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La tela della libellula
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La tela della libellula
E-book683 pagine10 ore

La tela della libellula

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Info su questo ebook

Ettari di terreno piantati a vite, sulle incantevoli colline irpine, sono lo scenario suggestivo di una passione proibita,
ostacolata e condannata.
Davide e Francesca vivono il loro amore in gran segreto, poiché per il resto del mondo, e i loro familiari, sono fratelli,
nonostante nelle loro vene non scorra lo stesso sangue. Quando la verità sul loro legame, travolgente e inaspettato,
sarà svelata, una tela d'odio verrà intessuta.
Può l'amore sopravvivere alla mortificazione, allo svilimento, alle avversità, agli ostacoli del cuore e al desiderio di
vendetta?
Può una libellula, simbolo della mutevolezza della vita, incarnare anche la volubilità dei loro sentimenti?
Davide e Francesca potranno lasciarsi andare oppure vivranno, per sempre, nel ricordo di un amore che li consuma?
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2024
ISBN9791223030028
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    Anteprima del libro

    La tela della libellula - Mariarosaria Maione

    Mariarosaria Maione

    La tela della libellula

    UUID: ef6bdbca-5708-417e-808f-b0c0a199235f

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    © 2021 Rosabianca Edizioni, Roma

    Quel Natale

    Genesi

    Capodanno

    Al chiarore di un nuovo giorno

    Calamità

    Pulviscolo

    Dicitencello Vuje

    Cherofobia

    Quando le onde toccano il cielo

    'A canzuncella

    Un cuore spaccato

    Tra leggenda e realtà

    La casa delle innocenti

    Non si torna indietro...

    La storia di un nome

    E si torna indietro

    Nel nome di una madre

    Vox populi, vox Dei?

    Un letto per quattro, un segreto per due

    L'ultima volta

    La prima tela

    Consumarsi

    Incontri e scontri

    Declino

    Un nuovo battito

    Complici nel silenzio

    Ordigno inesploso

    Nankurunaisa

    La forma dell'acqua

    La libellula d'oro

    Lupi e agnelli

    Arrivi e partenze

    Labbra di peccato

    Fuoco

    Passeggeri persi nel passato

    La tela di Francesca

    A fin di bene

    Alba e tramonto

    Cuore contro cuore

    È tempo di ritrovarsi

    È tempo di ritrovarsi

    Sangue e veleno

    Le due libellule

    Armonia

    Pagine macchiate d'inchiostro e di vita

    Vacanze Capresi

    Vacanze Capresi

    La campanella di Capri

    Prigionie

    Padri e figli

    A mano a mano

    Anatema

    Un letto per quattro, un segreto per due

    Attraverso i miei occhi

    Laddove batte ancora

    Cenere su cenere

    Il prezzo della colpa

    Al lupo, al lupo!

    Tele d'amore

    Germogli

    Martirio

    Quando la festa finisce

    Il sentiero della morte

    Amore e Psiche

    Il ratto di Proserpina

    Nessuno si salva da solo

    Peccati e penitenze

    Terra

    Acqua

    Fuoco

    Aria

    Tra passato e futuro si perde il presente

    Àncora e Spirale

    Oltre il velo della dannazione

    Mendicanti

    Consumarsi...

    ... Nella tela della libellula

    Epilogo

    Note

    © 2021 Rosabianca Edizioni, Roma

    ISBN 979-12-80476-58-6

    A chi ancora vive di quell’amore che lo consuma.

    Prologo

    Il sole sbucò dalla sommità del monte Terminio e puntellò il ciano di cui si era dipinta la volta celeste, indifferente alla volontà di chi bramava che non sorgesse ancora. La giovane donna si era ammantata nell'oscurità della notte precedente, smarrita in un orizzonte nero, dove le stelle si erano spente una dopo l'altra e a rischiarare il cielo c'erano solo i rimorsi.

    Francesca era seduta sul bordo del letto e la stanchezza le si era avvinghiata agli occhi, la mano sinistra ghermiva con vigore le lenzuola sbiadite del materasso cigolante, mentre l'altro palmo accartocciava il ritaglio del vecchio quotidiano. Le parole, impresse con inchiostro nero sul foglio ingiallito, urlavano il segreto delle sue origini, una macchia sul proprio nome che era stata celata per trent'anni. Le pupille miravano, oltre il vetro opaco delle finestre, il sole giocare a nascondino sugli Appennini, come aveva fatto anche la Luna che lei aveva fissato per tutta la notte, incapace di abbandonarsi al sonno.

    Spostò, poi, lo sguardo dalla finestra e lo portò sulla specchiera che era accanto all'armadio, la sua figura stanca riverberò nel vetro sporco e apparve turpe come i peccati di cui lei si era macchiata. Si era nascosta in un motel economico e aveva tenuto tra le mani lo smartphone nella speranza che lui la chiamasse; infine, lo aveva gettato con stizza contro il muro e lo schermo era stato puntellato da una lesione che partiva dall'oggetto e varcava la soglia della sua anima.

    Un rovo di spine circondava e pungeva quel muscolo sanguinante che aveva, ormai, smarrito ogni battito. Era irretita, arpionata, il fiato affievoliva in gola e picchiettava contro le corde vocali, un suono smorzato si posava sulla bocca e un peso gravava tra lo sterno e il costato. La trappola, che aveva tessuto per l'uomo , era divenuta la sua condanna, la colpa con cui fare i conti. Avvertì le guance inumidirsi, aprì il palmo per lasciar andare il lenzuolo e asciugò le lacrime di costernazione che tracimavano dalle rime ciliari. Infine, serrò le palpebre con vigore, certa che, se le avesse schiuse, il volto spigoloso dell'ex compagno avrebbe riempito le iridi smeraldine.

    Un tonfo riempì l'aria della stanza quando un colpo poderoso fu battuto contro il legno scrostato della porta, seguito da altri di simile intensità. Sgonfiò le guance, sbuffando sonoramente, e si alzò riluttante; poi, senza neppure accertarsi di chi ci fosse di là del battente, tolse il chiavistello.

    L'uomo avanzò nella camera scarsamente illuminata, tale da non poter osservare le pareti umide e il mobilio decadente. Anch'egli, come Francesca, aveva trascorso la notte insonne, annichilito dalla delusione e dalla fiducia calpestata dalle scarpe avvelenate e insanguinate della sorellastra . Alle prime luci dell'alba, dopo aver cogitato a lungo, aveva svegliato la sorella, costringendola a rivelare dove fosse Francesca.

    Francesca indietreggiò stupita, l'evanescente speranza risollevò l'animo martoriato da un'intera vita di sofferenze. Aveva perso tutto più di una volta e il dolore, che era la costante perpetua della sua intera esistenza, le aveva plasmato il docile spirito: fu un siero letale che macchiò la nobiltà dei suoi sentimenti. Non era rimasto nulla dell'innocente ragazza, solo un cumulo di cenere dal quale era risorta nel nome dell'odio e della rivendicazione. Un veleno si era diffuso in ogni cellula del suo corpo, l'odio aveva ottenebrato le iridi radiose rendendole più nere della pece, la vendetta si era mescolata al sapore ferroso del plasma all'interno della bocca. Erano stati colpi inferti a mano ferma dal fato e dalla passione divampata per colui che l'aveva condotta, nella sua finta indifferenza, verso il baratro della perdizione. Annaspava nella consapevolezza della propria colpa: era lei la fautrice del male appena compiuto, un'opera di distruzione generata dalla bramosia di un riscatto vacuo, poiché il nastro del tempo non si sarebbe riavvolto e non avrebbe potuto mai stringere tra le braccia il figlio perduto. Aveva trascorso gli ultimi anni anelando una rivincita; aveva vissuto, innanzi agli occhi, quegli avvenimenti molteplici volte, benché le conseguenze non avessero sortito le emozioni immaginate.

