I 24 in blu
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Anteprima del libro
I 24 in blu - Alessio Paladini
4
Bar Barians
I piedi della donna e dell’uomo erano affiancati scalzi, sotto il tavolino di
vetro e legno. L’uomo aveva dei calzini neri, lunghi, la cui fine era nascosta
dall’orlo dei pantaloni del completo antracite che indossava; la donna, invece,
aveva i piedi nudi, curati, con smalto bordeaux e pantaloni panna alla caviglia. I
mocassini di entrambi posavano a coppie, sul lato esterno delle loro rispettive
cause, vagamente consapevoli di essere stati fortunati.
I due sedevano ad un tavolo del Bar Barians, quello appena fuori della porta
finestra al piano terra, e guardavano la piazza quasi vuota nell’ombra
pomeridiana di luglio. I palazzi tutt’intorno alla piazza non tenevano lontano
solo il sole, l’intrico di vicoli lasciava la piazza quasi segreta e nascosta alla
folla di turisti che sciamavano per le vie del centro. Fuori dalle tratte della
moltitudine di genti che camminavano rapidi sulle loro vite, ignari e indaffarati
come formiche sopra un testo di Eraclito. E non era stato il caso a costruire la
piazza, il bar, e il loro aperitivo del pomeriggio.
L’uomo e la donna parlavano con le camicette semiaperte e si guardavano
per un quarto. L’uomo era stato ministro, ma non aveva mai amato sua madre,
la donna non beveva alcool solo champagne. Entrambi amavano i poveri, forse
perché erano tutti e due ascendente sagittario, come avevano appena scoperto.
Il tavolo disegnava un ombra sulle gambe della donna simile alle pale di un
mulino, erano gambe ancora giovani sebbene lei non lo fosse più. Ma l’uomo
dal suo angolo non poteva vederlo.
La donna chiedeva di politica con tocco leggero, interessata ai personaggi
più che al quadro d’insieme. E leggere e fascinose erano le risposte dell’uomo.
La donna chiese del giovane rampante, del vecchio filosofo, del segretario
fiaccato dal tempo e dal potere. E l’uomo rispose citando paesi lontani,
tartarughe, lettere che invitavano a scrivere altre lettere. Le parlò dei tromboni
naturali della corte costituzionale e della prospettiva assurda del quirinale.
Raccontava con un tono confidente, come avesse ripetuto spesso quel discorso
nella sua testa. Parlavano entrambi a voce bassa e senza interrompersi, come
basso e senza interruzioni era il rumore ovattato della fontana della piazza che
gli faceva da sottofondo. Era una fontana quasi silenziosa e senza spruzzi. La
sola acqua in movimento era quella che cadeva da un’anfora piatta e larga che
stava in alto ad una vasca quadrata che stava in basso. L’anfora era sorretta da
quattro figure simili a giovani uomini, forse di bronzo, che guardavano verso
l’osservatore con un’espressione strana, tra tristezza e follia. Tutta la fontana
era circondata da colonnine di marmo alte circa mezzo metro unite da una
sbarra tonda in ferro.
5
L’acqua in eccesso cadeva dall’alto in basso sempre allo stesso modo,
moderata e costante, e non finiva mai fuori dalla vasca inferiore, oltre la
fontana.
L’uomo fece una battuta e risero insieme e insieme bevvero un sorso dai
loro bicchieri. Si avvicinò il cameriere e sostituì le due ciotole di patatine e
salatini che erano ormai quasi vuote. L’uomo lo ringraziò con uno sguardo
mentre la conversazione virava verso i suoi piani per il futuro. La donna gli
chiese cosa avesse intenzione di fare e gli sorrise guardandolo con la testa
inclinata da un lato, e l’uomo sorrise a sua volta prima di iniziare a parlare.
Le disse della sua posizione all’interno del grande partito, del fatto che non
volesse formare correnti e del suo viaggio tra le persone della base. Le raccontò
di come avesse girato e rigirato il territorio, preso contatti, conosciuto
situazioni. Era stata un’esperienza formativa, le disse, che gli aveva permesso
di rendersi conto dello stato delle cose e di toccarle con mano. Poi le guardò i
capelli ancora quasi esclusivamente biondi e la bocca rossa e sorridendo
precisò che naturalmente ora sentiva la necessità di buttare la scala.
