Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il mistero di Via dei Mercanti
Il mistero di Via dei Mercanti
Il mistero di Via dei Mercanti
E-book494 pagine7 ore

Il mistero di Via dei Mercanti

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tra gli scorci delle strade e dei palazzi antichi del Centro Storico di Salerno, un duplice ed efferato delitto sconvolge la vita tranquilla della città. Le attività investigative conducono alle vite dei protagonisti scoprendo vecchie e oscure vicende che contribuiscono ad infittire il mistero dell'intricata vicenda. Un colpo di scena porta alla scoperta della verità, ma “Il mistero di Via dei Mercanti” è un noir metropolitano caratterizzato da una narrazione forte ed incisiva, che accompagna il lettore nella ricerca della risoluzione del caso attraverso dei protagonisti che non esistono solo per il nome o per un dettaglio distintivo, ma grazie alla fantasia di Francesco Napoli e Marco Ferraiolo, diventano alla fine personaggi “dipinti”. La realtà perde debolezza e invade la pagina, rappresentando attraverso il filtro della memoria, la città e la società civile attuale in chiave sociologica. Emozioni, eventi inaspettati, stimoli frequenti, effetti a sorpresa ed elementi romantici sono gli ingredienti di una narrazione in cui nulla è scontato. Così ogni personaggio, dai principali ai minori, conserva la propria vita nell’atmosfera del romanzo, diventando a sua volta memoria della Salerno che è incisa nell’anima degli autori. Clotilde Baccari
LinguaItaliano
Data di uscita24 gen 2017
ISBN9788899906313
Il mistero di Via dei Mercanti

Correlato a Il mistero di Via dei Mercanti

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il mistero di Via dei Mercanti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il mistero di Via dei Mercanti - Francesco Napoli

    Edizioni

    Prefazione

    Nel romanzo a quattro mani, Il mistero di Via dei Mercanti, almeno fino al diciassettesimo capitolo il mistero non affiora; anzi, i due autori, Francesco Napoli e Marco Ferraiolo, forniscono informazioni ampie e circostanziate sui personaggi principali e le proprie storie private. Mentre gli inquirenti, infatti, cercano di acquisire su di loro nuove rivelazioni, i lettori ne conoscono già molti dati identificativi, tali da non lasciare ombra di dubbi, dal momento che la narrazione si svolge chiara e lineare, assecondata dalla fluidità della scrittura, interrotta solo dall’alternanza dei piani diegetici, dovuta alla simultaneità di alcune azioni.

    La storia, all’interno del romanzo, con flashback puntati sugli anni Sessanta-Settanta del Novecento, è tutta calata nell’odierno contesto sociale, negli ultimi sviluppi della cronaca cittadina, con un arco temporale di pochi mesi (inizio agosto-fine ottobre 2015), che racchiude il ritmo incalzante degli episodi. Non solo il tempo presente, ma anche la Salerno attuale con le sue strade, le sue piazze, il suo centro storico, il suo mare. Pur con qualche puntata in altri luoghi, si ritorna alla città, come a un centro non solo geografico ma anche ideale, donde si dipana la trama degli eventi, e al suo vero asse motore, Via dei Mercanti, il cui mistero non affiora subito, ma irrompe, a sorpresa. Da quel momento, ci saranno altri accadimenti e il racconto acquista la tinta inconfondibile del noir.

    Il romanzo, oltre a seguire l’avvincente percorso di una detective story, dove il ritmo narrativo è retto dalla concatenazione o dall’intreccio a suspense delle vicende, contiene anche ampie soste, momenti di pausa, che lasciano spazio alla riflessione, alla lettura dialettica dei fatti raccontati, al tentativo di sciogliere nodi problematici complicati e ambigui. I temi e i motivi di natura squisitamente sociale, affrontati dagli autori, approfondiscono argomenti di bruciante attualità: il complesso rapporto madre-figlio; l’assistenza agli anziani delle badanti straniere, che finiscono per diventarne le mogli e assicurarsi una definitiva sistemazione esistenziale; le spregiudicate e illecite operazioni commerciali e finanziarie di alcune multinazionali, spesso legate alla mafia internazionale; i risvolti più preoccupanti della malavita locale, soprattutto per la sua capacità di infiltrarsi nel tessuto sano della comunità cittadina.

    Gli autori tuttavia si limitano a raccontare, non intervengono moralisticamente dall’esterno nella dinamica dei fatti, anche quando con sensibilità introspettiva scavano nelle pieghe intime della psicologia dei personaggi, lasciando ai lettori ampi margini di riflessione, di discussione, di confronto delle idee, che conferiscono al romanzo un’indubbia struttura di opera aperta, dove la fine non è che un nuovo inizio, dove tutto è accaduto, ma può ancora accadere. In tal senso, Il mistero di Via dei Mercanti è contestualmente una storia complessa di invenzione e di riflessione e soprattutto un noir a calibrata struttura enigmatica, collocandosi in maniera singolare nella lunga serie di questo genere letterario di attuale successo.