    Le palpebre violacee, simbolo delle lacrime versate durante la notte, tremavano incredule dinanzi a quella visione. Lui era lì, con la barba rasata pochi giorni prima, le labbra deformate da un ghigno mordace, le sopracciglia inarcate verso l'alto e la mascella protesa nell'ostentazione di quell'orgoglio che ancora voleva proteggere. Francesca non badò ai segni di disprezzo modellati sul volto di Davide e poggiò i palmi sul suo petto tonante. Nel farlo, avvertì i muscoli del fratellastro guizzare sotto il proprio tocco, oltrepassando

    la stoffa della camicia bianca immacolata, candida al pari del loro amore, sebbene fosse stato consumato ormai da tempo. Era quella l'immagine che Davide ancora serbava di lei: pura come il velo di una sposa, avulsa dal rancore che aveva animato ogni suo gesto, immune dal marciume che aveva gettato su una storia che brulicava di dedizione celata.

    Davide aveva vissuto gli ultimi sette anni una vita senza stimoli, si era lasciato andare, e il ritorno di Francesca aveva significato la propria rinascita. La realtà aveva, però, graffiato la scorza d'innocenza in cui Francesca era avvolta, palesando le intenzioni bellicose, e lui era stato devastato dalla donna che non aveva mai smesso di amare. Sfuggiva al raziocinio un minuzioso particolare, un dettaglio che avrebbe annientato finanche una mente nitida come la sua: quelle iridi, così simili alle proprie, che si erano chiuse sul mondo pochi minuti dopo essersi spalancate per la prima volta. Una perdita che si sarebbe annidata tra le crepe della sua anima, qualora qualcuno lo avesse informato .

    «Sei qui!» Un sussurro infranse il silenzio della stanza, mentre ogni altra parola che lei avrebbe voluto pronunciare rotolò lungo la laringe. Francesca delineò il volto, amato da tempo immemore, con i polpastrelli resi insensibili dal freddo pungente che le aveva trapassato la carne durante le ore notturne. Tracciò le sopracciglia modellate con cura, gli zigomi fieramente disegnati, l'elegante punta del naso e il volto scolpito nel marmo. L'incarnato olivastro era una tela vergine su cui un ignoto pittore aveva spennellato tratti virili e delicati: un'aberrante combinazione che diede i natali alla perfezione dei suoi lineamenti.

    Davide artigliò le morbide ciocche ramate tra le dita, mentre piccole gocce di sudore colavano incessantemente lungo il polso vibrante, reazione incontrollata a quell'azione che di lì a poco si apprestava a compiere. «Sono qui!» soffiò nel suo orecchio, solleticando e pungolando la cerea pelle con il caldo fiato.

    La mano si spostò, poi, sulla nuca intorpidita di Francesca e la agguantò con smisurato ardore, anelando di possederne il corpo e anche l'anima. Lei era così simile alla ragazza che aveva fatto sua tra le terre ormai inaridite, sotto la vite piantata nel giorno in cui la giovane era venuta al mondo, tra urla e sangue.

    Il viso dell'uomo scattò mentre spinse un'inebriata Francesca nella propria direzione. Le labbra sottili catturarono quelle morbide e piene della donna, assaggiò la consistenza docile prima di ghermirle i fianchi e sospingerla sul materasso duro, dove le lambì la carne e assaporò la sua resa. L'aveva amata su quel letto cigolante, spogliandola di vestiti e remore, alla stregua di quello che erano stati un tempo. La passione non lo aveva mai abbandonato, erano bastati i palmi posati sul petto, una pressione lieve e delicata, a far divampare il fuoco mai sopito. L'ira si era dissolta, sopraffatta da gesti sensuali e teneri. Le vicissitudini esterne non potevano fondersi con il candore della loro unione, così era stato la prima volta e così sarebbe stato per l'eternità, benché ripetesse a se stesso che non l'avrebbe più sfiorata.

    La voce di Francesca che sussurrava dichiarazioni accorate e implorava il perdono era benzina cosparsa sulle ceneri del suo amore e che incendiava membra ed ego; catturò tra i denti la bocca della sorellastra, affinché tacesse poiché ogni ti amo o perdonami erano una tentazione a cui non poteva cedere.

    Aveva forzato la propria volontà, oltre ogni misura, per alzarsi dal duro giaciglio e non un accenno di parola fuoriuscì dalle sue labbra. Davide si rivestì con gesti rigidi e senza mai posare le pupille lucide sul corpo della donna avvolto nel lenzuolo sgualcito, ma sapeva che la beatitudine e l'appagamento modellavano il volto della stessa.

    «Dove vai? Resta qui con me!» Francesca riempì le iridi con la visione di Davide intento a vestirsi, scrutò i muscoli flettersi mentre la camicia si accingeva a coprire la pelle che aveva accarezzato con desiderio e urgenza. I gesti erano impressi nella mente della donna: le dita armeggiavano con i bottoni e, poi, la mano destra si era abbassata sulla tasca posteriore dei jeans logori, dove sbucava il bordo in cuoio del portafoglio. Davide sfilò l'accessorio con movimenti lenti per, poi, sfiorare il pellame consumato in alcuni punti. Lo aprì con fasulla indifferenza e, dopo averli estratti dal suo interno, poggiò sul comodino in rovere due pezzi di carta. Le pupille di Francesca schizzarono dai bulbi, le sue labbra mimarono parole incomprensibili, ma nessuna frase fu pronunciata; poi, mentre osservava, atterrita, il mobile posto accanto al letto, avvertì il cigolio della porta che si apriva. Si voltò e lo vide varcare l'uscio con la giacca poggiata sulla scapola e il fiato le era uscito, aveva graffiato le corde vocali e arso le labbra. «Cos-cosa significa?»

    «Sforzati, non è difficile da comprendere. Sei stata tu a dirmi che è accaduto per colpa mia! » Davide udì i suoni spezzati che oltrepassarono la barriera digrignata dei denti di Francesca. «Quando sei incline al male, lo vedi anche negli altri.» Francesca aveva, però, smesso di ascoltarlo e, ancora una volta, fu incapace di guardare oltre.

    La porta si era chiusa alle spalle dell'uomo: un tonfo che avrebbe riecheggiato nelle orecchie di Francesca per un tempo indefinito. La camera di un motel aveva assistito alla sua disfatta, nuovamente. Si era cibata di odio che aveva fomentato un'acredine maggiore. Era tramortita sotto la zavorra delle proprie azioni.

    Davide era andato via senza mai voltarsi, sebbene venature vermiglie colorassero la sclera; era morto, benché respirasse ancora. Era ritornato in quella stanza solamente due giorni dopo, quando l'empatia della madre e l'invadenza della sorella erano sfociate in un segreto che non erano riuscite a mantenere. Davide aveva compreso ogni gesto di Francesca, il livore fomentato dalla funesta perdita di cui lui era l'unico responsabile: quel figlio, il loro, crepato in un grembo materno inaridito dagli stenti.

