Potete urlare di meno, per favore?
Di Athos Ceppi
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Anteprima del libro
Potete urlare di meno, per favore? - Athos Ceppi
all’Umanità
Adorazione
Il sole a ferragosto raggiunge lo zenit, immaginava l’uomo camminando pigramente lungo la banchina del porto. Tanti posti vuoti nei parcheggi acquatici, un gran numero di famiglie e variopinte compagnie di amici erano salpate di buon’ora per la giornata che rappresentava la festa dell’estate.
Nella sua testa molti ricordi affioravano come cartoline screpolate, dove il tempo della gioventù se n’era andato impercettibile. Era un pensiero ricorrente nella sua mente e la ricerca di quel cambio di passo, dal vociare esibito della giovinezza allo sciabordio silenzioso della maturità, non trovava mai risposta. Cos’era successo? Dov’era avvenuto il punto di svolta? E quanto era stato repentino per non essersene nemmeno accorto?
Quel sole abbagliante delle cinque della sera non gli metteva paura, anzi era una compagnia piacevole della sua solitudine. Aveva in sé il colore indefinito della speranza che crea un ordine naturale alle cose e il battito sincopato di un rimpianto impalpabile. L’utopia è la miglior medicina nelle giornate estreme, pensava l’uomo.
Mentre il mondo celebrava la sua festa pagana, c’era chi si ritrovava completamente solo, con il carico del tempo. L’animo era leggero perché il caldo gli dava sempre un senso di festa. La pace interiore lo accompagnava durante quella passeggiata, dove le poche barche rimaste, ballavano placidamente la loro siesta e il vento tra gli alberi fischiava una musica antica.
Entrò in un bar e ordinò un caffè e un bicchier d’acqua. Bevve tutto di un fiato, incocciando prima il caldo dalla tazzina e subito dopo il freddo del bicchiere. Pagò e uscì sulla strada bollente.
Fu lì che la vide.
Aveva I capelli color cenere e la pelle delicata e abbronzata per le carezze del sole. Il corpo snello e gli occhi azzurro-grigi lo bloccarono improvvisamente, che se si fosse trovato nella metro di una grande città, avrebbe creato problemi di assembramento, tanto improvviso fu il suo arresto. Anche la ragazza lo guardò e sorrise. A occhio e croce aveva la metà dei suoi anni e il doppio della conoscenza del mondo.
Si avvicinò con sicurezza, con la testa vuota e nessun pensiero svolazzante se non l’ammirazione per una bellezza così perfetta. Le parlò brevemente. La ragazza tacque.
Rientrarono nel bar. L’uomo ordinò il solito caffè con un bicchier d’acqua mentre la ragazza preferì una spremuta d’arancia. Rimasero in piedi lì, al bancone, nel bar senza clienti con il cameriere indaffarato a pulire i tavoli vuoti.
Terminata la consumazione uscirono camminando lentamente tra i marciapiedi deserti. Le mani si sfiorarono appena e loro sorrisero a quel leggero contatto.
Alla fine del viale arrivarono davanti a una porta che dava sulla strada. Era una tipica casa di mare, con le persiane azzurre, il muro intonacato di bianco e il tetto piano. L’uomo prese le chiavi poi spinse la porta e la fece entrare.
La stanza era tinta d’azzurro con piccole venature bianche al delimitare del soffitto. Sobria come la cella di un monaco: un tavolo di legno, una sedia e un piccolo letto ricoperto da lenzuola bianche la riempivano appena. Unico oggetto fuori posto era un vecchio stereo messo in un angolo, collegato a un’unica cassa; e un disco, un vecchio quarantacinque giri senza copertina. Il locale era arioso e aperto al mondo e la notte avrebbe sicuramente riecheggiato dell’infrangersi delle onde, tanto era la vicinanza al mare.