    Alberto Granese

    Università degli Studi di Salerno

    Capitolo 1

    Seduto alla scrivania del grande studio, il dottore Andrea Nardone osservava con aria disincantata il voluminoso carteggio che aveva preso dal cassetto centrale. A quell’ora del mattino, la luce filtrava con insistenza dalle vetrate dell’ampio balcone che affacciava sul terrazzo del suo appartamento. Una serie di rigogliosi gerani di vari colori, alternati meticolosamente tra loro, ingentiliva la vista sui vecchi tetti rossi dei palazzi circostanti e sul campanile della Chiesa del Crocifisso, che s’intravedeva in lontananza.

    Era la luce ideale per consultare con attenzione i documenti che gli destavano tanto interesse e che ormai erano diventati quasi la sua ossessione, la forza di continuare a vivere.

    Con mano tremante aprì la disordinata cartella, girò un foglio, un altro e poi un altro ancora. Tralasciò le lastre delle radiografie e fermò la sua attenzione sulla relazione. Anche se oramai conosceva il testo a memoria, iniziò ugualmente a scorrere le prime righe.

    Mentre inseguiva le parole sul foglio con un labiale impercettibile, le mani di una giovane donna sporsero dalla spalliera della poltroncina e si posarono sulle sue spalle con delicatezza.

    L’uomo si tolse gli occhiali e li poggiò sul foglio davanti a sé. Poi reclinò leggermente la testa all’indietro e socchiuse gli occhi. Appoggiò la mano punteggiata da piccole macchie marroncino, dovute all’età, su quella ben curata della donna e disse sottovoce – È già l’ora dell’iniezione?

    – Sì, sono le nove in punto – rispose una voce gentile ma decisa alle sue spalle. – È la solita punturina che ti fa bene e ti da tanto sollievo. Su, giusto il tempo di farla e poi ti rimetti di nuovo al lavoro.

    – Sei una bugiarda Irina, una dolce e tenera menzognera – rispose con poca voce abbozzando un mezzo sorriso. – Lo sai che dopo mi appisolerò come un cretino – soggiunse con un mezzo sorriso – ma come potrei fare senza di te? – continuò a parlare accarezzando la mano sulla spalla.

    – Forza Dottore, devi darmi solo il braccio. Al resto penserò tutto io, come sempre – aggiunse la donna con la familiarità che si era instaurata tra loro e che la autorizzava a chiamarlo Dottore o il mio Dottore quando il discorso scivolava su un tono confidenziale.

    – Va bene, ma ti ricordi da che lato la dobbiamo fare?

    – Certo, stai tranquillo. Mi ricordo tutto. Ora ti tiro dalla scrivania e ti porto in camera. Il medico ha detto che è meglio farla disteso sul letto. Ti ricordi? – aggiunse sottovoce avvicinando le sue labbra all’orecchio dell’uomo.

    – Già, questi medici la sanno lunga. Ti trovano sempre un qualcosa per farti sentire al centro dei loro pensieri. Come se non sapessi come sono fatti e come funziona! – rispose leggermente stizzito. – Se penso che ho fatto anch’io la stessa cosa per tanti anni… va bene, allora facciamo come ha detto il collega. Andiamo. Anche se penso di farcela ancora a camminare, è meglio che mi accompagni tu.

    Irina, dopo una carezza discreta sulle spalle dell’uomo, leggera ma decisa per fargli sentire la sua presenza affettuosa, spostò le mani sulle maniglie della sedia a rotelle e, con un’abile manovra, iniziò a spingerla lentamente verso la porta della stanza.

    Poco dopo, l’uomo era disteso sul letto. I capelli bianchi risaltavano sulla fantasia damascata marrone del cuscino, che ben s’intonava con la tinta noce degli arredi, scuriti un po’ dal tempo. In capo al letto dominava una formella di cotto con l’effige della Madonna col Bambino, opera dei ceramisti di Deruta, sullo stile del Perugino, che aveva acquistato in occasione di un congresso in terra umbra e sulla quale negli ultimi tempi soffermava spesso il suo sguardo, quasi a voler trovare la comprensione per le sue sofferenze.

    – Dottore, dopo ti faccio anche la barba. È quasi una settimana che non riesco a raderti. Ti voglio vedere bello! – continuò la giovane sorridendogli con un tono più risoluto.

    Mentre l’uomo rifletteva che quella ragazza venuta dall’est parlava ormai molto bene l’italiano e che il leggero accento straniero la rendeva particolarmente sensuale, lei aggiunse – Su, ora chiudi gli occhi e non pensare a nulla.

    – Aspetta un momento. Prima fammi un favore. Metti nello stereo il cd dei Pink Floyd, quello col prisma. Ti prego, fallo partire dalla traccia numero sei. È la parte che preferisco, quella che mi ha fatto sempre sognare.

    Irina si diresse all’altro capo della stanza, in direzione dello stereo poggiato sull’étagere veneta dell’800 posta sulla parete, di fronte al grande armadio in mogano scuro a cinque battenti che risaltava sulle pareti color giallo chiaro.