    " Era poco più di una ragazzina e ha tenuto tra le braccia vostro figlio senza vita, sarebbe impazzito chiunque !" La voce della madre tonava nelle orecchie mentre correva verso il motel, incespicando sui passi e innalzandosi nella polvere.

    Aveva urlato contro un battente serrato, con quel fiato che ancora possedeva, sebbene fosse smorzato da singulti incessanti. Le spalle spingevano vigorosamente contro il legno e, quando l'uscio cedette, le ginocchia crollarono sulla moquette ammuffita. Nell'offuscamento causato dalle lacrime, riuscì a intravedere i pezzi di carta che erano ancora lì, a ricordare una croce che avrebbe portato fino alla fine dei suoi giorni.

    Aveva intuito il giusto poiché Francesca aveva scattato una foto, con il suo smartphone dal vetro lesionato, all'ultimo dono dell'uomo prima di lasciarlo sul legno sbiancato e impolverato del comodino. Una fotografia sfocata, rea una camera poco illuminata, che avrebbe voluto, in seguito, stampare e incorniciare come monito di quel che mai avrebbe dovuto dimenticare.

    Un avvenimento era, però, ignoto a entrambi. Neppure Francesca sapeva quello che, davvero, era accaduto in sala operatoria: un atto criminale il cui intento era annichilire il frutto del loro appartenersi.

    Quel Natale

    «Tombola!» Francesca aveva innalzato le braccia al cielo, quel giro aveva ripulito il piatto accaparrandosi ogni vincita. Aveva afferrato le banconote in un batter di ciglia, contandole nuovamente e pensando a come sarebbe stato, il successivo Natale, giocare a tombola con la nuova moneta che, di lì a poco, avrebbe sostituito la cara vecchia lira.

    «Hai troppa fortuna!» Brunella, dodicenne piena d'invidia e ammirazione per la sorella maggiore con cui condivideva metà del patrimonio genetico, aveva dato vita a una nenia senza fine.

    Erano seduti intorno a un tavolo di legno usurato dal tempo e dalle tradizioni, radici di cui Francesca avrebbe portato i segni sulla pelle e nell'anima. Adoravano sedersi intorno a quello che sarebbe sempre stato il tavolo dei bambini, sebbene i commensali fossero di diversa distinzione anagrafica. Era stretta tra i propri fratelli, o quasi, poiché l'unica con cui condivideva un legame di sangue era la piccola di casa: Brunella. Francesca smosse appena una delle trecce nere della sorella, affinché tacesse e lei rispose, come di consueto, imbronciando le labbra e calando sulle iridi cerulee un velo di finta commozione, cosicché i suoi capricci fossero sempre assecondati. Era un'adolescente irrequieta, nata dall'unione del padre di Francesca con la donna che aveva supplito a una mancanza asfissiante, logorante ed estenuante.

    La nascita di Francesca urlava devastazione e morte: quella di colei che l'aveva generata tra squarci e tribolazione. Era cresciuta senza averne respirato l'essenza, priva della compiacenza di poterla scrutare; tuttavia, laddove non erano arrivate le pupille, il cuore aveva sopperito. I ricordi di chi aveva amato la madre erano divenuti i suoi, tra ricerche affannose e racconti soffiati a labbra tremanti.

    Il padre non era annoverato tra chi le riempiva lo spirito di minuziosi dettagli e aneddoti, poiché troppo occupato a evitarla, colpevole di aver generato afflizione. Eppure, erano bastati pochi anni a don Michele prima di trascinare nella loro casa una nuova moglie dall'animo docile e dalla mente arguta. Era stato un matrimonio che in paese era etichettato come riparatore: la donna era diventata la nuova signora Lombardi perché portava in grembo il frutto di una passione germogliata nel vigneto in cui lavorava, laddove si era concessa al suo datore.

    Veronica varcava le soglie di quella casa portando con sé una valigia logora e un bambino di neppure dieci anni, privo di cognome paterno. Era stata quella la prima volta che Francesca aveva sorriso, beandosi di quella che, di lì a poco, sarebbe divenuta una famiglia unita. Davide si era stretto nel cappotto strappato sui bordi, ereditato da un cugino a cui non andava più, e aveva scrutato, oltre le ciglia tremolanti, la fastidiosa bimba tutta sorrisi e trecce penzolanti. Il bambino ostentava superbia, benché celasse solitudine, per quei quattro anni che aveva vissuto più di lei e la mente elaborava piani per poterla infastidire, con dispetti e beffe da infierire. Profetiche erano state, però, le previsioni di Francesca giacché divenuti famiglia e il loro affetto era sbocciato in sostegno e devozione, fino alla fine . Complice dell'idillio era stata la nascita di Brunella: il loro sangue si era mescolato, unione che sarebbe perdurata nel tempo, allora inconsapevoli che non sarebbe stata l'unica volta.

    Quella vigilia di Natale, erano riuniti nell'immensa sala da pranzo e ospitavano zii e cugini di entrambe le famiglie, come ogni giorno festivo. Dopo l'abbondante cenone, i giovani avevano iniziato a giocare, dividendosi tra carte e tombola, in attesa che giungesse l'ora della Santa Messa di mezzanotte a cui avrebbe partecipato l'intero paese. La famiglia Lombardi avrebbe passato la serata a non spazientirsi innanzi ai cenni di riverenza elargiti dai compaesani e fingendo di non vedere le occhiate torve di chi attendeva che loro voltassero le spalle per mostrare la propria insofferenza.

    «Avete terminato? È quasi ora di avviarsi.» Donna Veronica era alle spalle della figliastra, con un palmo posato sulla scapola di quest'ultima e l'altro su quella del figlio, quasi a presagire quello che, di lì a poco, sarebbe avvenuto. Uno scialle di lana d'angora nera copriva il busto esile, in attesa di esser sostituito dal lungo cappotto bordato di pelliccia; elargiva sorrisi a ogni giovane commensale, inchiodando le iridi cerulee in quelle della sua adorata bambina, auspicando che non cadesse, come d’abitudine, tra le calde braccia di Morfeo durante la celebrazione religiosa. A onor del vero, sarebbe stato poco ossequioso nei riguardi di Padre Luigi, costretto a osservar dal pulpito l'adolescente stravaccata nel banco in prima fila, dovendo già tenere a bada i continui sbadigli del ministrante.

    Francesca si alzò lesta, rovesciando la sedia su cui era seduta. Doveva raggiungere il bagno prima della sorella oppure avrebbe detto addio all'agognato cambio d'abito; dopo la Messa, avrebbe incontrato gli amici di scuola presso l'abitazione di uno di loro, Fausto, per intrattenersi fino all'alba tra giochi di carte e chiacchiere. Davide seguiva i movimenti dell'adorata sorellastra, osservava la gaiezza dei lineamenti e inebriava lo spirito con le sue bramate fattezze.

    Scalpitante, febbricitante, anelante, Davide aborriva gli impulsi smaniosi di lei, gli stessi che da due anni gli tormentavano i pensieri.