Lei si pose al centro della stanza. Indossava un vestito sbracciato di lino bianco, con un leggero arricciamento intorno alla vita. Ai piedi aveva delle infradito color terra che si mimetizzavano con il pavimento, ad eccezione delle unghie laccate di bianco.
Le chiese di rimanere scalza.
Anche lui fece lo stesso.
Appoggiò i piedi sul pavimento caldo. Il sole entrava dalla finestrella e illuminava i suoi capelli.
L’uomo le rivolse uno sguardo attento, poi andò verso il giradischi.
Una musica ipnotica riempì la stanza.
Io ballo a piedi nudi
Per un giro
Qualche strana musica mi attira
Le liriche di Patti Smith fluttuavano leggere nell’aria.
Lui s’inginocchiò e cominciò ad accarezzarle i piedi. Vi avvicinò il viso e li sfiorò con le labbra, passando le dita sulle caviglie.
Lei lo guardava incuriosita tenendo le braccia dritte lungo il corpo.
Poco alla volta l’uomo cominciò a risalire lungo le gambe. Non le scoprì, continuando ad abbracciarla fino alla vita.
Le sue mani cercavano un appoggio sicuro, come un cieco che tasta il terreno. O come un naufrago della vita.
Arrivato alle spalle la cinse da dietro, sfiorandole il collo. Le mosse i capelli con il viso, tenendola per le braccia. Con le tempie si appoggiò alla nuca mentre la ragazza emetteva lunghi sospiri. Inspirò a lungo quell’odore di salsedine, stordente come un profumo d’oriente.
Si spostò e si piazzò davanti. Testa contro testa la strinse forte. E ridiscese verso il basso.
All’altezza dei seni si fermò, poi le baciò lo sterno, un bacio lunghissimo, puro, devoto.
Sto danzando a piedi nudi
Roteando
Una strana musica mi attira
Ritmi lenti e sincopati avvolgevano i due corpi.
Ridiscese lungo i fianchi immacolati di quel vestito di lino, con il sole che scendeva sul mare.
Giù giù lungo le gambe nude fino ai piedi color della terra. Li strinse a sé, emettendo un lungo sospiro.
La ragazza mosse le braccia. Era la prima volta da quando era entrata in quella stanza.
Le sue lunghe mani sottili gli sfiorarono i capelli lentamente. Poi li accarezzò con più forza, lo prese per la base del capo e lo portò più in alto, dove ardevano violenti gli umori di quell’estate solitaria.
Ansimava.
L’uomo in ginocchio la guardò con gli occhi umidi e trasognati.
Come un condannato arrivato all’ultimo respiro, come un monaco cenobita nella lode del mattino, giunse le mani in segno di supplica e le disse che non voleva profanare quel corpo che gli era offerto.
Avrebbe voluto continuare all’infinito quella sua personale adorazione.
La pecorella smarrita
La luce arancione di una miriade di raggi sottili illumina l’aeroporto di Barcellona. Sono le venti di una sera di metà settimana e un centinaio di passeggeri stravaccati sulle panchine attende la partenza del volo AZ8547 per Milano Malpensa.
La speaker catalana ha appena diramato il comunicato relativo al ritardo di un’ora causa un forte temporale che imperversa sull’aeroporto milanese.
La notizia arriva come una randellata sulla testa dei viaggiatori e il mormorio di sconforto raggiunge i decibel che si odono al Camp Nou, quando una punizione di Messi finisce fuori di un palmo di mano. Gran parte di loro sono italiani che hanno passato alcuni giorni di lavoro nella città spagnola. Stanchi e affamati, non vedevano l’ora di imbarcarsi e di atterrare un’ora e mezzo dopo a Milano. Una vana speranza.
Ernesto riprende il giornale dalla valigia e prosegue nella lettura. A ogni paragrafo si guarda attorno infastidito dal ticchettio di polpastrelli ansiosi che ritmano il tempo d’attesa, mentre alcune voci si ergono imponenti