    Era proprio una bella donna, una sana bellezza naturale dell’est, non artefatta da trucchi pesanti o dalla mano di qualche avventato chirurgo plastico. Una figura esile e proporzionata, non più giovanissima ma leggera ed elegante nei movimenti, che dimostrava diversi anni in meno rispetto all’anagrafe. Occhi tra l’azzurro e il verde, capelli lisci castano chiaro tendente al cenere, tenuti fermi da un sottile cerchietto dorato e un sorriso dolce che non l’abbandonava mai. Indossava un camice bianco, alto un dito sopra il ginocchio con l’ultimo bottone aperto che faceva intravedere parecchi centimetri di belle cosce affusolate. L’abbottonatura bassa lasciava intravedere un attraente décolté. Sotto la veste, il segno tenue di una biancheria intima molto leggera, quasi trasparente per meglio sopportare l’aria attaccaticcia dell’inizio settimana del ferragosto, rimarcava la ricercatezza che usava nel vestire.

    Il Dottore aveva un debole inconfessato per lei, anzi le piaceva moltissimo. Più volte aveva pensato di provare a confessarle la passione e il desiderio che nutriva nei suoi confronti, ma aveva sempre desistito, pensando che sarebbe stato deriso per la sua età e le deboli condizioni fisiche.

    – Allora oggi vuoi cambiare! – esclamò mentre infilava il dischetto nella fessura dello stereo. – È un buon segno sai? Come mai non hai chiesto Battisti o Dalla?

    – Voglio solo variare, come facevo prima che mi ammalassi – rispose il Dottore mentre due colpi di tosse profonda lo scuotevano – come ho sempre fatto in tutta la mia vita. Già e cosa ne puoi sapere tu della mia vita, quando avevo ogni cosa che desiderassi e tutti mi cercavano. Non ero per nulla il vecchio che vedi ora. Non ero per niente male, sai? Se mi avessi conosciuto dieci o quindici anni fa, mi avresti fatto il filo anche tu mia cara – continuò con un tono scherzoso, una intonazione che ultimamente usava sempre più di rado.

    – Dottore, ma che dici? – rispose Irina con un sorriso astuto. – Su, ora fai il bravo e rilassati. Ascolta la musica e chiudi gli occhi.

    Mentre le prime note di "Us and Them" a volume basso inondavano dolcemente la camera, la donna prese la siringa ed il laccio emostatico dal secondo cassetto del comò. Rintracciati due scatolini di medicine tra i tanti farmaci ben allineati sul marmo bianco con venature grigie e marrone, si avvicinò al letto dove era disteso il Dottore.

    Fatta l’endovena, poggiò delicatamente la mano su quella dell’uomo dai capelli bianchi e gli sorrise ancora, guardandolo negli occhi, come per dirgli che era andato tutto bene.

    L’anziano sollevò per un istante le palpebre e sussurrò – Irina, quando mi sveglierò, saprai se nel mio sogno ti trovavi nella spider, il mio Duetto Alfa Romeo rosso, che correva verso la Buca di Bacco di Positano – continuò accennando un mezzo sospiro.

    – Dottore, cos’è la Buca di Bacco? – gli chiese sorridente.

    – Era un albergo che stava sulla spiaggia di Positano. Di giorno era anche un ristorante e la sera si trasformava in una discoteca a cielo aperto con un bar fornitissimo. Non puoi immaginare quanto fosse bello uscire dal locale, con un cocktail in una mano e nell’altra le dita intrecciate di una bella donna, e camminare sulla spiaggia lentamente, sin quando ti sedevi in un posto appartato, uno accanto all’altra, a vedere il riflesso meraviglioso della luna sul mare di un blu profondo e le migliaia di stelle sparse nel cielo, che ora non si mostrano più. Funzionava sempre, sai? – aggiunse con un sorriso compiaciuto. – Dopo pochi minuti ti ritrovavi sdraiato sulla spiaggia tra le braccia della donna che non aspettava altro, se non di essere baciata e stringersi a te. Quando sarò guarito, ti prometto che andremo a Positano e passeremo una serata meravigliosa… – concluse con un tono tra il sarcastico e il rassegnato, il tono di chi esprime un desiderio che sa non poter mai realizzare.

    – Dottore, allora sei stato cattivello da giovane! – lo interruppe maliziosamente Irina.

    – Cattivello è dire poco! Non puoi immaginare che bell’uomo ero e quante donne collezionavo nel periodo estivo, una più bella dell’altra – rispose con aria soddisfatta. – Mi ricordo di una volta al night L’Africana, dove ero andato da solo in cerca di un’avventura galante. Conobbi una giovane e piacente americana con dei capelli biondi alla Brigitte Bardot ed un corpo alla Ursula Andress. Appena mi vide, iniziò a divorarmi con gli occhi in un modo così indecente nonostante i vestiti che indossavo, quasi da farmi sentire nudo e …

    – Dottore, mi sei molto simpatico quando racconti queste storie. Capisco cosa vuoi dire, ma tutti questi nomi mi portano fuori strada. L’Africana non so cosa sia. E poi Brigitte Bardot e Ursula Andress non mi dicono nulla. Chi sono? – aggiunse Irina sorridendo e alzando leggermente le spalle in segno quasi di scusa.

    – Hai ragione, forse a quell’epoca non eri neanche nata.

    – Dai, non esagerare. Lo sai che ho trentaquattro anni.