    La bambina pelle e ossa fu annichilita da una giovane donna dalla figura sinuosa: curve che lambiva nei sogni più peccaminosi, sebbene altre immagini riempissero la sua mente quella sera. Voleva strappare, dalla cavità oculari, le pupille del cugino Marcello, ferme sulla profonda scollatura di Francesca. Fulmineo, scattò in piedi e si avvicinò alla sorellastra per ammonirla: «Vuoi uscire vestita così?»

    Le parole arrivarono, alle orecchie della ragazza, come una predica, era troppo per lei sperare in una scenata di gelosia. «Non indosso nulla di particolare, un maglione e un leggings,» Francesca aprì le braccia per rimarcare l'evidenza del proprio abbigliamento, mentre il fratellastro ammirava le sue forme con le iridi velate da mera bramosia, «ma t'informo che sto per andare a cambiarmi per indossare un vestito cortissimo!» Insolente, si burlò di lui.

    Davide si destò dall'intorpidimento e ovviò alle proteste di Francesca alzando la chiusura lampo del maglione in cashmere rosso che, nel suo immaginario, aderiva fin troppo al corpo della giovane. Già si vedeva morto di crepacuore per la folle gelosia. «Abbassa la chiusura lampo, ancora una volta, e renderò la tua vita un vero inferno.» Fu un tocco lieve, appena accennato, che fece sussultare entrambi e a Davide sembrò di essere davvero finito tra le fiamme eterne.

    «Come pensi di farlo?» La giovane si sforzò di sorridere per provocarlo . Tutto pur di scacciare quel fremito che aveva fatto aggrinzire la propria carne.

    «Potrei ricattarti. Che cosa penserebbero i tuoi amici se sapessero che, benché ora delizi le tue orecchie con i Negramaro, hai un passato da fan sfegatata dei neomelodici? Ti hanno mai ascoltato quando intoni Ann... » Il palmo della mano di Francesca si posò con impeto sulle labbra di Davide per zittirlo, nonostante sapesse che il ragazzo non avrebbe mai osato umiliarla.

    Tramortiti.

    Fu una collisione che lasciò una spaccatura profonda in chiunque avrebbe interferito con i loro sentimenti: una voragine oscura da cui mai sarebbero riemersi.

    Era a quel Natale di sette anni prima che Francesca volgeva la propria memoria. Scrutò il golfo di Napoli, un panorama che allietava le sue pupille ogni dì dalle finestre dell'attico divenuto casa, sulla collina di Posillipo. Le sue iridi si riempivano di uno spettacolo mozzafiato. Aveva imparato, dopo tanti patimenti, a vivere nell'opulenza del quartiere della città che l'aveva accolta quando ogni cosa le era stata strappata. Eppure, non era il capoluogo campano che bramava di conquistare perché un altro luogo, che un tempo chiamava casa, divenne la sua ossessione. Divisa tra il coraggio di sopportare e la tenacia di lasciar andare, aveva trovato rinvigorimento nella bramosia di riscatto: un cerchio di sofferenza che sarebbe terminato secondo il proprio volere.

    «Manca poco,» Paolo le aveva poggiato uno scialle sulle braccia lasciate scoperte dall'elegante abito nero; poi, portò la bocca nell'incavo del suo collo e annusò la sua inebriante essenza, «torniamo in sala, gli ospiti ci attendono. I nostri amici sono qui per festeggiare la vigilia con noi, non puoi nasconderti in camera da letto. Ancora pochi giorni e avrai quello che desideri, mantengo sempre le mie promesse, amore.»

    Francesca lasciò che l'uomo cullasse il proprio corpo, nonostante la pelle raggrinzisse a ogni tocco, e si ammantò nelle sue promesse, ignara che le stesse l'avrebbero avvolta in una nefasta chiazza cremisi.

    Genesi

    Era il grigiore indefinito che precedeva l'alba, quello che i due giovani non vollero aspettare, impazienti di viversi e annientarsi; attendere che la nottata passasse e portasse via con sé il ricordo di quel che fu e non sarebbe più stato.

    Furono le campane della Basilica di San Giustino a destare Francesca dal sonno. La giovane si era alzata solerte dal letto e precipitata al piano inferiore, smaniosa d'iniziare il rito . Si avvicinò alla portafinestra, che dalla cucina conduceva al terrazzo ricoperto da un sottile strato di neve, mentre stringeva tra le mani la ceramica di una fumante tazza ripiena di cioccolata calda. Osservò il sole sorgere e riflettere un riverbero dorato sul suo vigneto, mentre una distesa grigia, bianca e marrone ricopriva le colline irpine senza che queste perdessero il loro fascino. Sospirando andò verso la camera di Davide, pregando affinché nessun altro fosse già in piedi. Era stata la prima a svegliarsi, era una tradizione a cui non avrebbe mai rinunciato nel giorno precedente all'antivigilia di Capodanno. Era stata la nonna materna a insegnarle che per rendere speciale un onomastico occorreva una massiccia dose di cioccolata calda: usanza che non dimenticava mai di donare all' amato fratellastro.

    Si mosse tra il fruscio della vestaglia in pile e i battiti di un cuore pavido. Non bussò, ma si addentrò incedendo lentamente e invase la camera buia con il proprio inconfondibile odore: non aveva bisogno di profumi, era la carne a esser pregna di aromi dolci che fluttuavano nell'aria fino ad arrivare alle narici del ragazzo. Scostò le tende azzurre per lasciare entrare i deboli raggi solari di fine dicembre, ma Davide finse di dormire ancora, nella vana speranza che i propri battiti tornassero a pulsare a un ritmo regolare. Metà volto sprofondava nel candido guanciale zuppo di sudore del giovane che, durante la notte, aveva combattuto un'estenuante guerra contro il desiderio che provava per lei. Aspettò di averla accanto e solo quando percepì il materasso abbassarsi sotto il peso delle sue ginocchia, mostrò i primi segni di risveglio. Francesca alitò nel suo orecchio, le labbra quasi sfiorarono il lobo e Davide avvertì il corpo scosso da fremiti incessanti, un tremolio che investì entrambi e percepibile anche nel palmo della sorellastra. Schiuse le palpebre, fingendo stupore, e le sue iridi si riempirono di magnificenza nell'osservare i tratti delicati della ragazza; cercava invano di contare le efelidi presenti sul suo volto, smarrendone sempre qualcuna, mentre le loro pupille s'incatenavano le une alle altre.

    «Buon onomastico» gracchiò Francesca, sentendo le corde vocali lacerarsi; il fiato si era posato sulle sue labbra, mentre tutte le parole che avrebbe voluto pronunciare si fermarono in gola.

    «Cioccolata calda? Non te ne scordi mai, grazie.» Le loro falangi si sfiorarono quando le mani del giovane si posarono intorno alla tazza.

    «Ho capito, vuoi la solita dose mattutina di caffè! Vado a riempire la macchinetta, ma devi bere prima la cioccolata. È di buon auspicio.» Francesca si mosse appena un po', ma Davide fu più veloce di lei e le afferrò il braccio per chiederle ciò che più desiderava, dimenticando ogni buon proposito di non sfiorarla nuovamente. «Neppure un bacio di auguri mi merito?»

    Le labbra di Francesca finirono sulla guancia del fratellastro, troppo vicine all'angolo della bocca, concedendogli una pressione lieve ma prolungata. Il calore si diffuse nel corpo dei ragazzi e il rossore accese i loro volti. Nessuno dei due poteva immaginare che l'altro provasse le medesime emozioni, eppure era così palese il loro appartenersi.