Lei gli domandò, toccandogli l’avambraccio sopra il tavolino, se aveva
lasciato traccia di questo lavoro, di tutto questo impegno. E allora lui le parlò
del suo luogo. Si sbottonò i polsini della sua camicia celeste ed iniziò a
descriverle quello che stava facendo sul sito.
Una coppia di ragazzi traversò da parte a parte la piazza, tremolando un
istante in uno spigolo arrotondato della fontana, mentre i riccioli brizzolati
dell’uomo si muovevano al suono della sua voce migliore. La donna sorrise
alle sue parole e mostrò uno sguardo che un tempo non sarebbe stato ignorato.
Era ancora bella e nei suoi occhi non c’era traccia del tempo, erano occhi in cui
avevano naufragato filosofie. Ma poggiò il viso sul dorso della mano e l’anello
brillò più del resto.
L’uomo prese dal taschino il cellulare e condivise con il mondo il suo
aperitivo con Wittgenstein, Bernini e Krusciov in una quarantina di caratteri.
La donna gli lasciò il tempo di scrivere, era troppo ben educata per fare
altrettanto e lasciò il proprio nella borsa. Dondolò i suoi orecchini per rivolgere
lo sguardo verso l’esterno e bevve un sorso dell’aperitivo. La comunicazione
che lei avrebbe fatto di quel pomeriggio non sarebbe stata né pubblica né
collettiva, e l’unico nome a venir fuori sarebbe stato quello dell’uomo che
aveva davanti.
Il padrone del bar si avvicinò al politico e gli mise una mano sulla spalla.
Scambiarono qualche parola. Il politico rispose distrattamente mentre rimetteva
il cellulare in tasca. Quindi alzò lo sguardo verso il suo viso abbronzato e gli
chiese come stavano andando le cose, come procedeva l’attività. Usò il tono
garbato e partecipe che conosceva bene, provando a soffocare il più possibile la
sensazione di pro forma che danno i politici quando s’informano, come un
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accento che non si riesce a togliere. Il padrone del bar riportò sommariamente
la situazione, cercando di non essere troppo pesante. L’attività stava pagando lo
stallo generale, gli disse, ed il fisco soffocante. L’ex ministro scherzò
sull’eventuale sorpresa di una serranda abbassata, poi cambiò espressione e lo
esortò a non abbattersi indicando prospettive migliori e provvedimenti mirati
nel breve-medio termine. Il barista disse di sperarci, ma non troppo, e subito
dopo dovette allontanarsi richiamato verso il bancone. Il politico pensò che
avrebbe potuto usare quell’esempio e quelle informazioni in qualche dibattito.
Con quell’idea in testa rivolse di nuovo lo sguardo alla signora al suo tavolo,
immersa in pensieri di mare e di passato.
La donna si riavviò una ciocca di capelli e guardò di sfuggita l’orologio che
aveva al polso, l’uomo, invece, le guardò il collo, ed entrambi si resero conto
del tempo trascorso. La donna pensò al conto e sperò nella tempestività e
risolutezza di lui, in modo da non essere messa in imbarazzo, poi pensò di
domandargli della sua situazione personale ed iniziò a cercare le parole.
Quando l’uomo accennò al viaggio che aveva in programma di fare di lì a
breve, tutto divenne semplice.
Non un viaggio di lavoro stavolta, sorrise l’uomo. Le parlò un po’
dell’itinerario che aveva in mente di fare, nei vari paesi. Le disse che volevano
evitare il più possibile le rotte turistiche, per vedere realmente i paesi che
andavano a visitare, le realtà del luogo. L’unica cosa che lo preoccupava un
po’, spiegò, erano i voli interni con i piccoli aerei locali. La donna sottolineò la
sua vocazione avventurosa che non aveva mai perso, quindi chiese con chi
avrebbe condiviso il viaggio mostrandogli il sorriso con cui aveva eluso il
mondo. La classica piega della bocca dell’uomo si era appena formata, aperta
dal sipario delle due rughe attorno ad essa, quando arrivarono le rose.