    – Appunto, non eri nata. Lo so. E so anche che hai la metà dei miei anni e che sei bella, tanto bella. Ho gli occhi ancora buoni per riconoscere le belle donne, che credi? Chissà, forse se ti avessi incontrato in quegli anni, può darsi che mi avresti fatto perdere la testa. Una serata all’Africana con te sarebbe stato un sogno da vivere ad occhi aperti – aggiunse mentre due colpi di tosse gli strozzavano le parole in gola. – Mi piace parlare con te del mio passato, perché mostri interesse alla mia vita di un tempo – continuò appena si riprese – senza mostrarmi quella pietas che ha chi conosce la mia malattia e fa finta di dispiacersi nel vedermi arrivato alla fine dei miei giorni.

    – Dottore, smettila! Non voglio sentirti parlare così! – reagì Irina come se stesse rimproverando un bambino. – Vedrai, tra un po’ ti sentirai meglio e inizierai a camminare di nuovo – continuò riprendendo il tono dolce di sempre – e mi racconterai le tue belle storie, mentre cammino sottobraccio a te tra i viali del Lungomare. E poi, quando starai proprio bene, mi porterai anche all’Africana, così mi farai conoscere questo posto così bello!

    – Sei dolce Irina. Forse sei la donna più dolce che abbia mai conosciuto negli ultimi vent’anni. Spero solo che non ti dimenticherai presto di me, una volta che sarò passato a miglior vita.

    – Quando fai questi pensieri, non mi piaci più, ecco! Ora cerca di rilassarti e resta in silenzio. Anzi, quando ti sveglierai, mi racconterai per filo e per segno il sogno che hai fatto e se veramente stavo vicino a te nella tua bella macchina rossa che correva verso Positano. Ora però riposati.

    – Va bene, ti ubbidisco anche questa volta. Non posso fare altrimenti, ma sappi che ho già pensato a te. In questi sei mesi che mi sei stata vicino, sei stata per me come una persona di famiglia, anche se una vera famiglia non sono stato mai capace di averla.

    – Ti ringrazio – rispose Irina con un mezzo sorriso di soddisfazione, approfittando che il Dottore stava con gli occhi chiusi. – È proprio come dici. Tu sei la mia famiglia di Salerno. Ora riposati, così avrò il tempo di cucinarti un paio di cosettine saporite e leggere che il medico mi ha detto di prepararti.

    Si diresse verso il balcone e sbirciò tra i vetri la vista sui tetti. Per lei era tutto molto bello, sia dentro che fuori casa, dove ormai viveva con il suo Dottore. Le piacevano i mobili antichi, i quadri di valore appesi alle pareti, la grande cucina attrezzata con ogni comodità, il calore che sentiva all’interno delle grandi stanze, il quartiere e la veduta sui tetti intorno, uno vicino all’altro e tutti diversi tra loro.

    Socchiuse gli scuri, non più di un centimetro dal vetro, in modo che una dolce penombra si impadronisse dell’ambiente.

    Subito dopo, in punta di piedi, facendo attenzione a non fare rumore, si diresse verso la porta della stanza, soffermandosi solo un attimo per una dolce carezza sulla fronte del Dottore che oramai era assopito.

    Prima di attraversare l’uscio, diede un ultimo sguardo all’interno. Verificò che fosse tutto in ordine e che l’uomo riposasse tranquillo. Tirò a sé la spessa anta della porta smaltata di bianco, lasciandola leggermente socchiusa.

    Con passi leggeri si diresse verso la cucina e iniziò a pelare le carote appena prese dal frigorifero.

    Sopraggiunse Concetta, la domestica che aveva il compito di tenere la casa in ordine, una donna del popolo che abitava in un vicolo di Via dei Mercanti. Moglie di un paziente che il Dottore aveva strappato alla morte e che aveva curato in seguito con molta dedizione senza chiedere parcelle, per un senso di profonda gratitudine si era offerta di andare a servizio nella casa del medico per qualche ora settimanale senza pretendere nessuno stipendio. «O vieni ogni giorno per mandare avanti la mia casa pagandoti regolarmente il lavoro o non se ne fa nulla» fu la risposta educata nei modi, ma brusca nella soluzione, che ascoltò con meraviglia da Nardone. Costretta dalle circostanze accettò, cercando di sdebitarsi con ore straordinarie che non portava a nota. Dopo tanti anni che frequentava con devozione casa Nardone, aveva conquistato la fiducia dello specialista, sino a diventare una persona ultra fidata, una di famiglia.

    – Irì che fa o Dottore, s’è addormuto? – chiese sottovoce avvicinandosi.

    – Sì, ha appena chiuso gli occhi. Povero diavolo, quando gli faccio l’iniezione mi fa una pena che non ti dico. Lo vedo così fragile – rispose la giovane con lo stesso tono di voce.

    – Lo so che ‘o vuò bene! – rispose Concetta, chiamata a volte dal Dottore Concettissima per il suo fisico giunonico – però ricordati… nun glie fa capì che ti fa pena. Faresti peggio, ‘e capit?

    – Sì, lo so. Stai tranquilla. L’ho detto solo a te.

    – E nun t’nnammurà, non ti innamorare, chill è viecch e malandato – aggiunse Concetta gesticolando con la mano nella sua direzione. – Per te ci vuole nu guaglion giovan e fort! Uno che sa apprezzare na femmena comme a te, cu tutta ’sta grazia e Dio ca tiene ncuoll! – disse facendo un gesto ampio verso di lei con la mano dall’alto verso il basso. – Irì, Mi raccomando nun fa a scema! – aggiunse tamburellando più volte il dito indice sulla tempia.