    «Va-vado a preparare il caffè» Francesca farfugliò, sfuggendo alla pericolosa, e desiderata, vicinanza.

    Raggiunse, solerte, l'uscio, ma un richiamo roco la fece voltare. «Vuoi venire con me al vigneto, stamattina?» Davide amava quelle terre come se fossero davvero appartenute alla famiglia di origine. Ricordava quando da bambino accompagnava la madre, operaia dell'azienda vinicola di proprietà dell'uomo che sarebbe divenuto, poi, il marito, alle vigne e si nascondeva, estasiato, tra gli arbusti sperando che nessuno lo portasse via di lì. Aveva speso il proprio tempo e le proprie forze per quei tralci, pampini e vitigni che portavano il nome dei Lombardi, lavorando sin da ragazzo, nonostante gli studi liceali e universitari che di lì a poco sarebbero terminati. Aveva intrapreso la carriera accademica scegliendo la facoltà di Agraria di Avellino e l'anno che stava per giungere l'avrebbe visto laurearsi nei tempi previsti, malgrado gli impegni lavorativi. Francesca avrebbe conseguito la maturità nello stesso anno e, al pari del fratellastro, aveva lavorato le sue terre, eredità materna come la casa in cui abitavano.

    La ragazza annuì, bramosa di poter trascorrere tempo prezioso insieme con lui. Dicembre era il mese della potatura, necessaria durante il fermo biologico affinché le viti non perdessero l'energia per produrre foglie e preziosi frutti, concentrandosi a ottenere grappoli profumati.

    Francesca calpestò terreno e zolle di ghiaccio; gli stivali neri poggiarono su una lastra scivolosa e lei avvertì le ginocchia cedere, ma agguantò il braccio di Davide e fu salva. Sorretta da lui e stretta tra le sue braccia, Francesca potò per prima la vite piantata il giorno della propria nascita. Davide le fu alle spalle, solo i giubbotti separavano i loro corpi mentre i cappucci nascondevano i volti arrossati e le cesoie erano strette tra i polpastrelli raggrinziti. Il gelo di dicembre accarezzava la pelle scoperta delle mani e dei visi. Il calore dei fremiti, a cui non volevano dare un nome, incendiava le loro membra.

    " Buon onomastico, Davide !"

    Quelle parole furono ripetute più volte durante la giornata e la serata di festeggiamenti. Sul tavolo della cucina, rivestito con una bianca tovaglia di macramè, erano poggiati vassoi d'argento con rustici e dolci di ogni genere. Era stato invitato mezzo paese e Davide si ritrovò stretto tra braccia estranee e, talvolta, fastidiose, come quando ad abbracciarlo fu Roberta, figlia di un vecchio amico di Don Michele.

    Francesca ascoltò, distratta, le attenzioni che le rivolgeva Marcello, troppo occupata a osservare il fratellastro circondato dalle braccia tentacolari di Roberta. «Dopodomani sera verrai al veglione a casa di Fausto? Saremo noi della classe e altri compagni di scuola.» Marcello dovette ripetere la medesima domanda più di una volta prima che Francesca annuisse; la ragazza aveva rimuginato a lungo e l'unica certezza a cui era giunta era quella di dover soffocare il sentimento provato per Davide, consapevole che l'avrebbe sfiancata, seppur intuisse l'impossibilità di riuscirci.

    Davide sbuffò, spazientito dalle troppe premure di Roberta e dal parlottio che non riusciva a udire tra il cugino e Francesca; «Che cosa farai dopodomani sera?» La ragazza domandò, senza smettere per un solo istante di importunarlo, infastidendo i timpani del festeggiato, quasi fosse uno stridio molesto. «Io andrò con alcuni amici a una festa, sarà a casa di un compagno di classe di Francesca e Marcello. Ci saranno anche loro, perché non mi accompagni?»

    Passare la prima notte del nuovo anno a rodersi il fegato, osservando il cugino minore provarci spudoratamente con la ragazza di cui era maledettamente innamorato e sotto le grinfie di Roberta Marini? Davide non ebbe bisogno di rifletterci su e declinò, seccato, l'invito: «Esco con i miei compagni di università! Mi dispiace, ma non posso venire.»

    L'assenza di Davide alla festa segnò il preludio del loro rincorrersi e l'ineluttabile fine di una famiglia unita. Di quell'inizio non restò che un ricordo sfocato, immagini che avrebbero voluto dimenticare per sempre, o, almeno, era quello che Francesca e Davide, a un certo e differente punto, avrebbero ripetuto per ogni giorno della loro esistenza. Della loro storia rimase soltanto cenere, fu il pensiero comune dei due innamorati. Sarebbe bastato osservare bene per comprendere quel che si erano lasciati alle spalle: l'aver lottato con disperazione contro un male logorante, i pregiudizi, e l'aver vissuto per davvero, attingendo sostegno da un sentimento, l'amore, che più volte sarebbe mutato senza mai perdere la stessa intensità.

    Capodanno

    «Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, buon anno!» Ci fu un boato, poi urla festose, dopo lo schiocco di baci su guance accaldate e, infine, il tintinnio dei calici di cristallo, colmi di spumante fino all'orlo della bordatura dorata: fu così che la famiglia Lombardi accolse il nuovo anno, giunto, come quelli precedenti, con una parvenza di normalità, ma che avrebbe devastato la coesione tanto amata.

    «Andiamo a guardare i fuochi d'artificio!» Francesca arpionò il braccio di Davide e tirò il giovane verso la portafinestra che conduceva sul terrazzo, una vetrata lunga quanto l'intera parete e opacizzata dal calore della cucina. Ripulì l'alone con la manica del maglione bianco che indossava e i fuochi pirotecnici si palesarono ai loro occhi con uno spettacolo di luci e colori che infransero un cielo privo di stelle.

    Non sapevano ancora che nella loro vita avrebbero incontrato talune persone simili a quei fuochi: tanto rumore, qualche colore e, poi, solo fumo. Lo avrebbero scoperto di lì a poco, troppo presto per due anime ancora acerbe, o forse troppo tardi per acuire un giudizio condizionato.

    «Stai attenta alla festa e non tornare troppo tardi!» Davide sentì montare dentro di sé l'inquietudine di saperla circondata da più di un ragazzo desideroso di averla e avvertì l'impotenza di non poterle esternare quello che provava, refolo di rinuncia che avrebbe corroso ogni spiraglio di felicità. Fu questo a caratterizzare il loro amore: la rinuncia. Davide divenne abile, nel tempo, a sopportare la mancanza di colei che sempre sarebbe apparsa ai propri occhi come l'unica donna capace di farlo respirare. Tuttavia, quella sera l'impotenza si mescolò alla cocente gelosia e divenne fuoco, tempesta di emozioni, amore urlato e, poi, nuovamente taciuto, preludio di speranza e decadenza della serenità familiare.

    Furono gli sguardi scambiati dinanzi a quei colori a dare inizio alla passione che germogliò, poche ore dopo, nella sala accanto, pupille che diedero vita a un atto d'amore prima che i corpi potessero scontrarsi. Smarrirono la lucidità, aggrappandosi al luccichio di passione che videro riflesso l'uno negli occhi dell'altra; e fu un momento che non sfuggì all'attenzione di qualcuno presente nella stanza.

