naturale, pervaso da misteriose e sfuggenti forze ancestrali, ma anche quello urbano, che incominciava a essere studiato e descritto. Soprattutto, però, il romanticismo reagì alla luminosità rivoluzionaria riscoprendo il fascino dell’oscurità, del notturno, del sogno e dell’incubo, del deviante e del patologico, della follia e della sconfitta. Finì, in tal modo, per delineare la figura di un antieroe che reca in sé una condanna al tormento e alla rovina.

    Tuttavia, arte e cultura erano ormai in mano alla borghesia, che aveva conquistato un potere a cui, nonostante la Restaurazione, non avrebbe più rinunciato. E alla cupezza romantica si contrappose presto nuova luce, mentre l’ideologia rivoluzionaria evolse, sia pure secondo una certa coerenza, in un pensiero conservatore, che giustificasse l’egemonia borghese nei confronti delle rivendicazioni proletarie e del nascente movimento socialista.

    La causa del progresso borghese e del capitalismo si pose al centro della riflessione positivista, che elaborò le teorie dell’evoluzionismo e del determinismo per esaltare un nuovo modello sociale. Il culto della meccanica e della scienza indussero gli artisti a credere di poter misurare ogni aspetto della realtà: un atteggiamento che mantenne – esasperandola persino – la fiducia nella ragione, rivendicando per l’intellettuale un profetico ruolo di iniziatore alla verità. Una verità però che bastava osservare. Senza necessità alcuna di interpretarla. Una verità fatta di regole e di eccezioni, sicché l’attenzione che il romanticismo dimostrò verso il negativo e l’aberrante venne conservata, ma a sostegno della tesi borghese, mentre l’interesse per i derelitti, i reietti, i miserabili acquistò un fondamento scientifico e una pretesa funzione di prevenzione criminale.

    In questo modo comunque proseguì, sia pure condotta attraverso lenti diverse, l’indagine che l’avvento della borghesia al potere aveva inaugurato: un’indagine che non era più rivolta all’ideale rinascimentale, ma al reale dell’età moderna. Un merito innegabile, offuscato però da un approccio sterile, privo della passione e dello slancio romantici: il naturalismo di Zola e il verismo di Verga, in letteratura, come l’impressionismo, nell’arte figurativa, si limitarono a un’attività di mera descrizione, un’oggettivazione estrema, alla quale reagirono sdegnosamente le avanguardie di inizio ’900, il cui avvento era stato preparato dall’insofferenza individuale di artisti come Van Gogh, Gauguin e Munch, attratti dal dolore esistenziale e delusi dal sanguinoso insuccesso delle ultime rivoluzioni unitarie.

    Ancora una volta, la reazione intellettuale fu ispirata dal senso di inquietudine e dall’aspirazione alla rottura. Una rottura comunque soltanto parziale: minimo comun denominatore sarebbe rimasto, dall’illuminismo fino al cinema neo – noir, il realismo; ovvero la rappresentazione del reale e lo studio del quotidiano.

    D’altra parte, fu proprio l’abbandono dell’artificio accademico e dello spazio chiuso dello studio per passare all’osservazione dal vivo, en plein air, uno dei tratti caratteristici dell’impressionismo, agevolato in questo dall’invenzione tecnica del tubetto per il trasporto dei colori (soltanto una delle innumerevoli conquiste dello sviluppo industriale). E l’autenticità degli esterni sarebbe divenuta una costante della raffigurazione realista, nel solco della quale si è collocato anche il cinema della disperazione, che rivendicò orgogliosamente la propria vocazione a scendere nelle strade della metropoli, in mezzo alla gente comune.

    Gli impressionisti, dopo tutto, si erano proposti al mercato rivolgendo al pensiero borghese – benpensante una sfacciata provocazione: trasportare il nudo fuori dalla pudica intimità dell’atelier, per esporlo nei campi in fiore. Ciò dimostra che quel movimento, pur esprimendo taluni valori borghesi, colse e deprecò l’ipocrisia di un ceto che, conquistato il potere, sembrò parzialmente rinnegare lo spirito di rinnovazione sulla spinta del quale aveva rovesciato l’antico regime.

    Le nuove possibilità offerte ai pittori impressionisti, comunque, comportarono il prezzo dell’impossibilità di impegnarsi in una lavorazione prolungata, per ridursi alla fissazione di un’impressione fugace, suscitata dall’osservazione dell’ambiente; non solo naturale ma anche – coerentemente all’esperienza letteraria naturalista – urbano. Una conquista significativa nel campo delle arti figurative, ispirata dalla straordinaria rivoluzione realista e sociale di Courbet, che utilizzò persone comuni anziché modelli più di cent’anni prima di Visconti e di Rossellini.

    Tuttavia, gli impressionisti si limitarono a lasciarsi, appunto, impressionare (sia pure, in questo, finendo per dare ampio spazio alla percezione soggettiva) e a documentare la propria risposta percettiva agli stimoli esterni, assecondando una curiosità scientifica e oggettiva tipica del positivismo: trionfarono, di conseguenza, lo studio della luce e quello del colore. Impegnati nella loro analisi della superficie, non si spinsero all’indagine dello spirito, celato dietro quell’apparenza impressionante. Una circostanza che turbò profondamente la sensibilità, affamata di verità, di sentimento e di umanitarismo dei già citati Van Gogh e Munch, ma anche di de Vlaminck e di Rouault; questi artisti, partendo dalla conquista del naturalismo e dell’impressionismo, responsabili di aver posto la vita reale al centro dell’interesse artistico e, più in generale, intellettuale, si ripromisero di scoprire l’intima natura di ogni creatura o oggetto e di darle espressione, concedendosi qualunque esasperazione e ogni genere di deformazione dell’aspetto estetico necessarie allo scopo. Esemplare, in proposito, l’aspirazione di Van Gogh: «il mio grande desiderio è di imparare a fare delle deformazioni o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma delle bugie che siano più vere della verità letterale». Parole che meritano di essere confrontate con quelle di Dostoevskij, impegnato «in pieno realismo, a trovare l’uomo nell’uomo». Entrambi ambirono a cogliere l’autentica natura dell’essere umano, quella nascosta dalle apparenze esteriori. La stessa che sarebbe diventata un assillo per tutta la carriera di Lang.