    – Me l’hai già detto, non dirmi sempre le stesse cose! – riprese l’ucraina spazientita. – Piuttosto hai finito di rassettare nello studio?

    – Sì, ho già fatto tutto. Sta asciuttando ‘n terra. E tu che stai preparando? Che si mangia oggi?

    – Per primo risotto con le lenticchie e per secondo, al Dottore patate e carote lesse e a noi un gattò di patate, in modo da avere anche la cena per me stasera.

    – Buono! Allora, mo’ pass a stanz appriess! – concluse Concetta dirigendosi verso la porta che dava sul corridoio.

    Rimasta sola, Irina iniziò a cucinare canticchiando sottovoce Balla Balla Ballerina di Lucio Dalla, la canzone che tanto piaceva al suo Dottore.

    Capitolo 2

    Prima che si ammalasse gravemente di tumore ai polmoni, il dottore Nardone era l’esempio vivente dell’uomo che si era fatto da solo partendo dal nulla.

    Originario di un paesino arroccato su una montagna del Cilento, verso la fine del 1954 aveva seguito la famiglia che si era trasferita in città, subito dopo l’alluvione che aveva devastato Salerno, Cava de’ Tirreni e diversi paesi della Costiera Amalfitana, con centinaia di morti e migliaia di senzatetto.

    Il padre era un bravo muratore e nelle zone disastrate occorrevano braccia per sistemare i profondi segni lasciati dalla forza devastatrice dell’acqua. Non si contavano più frane, strade distrutte, ferrovia interrotta in diversi punti, case spazzate via e ponti crollati. Fu un’alluvione così violenta, che a Vietri si formò l’attuale spiaggia a seguito dei detriti trasportati dai torrenti vicini.

    Come accade sempre in queste disgrazie, una volta contati i morti e i feriti, quando le lacrime lasciano il posto alla voglia di continuare a vivere, occorreva rimboccarsi le maniche ed iniziare a ricostruire quanto non c’era più. Vi era così tanto da fare, che le imprese locali non potevano soddisfare tutte le richieste di lavoro. Così, molti operai iniziarono ad affluire dalla provincia nelle aree alluvionate. Servivano braccia e Salvatore Nardone accorse subito, con la speranza di trovare un’occupazione stabile per tutto l’anno. Con lui arrivarono a Salerno la moglie Anna e il piccolo Andrea.

    Andrea era l’unico figlio di Anna e Salvatore Nardone, una coppia non più giovane. Il piccolo all’epoca aveva poco più di otto anni. Era un bambino sveglio, con una grande sete di conoscenza e tanta voglia di fare bene. La famiglia Nardone trovò alloggio in una vecchia palazzina di Calata San Vito, quasi a Fratte. Il piccolo Andrea a Salerno si trovò subito a suo agio e s’inserì nell’ambiente cittadino senza difficoltà. A scuola era sempre il primo della classe. Le maestre, e in seguito i professori, erano entusiaste della sua intelligenza, anche se a volte andavano in difficoltà per le continue domande sensate che faceva. Il bambino era molto studioso, divorava i libri con interesse e anticipava sempre gli argomenti rispetto al programma stabilito.

    Terminata la scuola media inferiore approdò al Liceo Classico Torquato Tasso, contro il volere del padre, che riteneva più opportuno iscriverlo a una scuola professionale per conseguire un diploma finito, avviarlo subito al lavoro e farlo contribuire al magro bilancio familiare.

    Ma Andrea, caparbio, testardo e voglioso di emergere, dimostrò al padre che si sbagliava. Si diplomò con il massimo dei voti. Anche questa ennesima dimostrazione non fu sufficiente. Dovette lottare ancora con il padre, che iniziava a sentire il peso degli anni, per iscriversi alla Facoltà di Medicina a Napoli.

    Per Andrea e la sua famiglia, gli anni dell’Università furono difficili. Per la loro età, ormai avanti negli anni, il padre aveva dovuto rallentare l’attività e la madre, per contribuire al magro bilancio familiare, andava nelle case del vicinato a stirare; spesso portava a casa lavoretti di piccolo cucito che faceva la sera davanti ad una vecchia televisione. Il reddito familiare era appena sufficiente per pagare la retta universitaria, i costosissimi libri e l’abbonamento del treno, più economico degli autobus della SITA, che Andrea giornalmente usava per raggiungere l’Università, non potendo permettersi il fitto di una stanza, se pur modesta o condivisa.

    Andrea studiava giorno e notte. Anche se era un bel ragazzo, non aveva mai dato retta alle coetanee che gli gironzolavano intorno sin dai tempi del Liceo. Voleva migliorare la sua estrazione sociale che gli pesava come un macigno. Aveva fretta di terminare. Non poteva gravare ulteriormente sui due anziani genitori.

    Tutte le volte che era obbligato a frequentare i corsi universitari o doveva sostenere un esame, si svegliava di buon’ora per salire sul Diretto delle FF.SS. che lo avrebbe portato sino alla Stazione Centrale di Piazza Garibaldi. Poi proseguiva a piedi fino al vecchio Policlinico, la sua Facoltà, con una passeggiata di tre quarti d’ora attraverso le animate vie del Centro Storico di Napoli, il Rettifilo, Via Mezzocannone, Spaccanapoli e infine Via dei Tribunali.