    «Francesca, vai a cambiarti! Tra meno di un'ora passeranno Umberto e Daniela a prenderci.» Marcello pose fine al contatto visivo tra i due e Davide si passò una mano tra i folti capelli scuri per la frustrazione che animò la mano e la bocca.

    «Marcello, fai attenzione a Francesca! Qualsiasi cosa le capiti, riterrò te come unico responsabile. Non starle troppo addosso, però.» Un ringhio si posò tra le labbra del silente innamorato, mentre il torace seguiva una danza armoniosa, seppur furiosa, innalzandosi e abbassandosi a tempo con il cuore.

    «Davide, la tua gelosia fraterna sta diventando troppo invadente. Tua sorella ha il diritto di divertirsi, non oso immaginare quando arriverà il turno di Brunella.» Una risata forzata eruppe dalla bocca di Marcello, ma che tradì il fastidio avvertito per l'indiscrezione del cugino.

    Figli di due sorelle, Davide e Marcello erano uniti da un vincolo di sangue e affetto, un legame che sembrava indissolubile quando i due erano bambini, stessi giochi e passioni simili, eppure divenuto gelido distacco non appena Francesca era sbocciata in una giovane donna. Uno dinanzi all'altro, si fronteggiarono in una muta ostentazione di supremazia: Davide vibrava per la paura di vedere Francesca tra braccia che non fossero le sue, mentre Marcello non comprendeva l'astio che il cugino preferito gli riversava contro.

    Arrivò zia Luisa a sedare gli animi, sorella della defunta nonna materna dei ragazzi; la simpatica e svampita anziana si dispose nel mezzo e pronunciò la domanda ripetuta a cadenza annuale: «Marcello, Davide, quando mi presenterete le vostre fidanzate? Vorrei conoscerle ora che il cervello mi funziona ancora.» La donna inforcò gli occhiali dalla montatura a macchia di leopardo e il bastone da passeggio, in legno di faggio e impugnatura Derby rosa antico, con cui trascinava le gambe malferme fu utilizzato, dapprima, per indicare i due cugini e, poi, in movimenti a mo' di minaccia bonaria.

    «Zia Luisa, io sono Davide e lui è Marcello», uno scintillio di scherno animò le iridi del maggiore dei suoi nipoti, sebbene rilevasse la disattenzione con ossequioso rispetto, «e non abbiamo nessuna fidanzata da presentarti.

    «Non ancora, domani potrebbe essere tutto diverso.» Marcello s'impegnò oltremodo per infastidire Davide, benché non avesse chiaro il motivo di tale morbosità verso Francesca e ostilità contro la sua persona.

    «Vado a cambiarmi e smettetela di punzecchiarvi voi due!» Francesca intervenne prima che il fratellastro potesse replicare; scappò dal calore della stanza e di quegli occhi cerulei che avevano acceso un desiderio mai provato per nessun altro ragazzo. Si rifugiò nella camera da letto, nella speranza di placare i battiti del cuore che minacciava di scoppiare, poiché le pupille di Davide non erano rimaste in cucina, ma ancora dentro le sue e urlavano quanto lei anelasse di udire.

    Guardò il vestito che aveva in precedenza appoggiato sul piumone verde acqua, della stessa tonalità del mobilio della camera, e sognò di ricevere sguardi pregni di voluttuosa ammirazione dal fratellastro. Scese le scale che conducevano nella zona giorno con il cappotto bianco poggiato sul braccio, il miniabito in paillettes dorate lasciava scoperte le gambe velate da sottili calze color carne. L'orlo della gonna plissettata sfiorava a malapena le ginocchia mentre il profondo scollo a V del morbido bustino esaltava le generose curve di cui madre natura le aveva fatto dono.

    Lo sguardo di libidinosa venerazione le fu riservato appena varcò la soglia della cucina, la pelle delle braccia raggrinzì e Francesca non capì se fosse per colpa delle maniche a campana corte fino al gomito oppure per le iridi cerulee che trapassarono l'abito della festa. Davide deglutì, cercando di inumidire le fauci secche, mentre il pomo d'Adamo s'innalzava e abbassava con frenesia. La camicia bianca, che esaltava il colorito olivastro, aderì alla pelle avvampata alla celestiale visione. L'ultima immagine che Davide si ritrovò a osservare fu quella di Francesca che indossava il lungo cappotto aiutata da Marcello e questa scena lo tormentò per l'intera notte trascorsa con i colleghi universitari, ai quali si era aggiunta l'asfissiante Roberta. Avevano trascorso il Capodanno girovagando per i locali di Salerno e Davide si districò per ore tra pene d'amore e le insistenti avances di Roberta.

    Francesca si gettò esausta sul divano, aveva ballato senza sosta insieme agli amici di scuola, gli stessi che si portava dietro dalle elementari, e quando gli ospiti erano andati via, alle prime luci dell'alba, si era offerta di aiutare Fausto per riordinare.

    «Adesso, come ritorni a casa? Sono andati tutti via…» L'intontito Fausto sembrò ragionare solo in quel momento, reclinò il capo sul bordo del divano nero, consentendo ai ciuffi biondi di ricadere sulla fronte imperlata di sudore, e faticò stoicamente affinché le palpebre restassero aperte. Non provò ad avanzare alcuna parola di ricambiata gentilezza, quantomeno come ringraziamento per l'aiuto concreto fornitole dall'amica, manifestando, così, l'assenza di volontà nel riaccompagnare Francesca.

    «Tranquillo, Marcello è andato via con Umberto per recuperare le chiavi della sua auto e tornare a prendermi» Francesca chiosò e Fausto sospirò soddisfatto mentre si stringeva a Morfeo in un mondo privo di doveri; la ragazza sorrise e scattò una foto all'inospitale, e russante, padrone di casa.

    Davide tornò a casa quando il sole era già alto, aveva sovrastato il Terminio e si era impadronito del cielo rasserenato; c'era il silenzio ad avvolgere la stanza e lui sapeva che i familiari non si sarebbero destati prima di un paio d'ore. Fu pronto a raggiungere la sua camera quando, dopo aver sbirciato in direzione dell'appendiabiti, notò l'assenza del cappotto di Francesca. Sfrecciò nella stanza della ragazza, ne appurò la vacuità e tornò al piano terra, si diresse al mobile bar del salone e agguantò con impeto una bottiglia di whisky. La gelosia e l'impotenza si mescolarono alla preoccupazione mentre scenari improbabili si materializzarono nella sua mente, e la giugulare pulsava violenta ingurgitando il liquido ambrato. Il Motorola finì più volte all'orecchio e l'assenza di campo del cellulare di Francesca fece schizzare la frustrazione, riversata sull'intero contenuto della bottiglia. Vivevano in sincrono, il telefono di Francesca e il cuore di Davide; ogni squillo a vuoto tramutava in un battito mancato nel torace del ragazzo. Il rombo di un motore e lo stridio di pneumatici sulla ghiaia fecero sfrecciare Davide verso la porta, spalancandola senza grazia, e una visione distorta offuscò la ragione. Fantasma di se stesso, impigliato in un filo spinato pregno d'insidie, Davide implose ed esplose di rabbia.

    Era l'alba di un nuovo giorno, preludio di un anno costellato d'innumerevoli mutamenti e il fuoco divampò illuminando quello che sarebbe dovuto restar celato, quello che mai sarebbe stato accettato: il loro amore.