Iniziarono entrambi a dire di no con la testa e con la voce, non riuscendo a far
desistere il venditore sempre ritto alle loro spalle. Poi si girarono tutti e due a
guardare fuori per chiudere la questione.
Il lampo di vino bianco e succo di pesca arrivò come una frustata. Il
politico s’alzò di scatto e sparò un paio di parole che erano anni che non diceva
in pubblico. Quel che restava del suo aperitivo era ora un’enorme macchia
ramificata su camicia e pantaloni. Il venditore di rose si girò nuovamente verso
di loro ed iniziò a chiedere scusa in tutte le lingue che conosceva, poi nelle
stesse lingue maledisse lo zaino che portava sulle spalle. Il proprietario del bar
planò in un attimo su di lui e lo tirò via per un braccio in maniera piuttosto
decisa. L’uomo continuava a scusarsi in tutti i modi, alternava una lingua
all’altra come cercandone una che fosse più convincente.
Il politico rimase immobile a braccia aperte, stordito, continuava a
guardarsi addosso non riuscendo ad esprimere il suo disagio a parole. La
donna, intanto, si era alzata in piedi e lo guardava incerta su come affrontare la
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situazione, quello che le venne di fare fu rialzare il bicchiere sul tavolino,
rovesciato ma integro. Il barista tornò a stretto giro e si scusò e si dispiacque a
sua volta, il politico rispose con un tono più aspro di quanto avrebbe voluto. E
per un istante rimasero tutti e tre congelati alle loro solitudini del momento,
strani esseri scalzi, mezzo svestiti e cotti dal sole.
Poi la donna iniziò a parlare. L’uomo politico non riusciva a starle dietro,
non riusciva a pensare ad altro che non fosse quell’enorme macchia scura che
aveva cambiato odore e colore ad un terzo del suo corpo. La fitta di emicrania
giunse puntuale e inesorabile a trafiggergli la testa, come una freccia scoccata
da chissà dove. E l’uomo decise di andare.
S’infilò rapidamente le scarpe e con la stessa rapidità infilò qualche parola
di congedo per la signora. Prese la giacca e dal portafogli tirò fuori un paio di
banconote che lasciò nella parte asciutta del tavolino. Quindi raggiunse l’uscita
incrociando il padrone del bar che stava tornando armato di straccio e buone
intenzioni. Lo salutò con un paio di frasi mozzate, senza fermarsi.
Appena fu fuori si allacciò due bottoni della camicia ed indossò la giacca,
decise di preferire il rischio di sporcare anche quella piuttosto che andare in
giro in quel modo. Senza contare che c’era sempre la possibilità di incontrare
qualche fotografo nel tratto di strada dal bar a casa sua, per breve che fosse.
Un’altra fitta gli investì la testa, come per incalzarlo a sbrigarsi. Iniziò a
camminare a passi svelti con lo sguardo accigliato e basso e la mascella serrata.
Cercò di evitare i posti che sapeva più frequentati e lo sguardo delle persone.
Di tanto in tanto buttava un’occhiata sul lato sinistro dei pantaloni, quasi
sperando, ogni volta, di trovarli con un danno meno esteso o meno visibile.
L’odore soprattutto non riusciva ad ignorare.
Le poche centinaia di metri che separavano il Bar Barians dal portone del
suo palazzo gli sembrarono infinite, una traversata in mare aperto. Appena fu
dentro l’androne mischiò al fiatone un respiro liberatorio. Nello specchio
dell’ascensore si esaminò con cura per sette piani e scoprì che la tensione che
aveva addosso era ancora molto vasta, almeno quanto la gigantesca chiazza di
aperitivo.
In casa si diresse direttamente in bagno e prima ancora di spogliarsi dei
vestiti aggredì l’anta dell’armadietto dei farmaci sopra il lavabo grande, deciso
a stroncare il mal di testa sul nascere. Afferrò le confezioni nervosamente,
facendo cadere nel lavandino intere scatole, blister e singoli flaconi.
Continuava a cercare alla rinfusa, mentre ogni sorta di medicinale rotolava
rumorosamente sulla porcellana rosa.
