Le acque del sonno eterno
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Info su questo ebook
Al suo arrivo è accolta con estrema freddezza ma, con il passare dei giorni, fa amicizia con Marta, la cuoca, e con Erika, la moglie defunta
dello zio.
Saranno proprio lo spirito di Erika e la pazienza di Sara a sciogliere il cuore arido e indurito di Alberto, trasformandolo in una persona cordiale e amabile.
Nonostante i ripetuti moniti di Erika di stare lontana dall’acqua, Sara deciderà di trasferirsi in un paesino nei pressi di una diga, dove troverà la sua indipendenza e l’amore al fianco di Francesco, fino al fatidico giorno in cui la diga riverserà le sue acque sul centro abitato, trasformando le loro vite per sempre...
Questo racconto vuole ricordare il disastro provocato dalla rottura della diga del Vajont, che in una sola notte ha causato mille e novecento morti.
Tragedia che poteva essere evitata e che ha causato danni all’ambiente e alle persone, devastando un intero paese.
Sebbene la narrazione sia puramente fantastica,
vuole mettere in risalto come vite diverse vengano spezzate in poco tempo, per motivi futili e prese di posizione politico-economiche.
Questa storia è stata scritta per non dimenticare, per sottolineare che la superficialità umana spesso porta
alla distruzione di vite, gremite di desideri ed emozioni. L’Uomo diventa, qui, il dio di se stesso. Un suo errore può varcare il limite della vita e della morte, ed egli si fa autore di misfatti che potrebbero benissimo essere evitati. È un urlo a chiunque possa decidere delle sorti dell’umanità a essere più responsabile in ciò che si fa e si esercita, a prescindere dai giri economici e di potere.
“Le acque del sonno eterno” vuole implorare tutti gli uomini a imparare dai nostri stessi errori. Sbagli che hanno portato a catastrofiche conseguenze spezzando l’esistenza di molte vite umane.
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Anteprima del libro
Le acque del sonno eterno - Maria Cristina Pizzuto
Maria Cristina Pizzuto
Le acque del sonno eterno
Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a situazioni, oggetti, persone e luoghi è puramente casuale.
Editing e impaginazione: Emanuela Navone
Immagine di copertina: cocoparisienne/pixabay
Immagine degli interni: Elisabeth Leunert, wilianmelo
2019 © PubMe, Maria Cristina Pizzuto
Tutti i diritti riservati
UUID: f1dd9baa-a248-11e9-bde3-bb9721ed696d
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Sara, rimasta orfana a causa di un incidente, è costretta ad andare a vivere al castello del suo austero zio Alberto, in una cittadina chiamata Pomlete.
Al suo arrivo è accolta con estrema freddezza ma, con il passare dei giorni, fa amicizia con Marta, la cuoca, e con Erika, la moglie defunta dello zio.
Saranno proprio lo spirito di Erika e la pazienza di Sara a sciogliere il cuore arido e indurito di Alberto, trasformandolo in una persona cordiale e amabile.
Nonostante i ripetuti moniti di Erika di stare lontana dall’acqua, Sara deciderà di trasferirsi in un paesino nei pressi di una diga, dove troverà la sua indipendenza e l’amore al fianco di Francesco, fino al fatidico giorno in cui la diga riverserà le sue acque sul centro abitato, trasformando le loro vite per sempre...
QUESTO racconto è ispirato a un fatto realmente accaduto, tra il Friuli e il Veneto, il 9 ottobre 1963.
Il libro vuole ricordare il disastro provocato dalla rottura della diga del Vajont, che in una sola notte ha causato mille e novecento morti.
Tragedia che poteva essere evitata e che ha causato danni all’ambiente e alle persone, devastando un intero paese.
Sebbene la narrazione sia puramente fantastica, vuole mettere in risalto come vite diverse vengano spezzate in poco tempo, per motivi futili e prese di posizione politico-economiche.
Questa storia è stata scritta per non dimenticare, per sottolineare che la superficialità umana spesso porta alla distruzione di vite, gremite di desideri ed emozioni. L’Uomo diventa, qui, il dio di se stesso. Un suo errore può varcare il limite della vita e della morte, ed egli si fa autore di misfatti che potrebbero benissimo essere evitati. È un urlo a chiunque possa decidere delle sorti dell’umanità a essere più responsabile in ciò che si fa e si esercita, a prescindere dai giri economici e di potere.
Le acque del sonno eterno
vuole implorare tutti gli uomini a imparare dai nostri stessi errori. Sbagli che hanno portato a catastrofiche conseguenze spezzando l’esistenza di molte vite umane.
CAPITOLO UNO
In una fresca mattina di autunno, Sara si trovava ad aspettare il treno sul binario 4 della stazione della sua città. Il cielo terso, palpitante di una frizzante spirale colorata, portava gli occhi della ragazza in un mondo suo, intimo, inviolabile, in cui nessuno sarebbe entrato.
Dopo l’incidente in cui erano deceduti i genitori, Sara era ormai sola, e l’unico parente si trovava in quel ramo di lago al di fuori di ogni civiltà. Aveva poche notizie sullo zio paterno, qualche lettera qua e là, niente di più.
Alberto: le sembrava fosse quello il nome dell’uomo che avrebbe provveduto al suo sostentamento economico fino alla maggiore età.