    Al chiarore di un nuovo giorno

    Intrappolato in un groviglio di rimorsi e domande senza risposte, Davide era rimasto inerme a fissare i propri sogni tramortire, sotto la zavorra della sua vigliaccheria. Il cuore si schiantò, provocando un rumore che poté udire unicamente lui. Si sentiva indebolito da quel sentimento che non aveva mai osato pronunciare e che si era fermato sulle sue labbra, lasciando sulle stesse il sapore della codardia.

    Francesca aveva reclinato il capo sul poggiatesta dell'automobile di Marcello, faticava a tenere le palpebre schiuse mentre il ragazzo non accennava a lasciarla andare. Era stato un tragitto disseminato da un chiacchiericcio incessante a cui Francesca aveva finto interesse, poiché troppo educata per zittirlo, benché avesse sbadigliato più di una volta. L'automobile si era fermata nel giardino di casa Lombardi e Marcello aveva approfittato della distrazione di Francesca per racchiuderle il volto tra i palmi e spingerla verso sé.

    Davide fu lì a osservare, mentre annaspava nelle proprie recondite paure e pulsava per il desiderio di un bacio che non si sarebbe mai posato sulle sue labbra. Ciondolò e fu incapace di scostarsi dallo stipite della porta, fonte di sostegno per le gambe tremule.

    Francesca strabuzzò gli occhi ed ebbe coscienza del comportamento di Marcello, che portò i loro volti a un soffio l'uno dall'altro; le mani finirono sui deltoidi del ragazzo e lo sospinsero via con ardore. I polsi scricchiolarono e, con una pressione vigorosa, il giovane fu lontano da lei. Non una parola riuscì a soffiare dalla bocca, rinsecchita dal freddo pungente e dagli ansiti di costernazione, prima che lo sportello dell'automobile fosse spalancato da Davide, che aveva attinto la forza di reagire dal gesto stizzito di Francesca.

    «Scendi, ora!» Davide le intimò di uscire; poi, girò intorno al veicolo e, con la medesima veemenza, aprì lo sportello dal lato del guidatore. «Che cosa volevi fare?»

    Marcello si ritrovò scaraventato fuori dall'abitacolo, con il cappotto stretto tra le falangi di Davide che lo attirò vicino al suo viso. «Non provarci mai più!»

    «Tu sei pazzo, si può sapere cosa ti prende? È tua sorella, non mi sognerei mai di approfittare di lei. Tengo davvero a Francesca.» Marcello chiosò caustico le proprie ragioni e si divincolò dalla stretta di Davide.

    «È mia sorella, quindi è anche tua cugina!» La dichiarazione del più giovane aveva stordito sia Davide che Francesca: il ragazzo divenne consapevole di un nuovo ostacolo all'agognata felicità e la ragazza capì di aver frainteso la gentilezza del suo amico.

    «Non c'è nessun legame di sangue tra noi.» Marcello osservò l'aspetto severo che modellava il volto del cugino e lo sfidò oltremodo, ottenendo in cambio quello che Davide non avrebbe mai dovuto pronunciare.

    «Neppure tra noi!» Furono parole soffiate da Davide con astio e che divennero un colpo inferto alla certezza del loro legame. Non erano stati loro a scegliere quell'unione, ma ne divennero vittime sacrificali .

    Davide posò i palmi tra i capelli scompigliati, avrebbe voluto strapparli uno per uno, fino a rimanerne privo. «Andiamo dentro.» Francesca protese la mano verso il fratellastro e le dita del ragazzo scivolarono tra le sue, intrecciate e combacianti in una perfezione che non sfuggì al cugino. «Marcello, ne riparleremo un'altra volta, ora vai.» Nessuna parola di obiezione all'ordine impartito dalla ragazza fu pronunciata dai presenti, Marcello risalì in auto, stizzito e oltraggiato, e Davide si lasciò trascinare in casa senza abbandonare la mano di Francesca.

    Il caldo della casa li avvolse con un tepore che rigenerò le membra e fu preludio del fuoco che divampò. «Ti sembra l'ora di rientrare? Ero spaventato a morte, ho temuto il peggio. Quanto sforzo richiedeva avvisare?»

    La posatezza di Davide era annegata nella bottiglia di whisky che si era scolato durante la logorante attesa e che giaceva, vuota, sul tavolino davanti al divano. Francesca osservò, preoccupata, la bottiglia e il bicchiere infranto, i cui resti erano sparsi sul pavimento del soggiorno, e lo redarguì aspramente: «Hai deciso di andare in coma etilico? E smettila di controllarmi, non sono più una bambina!»

    «Me ne sono accorto benissimo, credimi!» Davide sentenziò e la ragazza trasalì nell'udire l'affermazione urlata tra rabbia e sfinimento.

    Le pupille del fratellastro penetrarono oltre il cappotto, mentre le sue sopracciglia guizzarono verso l'alto. Il vestito di Francesca aderì alla pelle a causa del repentino aumento della temperatura corporea e divenne più corto di quello che era davvero, almeno fu quello che lei credette. Incredula, non rinunciò a chiedere spiegazioni che sarebbero dovute restar nascoste: «Che cosa significa?»

    «Non costringermi a dire quello che mi dannerebbe in eterno, questa mattina potrei commettere un errore irreparabile.»

    Neppure la richiesta accorata pronunciata da Davide fermò Francesca, animata dalla speranza e dal coraggio. «Di quale errore stai parlando?» soffiò con malizia; poi, si avvicinò lenta e il palmo della mano accarezzò il viso stanco del giovane. Davide avvertì la pelle plasmarsi alla volontà della ragazza innanzi a sé, percepì il suo stesso desiderio nel tremolio delle ciglia e nel calore divampato sulle gote.

    Fu l'ebbrezza, fu la preoccupazione, fu la gelosia, fu tutto o forse solo il puro desiderio a scuoterlo, fino a soccombere. «Di questo!»

    La catturò tra i palmi sudati, la spinse verso sé e affondò la bocca avida sulle labbra tremanti della ragazza, assaporandone la morbida consistenza con fervore. La sollevò senza mai allontanarsi da quel bacio: sarebbe morto piuttosto che separarsi da ciò che stava offrendo nutrimento al suo spirito. Francesca circondò i fianchi del fratellastro con le gambe scoperte dal vestito che si era completamente sollevato, le braccia circondarono le spalle di Davide e si beò di quella fusione tanto bramata, diventando argilla tra le sue mani esperte, e si lasciò trasportare nella sua stanza.

    Davide richiuse la porta della propria camera con il piede, tenendo Francesca ancora stretta tra le braccia; infine, la adagiò sul letto e si riempì le iridi con la celestiale visione: le ciocche ramate, ormai sfuggite all'elaborata acconciatura, risplendevano sul piumone grigio, le iridi verdi riflettevano un luccichio di desiderio misto a stupore e il corpo sinuoso, a malapena coperto dallo scintillante abito dorato, lo attirava come un magnete. Si sdraiò su di lei e tornò a baciarla con pura bramosia, inebriato dal suo sapore. Lo avrebbe fatto in eterno, noncurante che, di lì a poco, gli altri abitanti della casa si sarebbero destati dal sonno. Francesca tremò sotto le carezze intime e il corpo reagì all'esplosione di un desiderio mai provato. Davide percepì la reazione che aveva investito la sua amata e, colto da un barlume di raziocinio, si staccò, ansante, da lei. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per possederne anche l'anima, tuttavia realizzò di volerla per amore e non animato dalla rabbia. Si crucciò ipotizzando di averla spaventata, conscio dell'inesperienza della sorellastra, e si maledisse per l'impulso frenetico di coglierne la purezza.