    Il ragazzo percorreva quelle strade, sempre piene di varia umanità, in modo quasi automatico. Difficilmente si faceva distrarre da persone o situazioni sempre presenti in quei frangenti.

    Da provetto studente, era in regola con gli esami, superati quasi sempre con il massimo dei voti. La sua media era superiore al punteggio richiesto per ottenere la massima votazione. Aveva capito che solo lo studio avrebbe potuto dargli il futuro professionale che ambiva, insieme a una vita gratificata dalla tranquillità economica.

    All’ultimo anno si trovò in pieno periodo della contestazione del ’68.

    Una mattina verso le undici, dopo aver sostenuto l’ultimo esame del suo corso di laurea, si ritrovò sul percorso che dal Rettifilo lo portava a Piazza Garibaldi, dove avrebbe preso il treno per tornare a casa.

    Camminava a passo lento, visibilmente soddisfatto, quando all’improvviso s’imbatté in una manifestazione studentesca.

    In un folto e minaccioso corteo che avanzava verso di lui, contestando il sistema scolastico classista ed obsoleto, i pregiudizi della cultura ufficiale e dei professori, vide tanti ragazzi che chiedevano a gran voce il diritto allo studio per i giovani in condizioni economiche disagiate.

    Fu come un lampo a ciel sereno. Restò folgorato dagli slogan e, affascinato, si unì al corteo.

    Vediamo cosa succede… pensò.

    Alla fine, chi meglio di lui poteva testimoniare che il boom economico degli anni sessanta aveva giovato solo alla borghesia, senza un adeguato aumento del livello sociale ed economico delle classi meno abbienti? Chi poteva smentirgli i sacrifici che avevano fatto e continuavano a sostenere quotidianamente i suoi genitori per mantenerlo agli studi?

    Senza indugiare oltre, invertì il cammino e iniziò a percorrere lentamente il Rettifilo in direzione di Piazza Municipio, dove si sarebbe svolto il comizio di chiusura. A stento capiva le parole dei vari slogan, che cercava di ripetere alzando il pugno in segno di protesta insieme agli altri. Non sapeva cosa stesse facendo, cosa significasse il corteo, ma la cosa gli piaceva, anche se gli procurava un po’ di imbarazzo. Camminando al centro del folto gruppo, si ritrovò vicino ad una bella ragazza dai capelli ramati e ricci, raccolti dietro la nuca, che contestava urlando più forte degli altri.

    Bastarono un sorriso della giovane e qualche sguardo ricambiato per farlo innamorare perdutamente.

    Arrivati nello slargo antistante Palazzo San Giacomo, senza scambiarsi alcuna parola, si sistemarono sulla sinistra del grande palco ornato di bandiere rosse. Vari personaggi si alternarono al microfono, pronunciando discorsi che venivano interrotti di tanto in tanto da applausi e cori urlati dagli studenti.

    La ragazza dai capelli ramati partecipava intensamente. Applaudiva, urlava e alzava il pugno. Ogni tanto si volgeva verso il suo nuovo compagno per curiosare cosa stesse facendo. Per non essere da meno, Andrea emulava tutti i suoi gesti e le parole che gridava, anche se si sentiva completamente impacciato, ridicolo. La ragazza era compiaciuta. Annuiva con dei sorrisi prontamente ricambiati dal giovane. Nonostante i suoi sforzi, Andrea non capì una sola parola dei discorsi che cercavano di entrare nelle sue orecchie. Anche se fisicamente insieme a tanta gente, la sua mente e il suo cuore erano completamente altrove. Era in preda a un delirio d’amore, una sensazione nuova che non conosceva e che non sospettava potesse esistere.

    Verso le quattordici la manifestazione terminò e i due si ritrovarono su una panchina dei giardini a parlare ancora di politica. La ragazza era infervorata, visibilmente eccitata, dal successo della manifestazione appena conclusa. Iniziò a spiegargli che era arrivato il momento che gli operai si unissero alle proteste degli studenti e che gli studenti si unissero alle proteste degli operai. Bisognava lottare insieme per ottenere le rivendicazioni che non potevano essere ulteriormente rimandate. Era indispensabile essere uniti per ottenere l’aumento salariale uguale per tutti, la diminuzione dell’orario di lavoro, la pensione commisurata agli ultimi stipendi, la casa, il diritto alla salute, il diritto allo studio e i servizi efficienti.

    La ragazza parlò ininterrottamente quasi per un’ora, mentre Andrea ascoltava guardandola diritto negli occhi e tentando a volte di esprimere la sua opinione. Ma, appena iniziava a parlare, la sua voce veniva sopraffatta dalle parole della sua nuova amica, che si sovrapponevano alle sue. Non si lamentò, né tantomeno si dispiacque della situazione che stava vivendo, perché si rendeva conto che lui per primo non prestava attenzione a ciò che diceva. Guardava soltanto i bellissimi occhi chiari della ragazza, i riccioli rossi che scendevano sulla fronte, la fossetta che compariva sulla guancia destra quando sorrideva, le mani slanciate, il colore chiaro del suo viso dolcissimo e il corpo esile e ben formato.