    Insomma, le avanguardie avrebbero riscoperto la passione romantica per lo scabroso, il turpe, il deviante, l’inquieto, trasfigurando la realtà – che i naturalisti e gli impressionisti avevano osservato con distacco – per giungere alla verità e valorizzando la relazione tra l’individuo e lo spazio esterno, inevitabilmente condizionata dalla manifestazione dell’io interiore che, a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, sarebbe divenuto oggetto di sempre più numerosi e rigorosi studi medici. Allo stesso tempo, pur perseguendo apertamente una rottura ideologica rispetto all’interesse prevalentemente scientifico dei movimenti artistici legati alla concezione positivista, la nuova sensibilità intellettuale ne condivise l’attenzione per le passioni e le fatiche quotidiane, impegnandosi nel racconto della drammatica lotta per la vita. Un debito ammesso dallo scrittore e teorico dell’espressionismo Kasimir Edschmid, in Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung (1919): «Dopo il romanticismo ci fu un ristagno, lo spirito borghese iniziò la sua parabola che ora si sta concludendo. L’ondata del naturalismo, abbattendosi sugli epigoni esausti, mise a nudo la realtà senza belletti, né maschere, né foglie di fico: però non giunse a coglierne l’essenza, non intese il messaggio riposto negli oggetti sensibili; lavorò su notizie esterne, sull’apparenza, insomma. […] L’azione del naturalismo non va giudicata in sé, ma per il risveglio a cui diede luogo, perché restituì vita alle cose: abitazioni, malattie, uomini, miseria, fabbriche […] Esso si permeò profondamente di socialità: gridò fame, prostitute, epidemie, operai. Il sopraggiunto impressionismo ebbe la sintesi per sua aspirazione e entro certi limiti la realizzò. […] Tuttavia non si conseguirono spesso che degli effetti descrittivi: l’essenza degli oggetti, il loro ultimo significato, non erano raggiunti. […] L’artista espressionista trasfigura tutto lo spazio. Egli non guarda: vede; non racconta: vive; non riproduce: ricrea; non trova: cerca. Al concatenarsi dei fatti – fabbriche, case, malattie, prostitute, gridi e fame – subentra il loro trasfigurarsi. I fatti acquistano importanza solo nel momento in cui la mano dell’artista, che si tende attraverso di essi, chiudendosi, fa presa su ciò che a essi sta dietro: l’artista vede l’umano nelle prostitute e il divino nelle fabbriche».

    L’inquietudine e l’umanitarismo sarebbero state caratteristiche anche del cinema della disperazione, nelle sue varie e numerose manifestazioni, accomunate dal medesimo intento di rottura rispetto alle produzioni precedenti, accusate di esser cieche di fronte al dolore della gente, asservite alle esigenze di regime oppure, più semplicemente, troppo disimpegnate, artificiose o convenzionali.

    Ognuno dei movimenti del cinema nero dimostra di aver assimilato l’evoluzione realista ottocentesca filtrata attraverso la revisione compiuta dalle avanguardie: in Germania si parla addirittura di cinema espressionista, in Francia e in Italia il realismo è poetico o nuovo.

    La stagione inquieta ma straordinaria del cinema espressionista tedesco, dedicata alla figura del tiranno (in reazione al constatato insuccesso del modello repubblicano) e alla decadenza borghese, testimonia il lacerante conflitto interiore della Germania dalla quale in breve sarebbe scaturito, per poi diffondersi ben al di là dei confini nazionali, un male perverso e spaventoso. Lo stesso clima di impotente attesa, di fronte alla tragedia incombente, emerse a distanza di un decennio anche da La regola del gioco (1939) di Renoir, lugubre epitaffio dei valori borghesi nella patria della borghesia trionfante. Ritratto di una élite vittima del caos generato dalla debolezza e dalla viziosità della propria morale corrotta, La regola del gioco condivideva con alcuni dei maggiori capolavori tedeschi proprio l’impietoso accanimento nei riguardi della borghesia benpensante; collocandosi in continuità con l’atteggiamento critico che dominò il cinema francese d’autore degli anni ’30 – come dimostrano, per esempio, Boudu salvato dalle acque (1932) dello stesso Renoir e Lo strano dramma del dottor Molyneux (1937) di Carné, vicende in cui autori e personaggi condividono lo stesso gusto per lo scandalo e il sovvertimento delle convenzioni. Quel medesimo piacere perverso che provavano l’uomo del sottosuolo e il giocatore dei romanzi di Dostoevskij, ma anche Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e gli scapigliati, Paul Gauguin, i fauves e i surrealisti – il cui piglio polemico e dissacrante caratterizzò alcuni dei capolavori di Buñuel, dai quali emerse un ritratto impietoso dell’ipocrisia e, soprattutto,

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