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Tre secondi
L’uomo ha quarant’anni e cammina con le mani in tasca lungo la discesa.
Ha la carnagione chiara e l’espressione distesa.
Sono appena passate le quattro del pomeriggio e sul quartiere c’è un cielo
azzurro senza nuvole con un sole in un angolo. Avere la faccia al sole è una
cosa che l’uomo sa apprezzare, come tutti quelli che hanno preso tanta acqua.
Nella sua camminata non c’è traccia di fretta, all’incrocio prima della
discesa si è addirittura concesso il lusso di fermarsi al rosso pedonale anche
se non passava nessuno. L’ha fatto di proposito, per dimostrare a se stesso di
saperlo fare.
Cammina con la camicia che gli svolazza ai lati del corpo aperta su una
maglietta metal. Pure i capelli neri e mossi si muovono col vento, ma la loro è
una danza malinconica.
Lentamente passa gli uffici della circoscrizione, la scuola e i campi da
gioco che sono di fronte dall’altra parte della strada, passa il bar che continua
a cambiare gestione, la piscina comunale e il meccanico. Taglia a destra per
evitare di girare all’angolo e imbocca dentro il benzinaio, lasciandosi alle
spalle sole e discesa. Sfila di fianco ad una macchina ferma al distributore e
ai cartelloni sbiaditi che dicono con aggettivi sbiaditi di premi a punti e
viaggi in palio, poi esce dal benzinaio.
Appena è sul vialone guarda le cime degli alberi, gli alberi che nella loro
lunghezza sono ancora in bilico tra inverno e primavera. La sua allergia non
si è ancora fatta viva, ha ancora due occhi, un naso e una gola normali. E
nessun rapporto d’amore con gli antistaminici.
Mentre osserva la prospettiva verde degli alberi pensa a chi può trovare
da Franco e Manuel, e poi se lo riconosceranno subito. Pensa agli oltre
quattro anni che sono passati dall’ultima volta che c’è stato, anni passati
come il rumore d’una moto dietro una serranda abbassata.
Franco e Manuel, due nomi perfetti per due barbieri.
Ora che manca qualche centinaio di metri non è più così sicuro come lo
era stato la mattina. Si guarda di sfuggita a una vetrina e subito si riconvince
che ha bisogno di tagliarsi i capelli.
Supera lo strano monumento al magistrato assassinato e poi il chiosco del
fioraio, il negozio d’elettrodomestici e l’asilo con il suo buco rettangolare di
giardino. Alza gli occhi all’orologio sopra il cartellone pubblicitario, che
segna sempre le nove meno venti e azzecca l’ora due volte al giorno. Fa un
sospiro, lungo. E’ un uomo alto e magro e le mani che tiene in tasca sono
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mani da lavoratore, ma negli occhi e nell’espressione del viso si intravedono i
mattoni dei labirinti costruiti al posto delle strade.
Il negozio di animali, prima del barbiere, è sospeso tra la definizione di
pieno e di vuoto in base al punto di vista filosofico. Poi finalmente arriva la
vetrina sotto la nuova insegna nera ‘De Blasco barbieri’ e il cilindro rosso,
bianco e blu che ruota sempre diverso e sempre uguale a se stesso.
Si ferma un momento fuori, prima di entrare, come se prendesse un
respiro.
Dentro ci sono Franco e il figlio Manuel nei loro camici bianchi e altre
due persone, una seduta sul divanetto nero che legge il giornale e l’altra sulla
sedia da barbiere a sinistra.
Manuel va verso una porticina bianca sulla destra e non lo vede entrare.
Franco alza gli occhi allo specchio e lo vede subito, e subito dopo lo
riconosce. Il pensiero del latte non sopravvive a quell’ingresso.
Si ferma abbassando le braccia e si gira.
Cisco. Mamma mia che apparizione
,
Ciao Fra’
,
Porca quanto tempo. Ma da quand’è che non venivi?
,
Eh da un po’
, sorride Cisco, un bel po’
.
L’uomo passa le forbici dalla mano destra alla mano sinistra e gli si fa
incontro per stringergli la mano.
Ma come stai?
, gli chiede Franco in piedi di fronte a lui.
Io bene, tutt’a posto. Voi? Tutto bene te e Manuel?