    Mentre la giovane era intenta a spiegargli la natura contro-culturale e anticlassista del movimento spontaneo che si formava nelle piazze, Andrea l’attrasse a sé e la baciò. Lei non rimase sorpresa, se lo aspettava, e ricambiò prontamente il bacio con la stessa passione.

    D’improvviso Marx, Lenin e le lotte di classe svanirono e lasciarono il passo alle sensazioni forti. Solo dopo una quindicina di minuti colmi di baci, carezze e lunghi sguardi negli occhi senza parlare, Andrea apprese qualche notizia sulla ragazza dai capelli rossi.

    Si chiamava Patrizia Annunziata. Era figlia di un noto avvocato di Salerno. Frequentava il primo anno della Facoltà di Sociologia a Napoli, dove si era trasferita da qualche mese. Con altre due coetanee, anche loro studentesse, divideva il fitto di un appartamentino a San Biagio dei Librai, in pieno Centro Storico.

    Fu un grande amore, dapprima colmo di ragionamenti politici e in seguito di progetti sul futuro.

    Andrea, dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia con il massimo dei voti, s’iscrisse alla specializzazione di Cardiologia.

    Ben presto si rese conto che i nuovi studi erano ancora più costosi e non poteva chiedere ulteriori sacrifici ai suoi genitori. Così, un giorno prese la decisione che gli sembrò più saggia.

    Da qualche anno era approdata in Italia una nuova scienza medica, la fecondazione artificiale assistita. A Napoli erano sorti due centri specializzati che iniziavano ad operare per aiutare le coppie che desideravano un figlio, nonostante avessero problemi specifici. Erano gli inizi di nuove tecniche ed i centri cercavano donatori di seme che potessero soddisfare le richieste di procreazione a tutti i costi. In quei primi tempi di sperimentazione, in un’Italia bigotta ancora vincolata da pregiudizi e tabù religiosi, la nuova frontiera della medicina suscitava diffidenza, specialmente tra i potenziali donatori.

    Un giorno, tra un corso e l’altro, un suo collega specializzando in Ostetricia e Ginecologia, illustrò ad Andrea le problematiche di questa nuova frontiera della medicina. Venne a sapere che il trattamento veniva fatto alle coppie che presentavano l’assenza di spermatozoi nell’eiaculato o nel testicolo, oppure avevano la possibilità di trasmissione di disturbi genetici o malattie contagiose utilizzando il seme del coniuge ovvero affette da malattie ereditarie documentate.

    La notizia lo incuriosì e chiese al collega di informarsi. Seppe che il donatore ideale doveva avere un’età tra i ventuno ed i trentacinque anni, essere in buona forma fisica e psichica, non presentare malattie genetiche trasmissibili alla discendenza, non essere portatore né essere affetto da antigene di epatite B o anticorpi anti epatite C, non aver contratto mai la sifilide, non soffrire d’infezioni, avere un cariotipo normale e possedere una qualità seminale, approssimativamente quattro cinque volte i valori normali, che sopportasse i processi di congelamento e scongelamento.

    Per le coppie più facoltose, ufficiosamente erano graditi donatori fisicamente prestanti, con tratti somatici regolari e caratteristiche corporee che potessero conciliarsi con la normalità dell’aspetto fisico esteriore.

    Il "New Fertility Center, uno dei due centri esistenti a Napoli, era situato in un palazzo signorile della Riviera di Chiaia ed offriva sino a centomila lire per prelievo", assicurando al donatore il più assoluto anonimato e la massima riservatezza.

    L’opportunità di poter racimolare una cifra che gli avrebbe coperto l’intero costo della specializzazione, e sgravare gli anziani genitori, solleticò la mente di Andrea. Poiché riteneva di avere tutte le caratteristiche richieste, si recò al Centro privato e si sottopose ad uno screening completo.

    Fu accolto con notevole simpatia dal personale in servizio ed in modo particolare dalla biologa Titti De Maio, che in seguito scoprì si chiamava Gertrude. Con Titti si sviluppò una sincera amicizia sin dal primo momento. Quando le analisi furono pronte, la biologa, che fungeva da Direttrice del Centro, gli comunicò l’esito favorevole dei suoi esami. Poteva iniziare le donazioni sin da subito. E così, nei mesi a seguire, con il numero massimo consentito di donazioni, il giovane Andrea raccolse una cifra comoda per i suoi studi, pari ad oltre tre milioni di lire.

    Proferito il Giuramento di Ippocrate e superato brillantemente l’esame di abilitazione professionale, iniziò a lavorare come volontario presso il Secondo Policlinico di Napoli, dove fu apprezzato per la sua preparazione e dedizione al lavoro.

    Andrea iniziò a farsi strada. Venne il tempo delle prime visite domiciliari a pagamento e con i primi guadagni si trasferì in un piccolo appartamento di Napoli. Finalmente poteva evitare il disagio del viaggio giornaliero, che oramai iniziava a pesargli, e liberare le coinquiline di Patrizia dalla sua presenza assidua.

    Senza accorgersene, entrò in punta di piedi nel mondo della borghesia ed appena riuscì ad avere un’autosufficienza economica, iniziò la convivenza con la donna che amava, non dimenticando un aiuto mensile ai suoi genitori, che andava a trovare ogni settimana.