I genitori glielo avevano sempre dipinto come uno spirito chiuso, come se in qualche modo volesse nascondere la propria identità. Era per molti un uomo misterioso, dalla volontà di ferro, un viaggiatore in cerca di qualche filone prezioso nell’entroterra in suo possesso. Era infatti ben noto che nel territorio su cui poggiava la sua dimora si trovavano giacimenti minerari, ma Alberto non si era mai accontentato del carbone e si era sempre spinto in avanscoperta di giacimenti di qualche pietra più raffinata, senza però mai venire soddisfatto in questa spasmodica ricerca.
Sara sapeva che la sua nuova residenza sarebbe stata un castello medioevale, ne aveva studiato la struttura tramite alcuni libri, ma non capiva cosa provasse in quel momento. Eccitata? Euforica? No. Era spaventata.
Dall’istante in cui una macchina fuori controllo aveva sbandato, calpestando e sbriciolando i corpi delle persone che più amava al mondo, la sua vita era cambiata. Il tempo correva al rallentatore lungo i lucidi binari della ferrovia; ogni soffio, respiro, sibilo, la faceva tremare. Non aveva mai avuto molte amiche e nel momento del bisogno si era trovata sola, sola contro il resto del mondo che continuava il suo moto infinito.
Il tetro buio della notte stava lasciando spazio a un sole appena accennato sulla linea dell’orizzonte che accarezzava i prati ancora fradici di rugiada.
Un fischio acuto, seguito da un rumore stridente, le ferì i timpani.
La forza del treno in corsa la stava trascinando. Voleva scappare lontano da tutto e da tutti: si era appena resa conto che se avesse intrapreso la nuova strada proiettata sui propri occhi, in quel momento avrebbe perso una parte di sé lungo gli allungati binari; nessuno le avrebbe più ridato la spensieratezza dei giorni passati insieme alla mamma e al papà. Non lo voleva questo viaggio, il suo cuore si ribellava all’imposizione degli adulti.
Ma non aveva scelta.
Tutto ciò la opprimeva e, con occhi lacrimosi, cercava di afferrare ancora le emozioni felici di una vita che sapeva non sarebbe tornata mai più.
Era terrorizzata dalle descrizioni che le avevano fatto del fratello di suo padre. Non aveva nessuna intenzione di crescere in un ambiente così lugubre e freddo, dove non ci sarebbe stato nessuno a coccolarla e asciugare le sue lacrime quando ne avrebbe avuto bisogno.
Un vento vorticoso scompigliò i suoi capelli e un sibilo acuto accolse i passeggeri in attesa. Fu un attimo, e l’equilibrio vacillò, ma ormai il suo destino si stava compiendo: ancora un passo sulle scalette del treno ormai fermo in stazione e sarebbe stata ribaltata in un mondo sconosciuto e terrificante.
Salì sul vagone, e un confortevole calore l'avvolse. Morbide poltroncine si aprivano sui due lati. Ingurgitò il grumo che le schiacciava il petto e trovò sistemazione accanto al finestrino.
Il treno si mise in movimento. Un nuovo nodo le salì in gola, ma non vi prestò attenzione.
Il sole salì dalla linea dell’orizzonte, pallido, pochi raggi riuscivano a scalfire il cielo ancora nero della notte appena trascorsa, ma in quella carrozza Sara si sentiva al sicuro, protetta da qualunque cosa succedesse all’esterno.
Le varie forme incominciavano a delinearsi fuori dai finestrini e l’oscurità cedette il passo ai lunghi raggi luminosi che attraversavano la vallata. Poi, in un momento, tutto si oscurò e le tenebre calarono intorno a lei. Piccole luci a intermittenza schiarivano a fasci la sua pelle.
Non era mai salita su un treno prima di allora, e quelle tenebre, cadute su di lei tutto d’un tratto, fecero vacillare la sua già altalenante psiche. Sorse una paura quasi appiccicosa ad accompagnarla in quel tragitto che mai avrebbe voluto fare, ma fortunatamente il treno uscì dalla galleria e Sara rivide i caldi raggi del sole, il cuore si chetò e ricominciò a respirare nuovamente in modo più sereno.
Era tesa come un arco pronto a scoccare la freccia, e persino le gallerie avevano la facoltà di farla crollare.
Si osservò intorno sbalordita, quasi affascinata da quelle strane percezioni, come l’atto di trasformare un semplice tunnel in un cunicolo ombroso senza fine; le era ignoto, come lo era la sua meta.
Un viaggio stancante si mostrava davanti ai suoi occhi azzurri; vallate immense, steppe dalla vegetazione giallastra, brughiere infinite segnavano il confine con una natura bassa, fragile, secca e monti imponenti dove la luce filtrava attraverso bianche e appuntite vette.
Il convoglio entrò in una seconda cavità scavata nella scura roccia madre, e quando la luce tornò a regnare si affrescò una nebbiosa pianura: densi fumi salivano dalle crepe del terreno e sibili di vento increspavano le gelide acque di un laghetto circondato da villette dai ferrosi tetti.
Quando anche questo paesaggio si dileguò, il treno giunse davanti a uno stretto marciapiede dove, al centro, sorgeva una colonna grigiastra. Sopra si trovava una tettoia sottile, la cui circonferenza era delimitata da una grondaia metallica e ramata.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando la carrozza si fermò, sbilanciando i corpi al suo interno verso i sedili opposti ai loro; seguì un acuto fischio che segnò l’apertura delle massicce porte scorrevoli.
La stazione di Pomlete era deserta, solo il fruscio di qualche foglia rossiccia faceva eco. Anche il bar, di solito pieno di chiacchiere e profumi di brioche appena sfornate o di caffè, era chiuso. Le saracinesche abbassate davano l’idea di un luogo abbandonato da secoli. Sul ciglio della strada terrosa vi era un