    Francesca avvampò, percependo l'eccesso di rispetto come un rifiuto, e l'amarezza si mescolò alla vergogna. Le pupille liquide s'incastrarono tra loro, quelle di Francesca luccicavano di rimpianti mentre quelle del giovane si accesero di rimorsi. Francesca balzò giù dal letto per, poi, avviarsi, a capo chino, verso la porta. Davide la fermò, prima che scomparisse oltre il battente, avvolgendola tra le braccia muscolose, forgiate dell'intenso lavoro manuale svolto nelle vigne.

    La trattenne per un tempo indefinito e, appoggiando il mento nell'incavo del collo, inspirò rumorosamente il suo profumo, ansimò e le parole scivolarono, impetuose, dalla bocca: «Resta con me, non farò nulla che tu non voglia. Desidero, solo, tenerti tra le mie braccia.»

    Francesca si sciolse alla richiesta, il cuore si esibì in una capriola, pronto a gettarsi ai piedi di Davide come manifestazione di un sentimento che aveva celato per troppo tempo, consumandosi . Non poteva sapere che Davide era in ginocchio al suo cospetto da molto prima, nonostante il giovane sarebbe stato costretto, un giorno non lontano, a rinunciare a lei al fine di preservarne la rispettabilità.

    «A breve si sveglieranno tutti, non possiamo farci trovare così.» Un barlume di lucidità baluginò nella mente di Francesca e manifestò ciò che Davide preferì dimenticare.

    «Pochi minuti, voglio solo stendermi al tuo fianco e sperare che possa durare per sempre,» il ragazzo fu certo di essersi esposto troppo , ma non se ne curò «... domani parleremo di tutto. Sono tante le cose che voglio dirti e dovremmo stare molto attenti , ma non voglio perderti.»

    «Luce spenta o accesa?» Francesca non poté nascondere la felicità per la richiesta che più volte aveva urlato il suo stesso cuore. Come una stella, il loro amore brillò di luce propria fino a quando Francesca la spense in un moto di stizza, incapace di comprendere quello che non le fu detto.

    Calamità

    Fu un lungo viaggio, la loro vita, durante il quale smarrirono la strada del ritorno, poiché tradirono le proprie origini, il luogo dal quale erano partiti. Iniziò in quei mesi freddi, mentre le vigne erano a riposo, una storia che non avrebbe trovato mai fine tra i due giovani. In un moto perpetuo, si sarebbero rincorsi e acciuffati, per perdersi, poi, tra le spire di una volontà distorta e ritrovarsi, ancora, in uno sfarfallio di vita.

    Quella mattina, si erano nascosti dietro la vite piantata in onore della nascita della ragazza, le spalle di Francesca erano poggiate sul tronco e non vi era spazio tra il suo corpo e quello di Davide, mentre le loro labbra combaciavano in un incastro perfetto. Lo fu allora che loro erano ancora interi, lo sarebbe stato anche quando sarebbero diventati anime frantumate: bocche insaziabili unite in una danza lenta.

    Fu amore puro e passione travolgente, fu sconquasso di anime e devastazione di corpi, ma insieme avrebbero sempre funzionato e fu chiaro in quel momento, mentre erano aggrappati l'uno all'altra.

    Era un giovedì di metà febbraio, festivo poiché era il giorno in cui si celebravano gli innamorati e i due si erano dati appuntamento dietro l'arbusto per innocenti effusioni prima di andare a scuola. Davide strinse la ragazza tra le braccia possenti: avevano passato le ultime settimane a ricercare un contatto che entrambi bramavano più di ogni altra cosa. Lui la accarezzò con gli occhi, come aveva fatto negli ultimi due anni, prima ancora che le mani si muovessero su quel corpo sinuoso che sentiva appartenergli, benché non avesse più osato oltre dall'alba del Capodanno.

    Pochi metri più in là, all'interno della casa, Michele stringeva tra le mani numerosi fogli su cui era scritta la propria condanna. Trent'anni di duro lavoro e sacrifici celati. Aveva più volte ricostruito il futuro della propria famiglia, benché il destino sembrava fosse sempre avverso. Aveva visto la casa, scelta dall'adorata prima moglie, crollare in seguito al terremoto che aveva colpito tutta la loro provincia, pochi anni prima della nascita di Francesca e la morte di Lucrezia. Aveva promesso alla donna di ricostruirla fedelmente, indebitandosi oltre ogni misura. Aveva tenuto fede alla parola data alla compianta moglie, aveva pagato il mutuo fino all'ultima lira quando, quattro anni prima, l'alluvione distrusse il vigneto. Altri debiti, altri sacrifici che difficilmente lui sarebbe riuscito a sostenere ancora. Il futuro della loro famiglia e quello di un intero paese dipendeva dalla sua abilità di rialzarsi nuovamente. Erano i Lombardi a mantenere l'economia, la maggior parte dei compaesani erano loro dipendenti e, a breve, sarebbero stati licenziati.

    Occorreva un miracolo, benché don Michele temesse che le preghiere poco potessero funzionare in tali circostanze. C'era un'unica opportunità per aggirare il fallimento e portava il nome di un vecchio amico di Michele: Mauro Marini. L'uomo poteva risanare la precaria situazione economica, e l'avrebbe fatto se qualcuno avesse invocato il suo intervento. Peccato che Michele non fosse intenzionato a chiedere alcun aiuto, poiché superbia e presunzione avevano modellato il suo carattere, sciagura dopo sciagura. Eppure, la soluzione era lì che girava vorticosamente nella mente del maturo patriarca: un'unione familiare e non sarebbe stata carità. I suoi occhi avevano ben visto il morboso attaccamento di Roberta verso il figliastro. Davide non gli avrebbe rifiutato nulla, amava quelle terre e la loro famiglia, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvarle. Aveva previsto tutto tranne l'amore che univa il giovane all'adorata figlia: Davide non avrebbe rinunciato a Francesca, a meno di sacrificarsi proprio per il suo bene.

    E Michele non poteva immaginare ciò che stava accadendo tra i due, in quell'istante esatto, nei suoi terreni.

    «Stasera, verrai a vedermi suonare al locale di Giovanni?» Sospiri e gemiti diventarono tutt'uno con le parole pronunciate da Davide.

    «Appena terminano gli allenamenti, vengo da te.» Francesca si staccò dalle labbra del ragazzo per confermare la propria presenza nel pub del vecchio Giovanni, dove sarebbero stati presenti tutti i loro amici.

    «Verrò a vedere i tuoi allenamenti e ti porterò io al locale.» Davide affondò i palmi nei capelli ramati di Francesca e non le concesse neppure un attimo per respirare, continuò a torturarle le labbra poiché necessitava di assuefarsi per resistere fin dopo il concerto, quando sarebbero stati di nuovo lontani da occhi indiscreti.

    «Devi esser lì prima del pubblico, non puoi aspettarmi. Tranquillo, verrò con Daniela, deve allenarsi pure lei,» la giovane affermò, circondò, poi, i fianchi di Davide e poggiò

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