,
Tutto regolare
, risponde l’uomo. Manuel sta giù, mo te lo chiamo
.
Posa le forbici sul ripiano sotto le specchio e passando mette una mano
sulla spalla del ragazzo che si sta facendo fare i capelli. Poi va verso la porta
bianca e se la accosta alle spalle.
Nella stanza rimangono un signore seduto su un divano che sfoglia un
quotidiano, un ragazzo seduto davanti allo specchio che volta la testa prima
da un lato e poi dall’altro e un uomo con le mani in tasca in piedi. Tra il
divano, lo specchio, la porta a vetro dell’uscita.
Dietro l’altra porta Franco fa quattro dei dodici gradini della scala che
porta al sottonegozio. E poi parla giù, al figlio che non vede, cercando di
usare una voce intermedia.
Manuel, oh, Manuel
,
Che c’è?
, si sente da sotto in un tono infastidito. ‘Sto facendo una
pausa’, dice quel tono, ‘sono appena sceso, lasciami stare. Non mi interessa
niente, adesso’.
Indovina chi c’è sopra?
,
Eh, chi c’è?
, domanda da sotto la voce senza interesse, con lo stesso
tono di prima.
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C’è il farina
, dice il padre un po’ più piano, sorridendo tra sé.
…
Il farina?
, fa Manuel dopo una pausa. Ora la sorpresa ha gonfiato
l’interesse.
E’ lui lui, proprio lui
, sempre sorridendo.
E come sta?
, chiede il figlio dalla stanza vuota, alla sua prima vera
domanda. Spegne la sigaretta nel posacenere, sul tavolo coperto dai giornali.
Sembra bene. Sali, però, dai
,
Franco risale i quattro scalini e rientra in negozio.
Cisco è ancora fermo al centro della stanza.
Manuel arriva subito
, gli dice.
E si rimette a lavorare sul ragazzo.
Sei venuto per i capelli, Ci’?
, chiede Franco a Cisco mentre lo guarda
sedersi sul divano da sopra i suoi piccoli occhialetti rettangolari.
Eh sì, guarda che roba tiè
, risponde l’uomo indicandosi la testa con la
mano, c’era bisogno del migliore sulla piazza
.
Il barbiere annuisce, E mo te li facciamo
. Prende una pausa, e poi non
guardando aggiunge, Ma che fine avevi fatto?
.
Ma niente Fra’, un po’ di giri
.
Dalla porta del retrobottega entra Manuel. E’ un ragazzo un po’ oltre la
trentina con i capelli ricci, gli occhi chiari, di media statura. Porta anche lui,
come il padre, il camice bianco coi bottoni giallo-nero-giallo e la scritta De
Blasco sul taschino.
Si avvicina al divano.
Cisco. Porcaccia miseria, ma da quant’è che non venivi?
, dice all’uomo
stringendogli la mano e poggiandogli la mano sulla spalla.
Eh un po’, un po’. Ma tu come stai? Pare bene no?
, dice Francesco
detto Cisco rimettendosi a sedere.
Sì sì, tutto bene. Ma pure tu stai in forma no, o sbaglio?
, fa Manuel e lo
guarda. Pure gli altri tre gli rivolgono lo sguardo, come si fossero dati un
appuntamento sulla sua faccia.
No no, bene bene. Tutto bene
, dice lui in un tono convincente,
accavallando a squadra le gambe. E tutti gli occhi rotolano via.
Ce la faccio per le cinque, Fra’?
, chiede poi, come volesse giocare
d’anticipo.
Sìììì, anche prima
,
Sì sì, prima prima
, conferma Manuel che ora è poggiato sul ripiano
grigio scuro tra i due lavabi, con le spalle allo specchio e le braccia conserte.
’Sto ragazzo ha quasi finito, eppoi tocca a te
, dice Franco. Lo guarda da
sopra gli occhiali con la solita espressione corrucciata.
E il signore?
, chiede Cisco indicando l’uomo al suo fianco sul divano,
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E’ morto in croce
, fa Franco sorridendo.
L’uomo volta una pagina di giornale. "No, io non sto qua per i capelli, sto
qua per la compagnia", gli dice guardandolo anche lui da sopra gli occhiali,
anche lui sorridendo.