    Nel frattempo Patrizia aveva completato gli studi e, più che iniziare a cercare un lavoro, iniziava a dedicarsi anima e corpo alla politica e ad avvicinarsi sempre di più alle frange estremiste della sinistra cittadina.

    Andrea pian piano prese le distanze da quel modo di vedere la realtà che lo aveva affascinato solo qualche anno prima. Non condivideva più gli ideali, il modo sovversivo di agire e di progettare i cambiamenti per la società. Li trovava in contrapposizione con la sua natura schietta e altruista, la professione, la sua missione. Inevitabilmente arrivarono i primi litigi tra i due innamorati e le prime incomprensioni.

    Quando Patrizia lo accusava di aver tradito gli ideali nei quali credeva sino a poco tempo prima, Andrea si difendeva sostenendo la necessità di dover ricambiare i sacrifici che avevano fatto i suoi genitori per i suoi studi universitari. Non confessò mai alla sua compagna la passione che lo divorava nello svolgere la professione e la voglia di non tornare indietro, di allontanare i fantasmi delle privazioni che aveva subito.

    Passarono ancora altri mesi ed i pazienti del Dottore aumentarono. Andrea aveva trovato la sua strada. Era diventato un giovane professionista molto stimato anche all’interno del Policlinico.

    Arrivò finalmente il giorno della sospirata specializzazione in Cardiologia. Era al culmine della felicità e della soddisfazione.

    Andrea era raggiante, ma Patrizia gli fece un discorso che lo raggelò. Gli confessò che, nonostante aspettasse un figlio da lui, non riusciva più a vivere in modo spontaneo la loro relazione per il suo crescente impegno politico contrapposto al modo borghese di intendere la vita da parte dell’uomo che gli viveva a fianco. Ormai il grande amore che li univa si era lentamente consumato, sino a svanire. Non provava più nulla per lui. Il loro amore era giunto al capolinea.

    Andrea si ribellò. Si mortificò. Le gridò che non voleva perderla e che era felice di avere un figlio. La supplicò con tutte le forze di non lasciarlo e si addossò le colpe del fallimento. Promise di cambiare, ma Patrizia fu irremovibile. Per lei la politica era lo scopo della sua vita e l’amore di un uomo o di un figlio non l’avrebbe fatta cambiare idea.

    Disperato, le chiese di permettergli di diventare padre e di riconoscere il figlio. La pregò più volte, ma senza risultati. L’indomani, la giovane donna si sarebbe unita ad un gruppo vicino alle Brigate Rosse e le sarebbe stato impossibile fargli sapere i suoi spostamenti. – Non cercarmi. Per te sono morta! – gli urlò Patrizia gelidamente come ultima frase mentre andava via a passi lunghi. Il mattino successivo uscì dalla sua vita per sempre.

    Annientato, per la prima volta dopo i tempi dell’infanzia, pianse tutte le lacrime che gli vennero. Giurò a se stesso che non si sarebbe innamorato mai più e che le donne da quel momento sarebbero state solo ed esclusivamente un’occasione di compagnia, senza nessun coinvolgimento sentimentale.

    Decise che era giunta l’ora di dedicare la vita al suo unico e più grande amore, la medicina. Si buttò a capofitto nella professione.

    Con il titolo di Specialista ed il tirocinio alle spalle, dopo pochi mesi prese servizio, con il titolo di Assistente, presso il Reparto di Cardiologia degli Ospedali Riuniti di Salerno, situato in Via Vernieri.

    Arrivò il 1975. In quegli anni, il Centro Storico viveva il suo momento peggiore. Palazzi dai muri scrostati e inverditi dalla muffa, cumuli di spazzatura per le vecchie e dissestate stradine ed un ambiente sociale non idilliaco contribuirono al calo dei fitti e dei prezzi della proprietà immobiliare, sino a divenire molto accessibili.

    Andrea era innamorato di quella zona della città, che chiamava affettuosamente il cuore di Salerno. Per un cardiologo abitare nei suoi meandri era il massimo, anche se nei vasci contrabbandieri e prostitute non più giovani vivevano e svolgevano onestamente la loro professione.

    Trovò un appartamento confortevole, con poca luce, a un primo piano di Via Dogana Vecchia, e affaccio in fondo alla strada che immetteva sulla piazza di Largo Campo, celebre per la vanvitelliana Fontana dei Delfini. Il fitto era accettabile. Con soddisfazione si trasferì insieme ai suoi genitori.

    La famiglia Nardone si ambientò subito nelle stradine che si snodavano tra i vecchi palazzi gentilizi oramai in rovina. Forse la Salerno antica ricordava in qualche modo il vecchio paesino del Cilento dal quale provenivano.

    Passò qualche anno e Andrea, per pura combinazione, seppe che una nobildonna decaduta vendeva un appartamento di pregio nella vicina e più centrale Via dei Mercanti. Un amico gli confermò che il prezzo era interessante. La Baronessa aveva necessità di denaro contante per fronteggiare i problemi di gioco del defunto marito e l’imminente trasferimento nel nord Italia.

    Prese appuntamento e si recò nella casa in vendita, dove abitava la signora.

    Era situata in un palazzotto dell’inizio ‘800, con un portone d’ingresso ad arco che immetteva in un cortile privato con un

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1