Ah ok, grazie
.
Anche quando la frequentava lui, fino a qualche anno prima, la bottega
era sempre piena di persone che andavano lì per passare il tempo. Gli
‘aficionados’ li chiamava Franco. Tutti i giorni a chiacchierare di calcio,
politica, donne, soldi, cronaca, caccia, scommesse, varie ed eventuali. Tutti i
giorni a far andare il proprio personaggio, a fare la propria parte in quel
piccolo palcoscenico di fronte allo specchio.
Anzi, se vuoi ti fa Manuel
, gli dice Franco riportandolo sul divanetto.
No no, non c’ho fretta aspetto, non c’è problema
.
Franco posa le forbici sul ripiano e prende la macchinetta. Poi si strofina
velocemente l’altra mano sul grembiule e tocca lo schermo sottile che è
poggiato inclinato sopra il piano, dando un’altra rapida occhiata all’immagine
del modello di taglio che si è portato il ragazzo.
Accende la macchinetta e se ne sente il rumore, come d’una grossa vespa
chiusa dentro una bottiglia di plastica. La usa ai lati della testa del ragazzo
fino ad una certa altezza, lavorando con attenzione.
L’uomo che è di fianco a Cisco, sul divanetto di pelle nera, scavalla le
gambe e guarda il suo amico barbiere attraverso lo specchio, "Le lettere ai
giornali io l’adoro guarda. Senti che titoli eh, senti qua che roba". Avvicina il
giornale agli occhi. "Allora: ‘Aboliamo il parlamento’; ‘Stop ai corpi’; ‘Gli
scioperi penalizzano’; ‘Tutti spioni’; "Europa arrogante’; ‘In marcia con
fido’. No dico, senti che roba. Bastano i titoli".
Franco sorride e anche Cisco.
Com’è quella tutti spioni, com’è quella?
, chiede Franco e guarda lo
specchio in cui ha visto il mondo scorrere al contrario,
Si, tutti spioni
, conferma l’uomo.
"C’hanno ragione, qua bisogna sta’ attenti. Che questi sentono tutto, vero
Ci’?".
Cisco sorride e annuisce.
Quindi tira fuori il cellulare dalla tasca e ci si mette a giocare. E mentre
prova a trasformare le fragole in ciliegie pensa che non sia andata poi così
male. Si da’ un’occhiata intorno e poi torna a guardare lo schermo, i colori
che cambiano.
Franco dice qualcosa a Manuel e poi prende le forbici per dare gli ultimi
ritocchi.
Ci siamo quasi eh
, dice al ragazzo.
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Gli spazzola la faccia e il collo, poi gli toglie la mantella e l’asciugamani
dalle spalle, li sgrulla a terra e glieli rimette. Quindi spazza il pavimento per
togliere i capelli, nel solito lento con la scopa. Prende dal tavolo il pennello
da barba, lo bagna con l’acqua calda del rubinetto e lo passa sotto le basette e
dietro il collo del ragazzo per preparare la strada alla lama.
Fermo così
, gli dice tenendogli la testa. Nel tradizionale momento di
tensione in cui non succede niente.
Manuel prende il cellulare e lo scorre un po’ con le sue mani piccole e
curate. Cisco lo guarda e pensa, poi torna a giocare.
"A Fra’, l’hai sentita la storia di quello che ha lasciato la moglie in
autogrill in viaggio di nozze?", dice il signore sul divano che se l’è appena
ricordata.
Ma dai
, dice Franco,
"Te lo giuro, l’ho letta sul giornale qualche giorno fa. Praticamente sto
tizio, negli Stati Uniti, stavano in viaggio di nozze, hanno fatto una sosta
all’autogrill eppoi lui è ripartito da solo, senza la moglie. E se n’è accorto
dopo non so quanti chilometri",
Ma è incredibile dai, ma sarà falsa su, eh
, fa Franco,
Oh, così c’era scritto. Dice che pensava che dormiva sul sedile dietro
.
Sorridono tutti.
L’avrà fatto apposta
, interviene Cisco,
Avrà capito la cazzata
, dice il ragazzo.