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Intrecci di trama
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E-book211 pagine2 ore

Intrecci di trama

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Info su questo ebook

La scrittura è sempre un’opera di filtrazione della memoria. Presuppone riflessione, concentrazione e scavo dentro se stessi. Questa antologia nasce come esercizio collettivo all’interno di un corso di scrittura creativa: il “Corso di tecniche di narrazione applicate al romanzo e al racconto breve” condotto dallo scrittore Piergiorgio Pulixi e organizzato da Gli Scrittori Della Porta Accanto. Per far sì che l’esercizio funzionasse al meglio, i corsisti hanno estrapolato delle emozioni dai quadri del grande pittore americano Edward Hopper, per poi veicolare quelle emozioni attraverso un tema che tenesse insieme personaggi, trama e prospettiva sulla storia.
Sebbene i corsisti siano molto diversi l’uno dall’altro per caratteristiche personali, esperienze, provenienza e attitudine, tutti hanno prodotto scritti che ruotano intorno a temi come la solitudine, la fragilità, la lotta contro scelte obbligate e la precarietà dell’esistenza. Temi che si legano all’associazione alla quale verranno donati i proventi dell’antologia: Sheep Italia. Gli intrecci di trama, in questo caso, sono storie che dalla carta prendono vita e, tramite la lana, scaldano le persone.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita1 feb 2021
ISBN9788833667812
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    Anteprima del libro

    Intrecci di trama - Aa. Vv

    Italia.

    Prefazione di Piergiorgio Pulixi

    "Quando vivi delle esperienze, molto di quel che vivi

    resta inespresso, come se fosse sotto pelle,

    come se rimanesse avvolto da una specie di nebbia.

    Scrivere è un gesto che ti fa diradare quella nebbia,

    ti fa tirare fuori cose profonde e che sarebbero rimaste inespresse."

    Etgar Keret

    Ho voluto aprire questa mia breve introduzione con una splendida citazione di Keret perché riassume molto bene lo spirito che dovrebbe animare sempre la scrittura. Ovvero, lo scrivere dovrebbe sempre essere una riscoperta. Una riscoperta di noi stessi, di attimi, ricordi ed emozioni che – presi dai ritmi vertiginosi delle nostre vite – non siamo riusciti a elaborare in maniera profonda. La scrittura è sempre un’opera di filtrazione della memoria. Presuppone riflessione, concentrazione e scavo dentro se stessi: questo facilita la rilettura delle nostre esistenze che può portare a piacevoli scoperte e reinterpretazioni dei nostri sentimenti.

    Questa antologia nasce come esercizio collettivo all’interno di un corso di scrittura creativa: il Corso di tecniche di narrazione applicate al romanzo e al racconto breve organizzato da Gli Scrittori Della Porta Accanto. Un corso intenso di sette settimane e più di trenta ore di lezione in cui gli studenti hanno imparato le tecniche più efficaci per diventare autori più consapevoli. Alcuni di loro non avevano mai scritto prima, mentre altri avevano già qualche esperienza di scrittura. Il mio obiettivo era suscitare in loro tanto entusiasmo da portarli a scrivere un racconto breve nell’arco di queste settimane grazie a un metodo di lavoro puntuale e rigoroso. Negli anni mi sono accorto che affrontare la pagina bianca senza alcuna traccia o ausilio può essere estraniante e terribile, quasi si dovesse attraversare un mare magnum senza una carta, una bussola e per di più di notte. Per venire in aiuto dei corsisti ho così selezionato venticinque quadri del grande pittore americano Edward Hopper. Le sue tele trasudano solitudine, malinconia e lasciano sempre addosso la sensazione di aver assistito ad attimi di vita vera, quasi che più che quadri fossero micro storie. In virtù di questa sua geniale caratteristica ho chiesto ai lettori di scegliere uno o più quadri e cercare di entrare in risonanza con le emozioni, la storia e le vicende che secondo loro erano nascoste in quelle tele, quasi che dovessero captare tra le immagini e i grani di colore i semi dello sviluppo del loro racconto. Per far sì che l’esercizio funzionasse al meglio, i corsisti hanno estrapolato delle emozioni dai quadri, per poi veicolare quelle emozioni attraverso un tema che tenesse insieme personaggi, trama e prospettiva sulla storia. Il quadro doveva agire come catalizzatore di suggestioni, come agente ispiratore per la loro creatività, che si è rivelata essere molto feconda. Il risultato è tra le vostre mani. In alcuni casi il quadro originario ha rappresentato solo un dettaglio di interpretazioni molto originali e svincolate in modo pressoché totale dal punto di origine; in altri, invece, il quadro è diventato come la cornice di tutto il racconto. Ciò che mi ha stupito è che – sebbene i corsisti siano molto diversi l’uno dall’altro per caratteristiche personali, esperienze, provenienza e attitudine – tutti hanno prodotto scritti che ruotano intorno a temi come la solitudine, la fragilità, la lotta contro scelte obbligate e la precarietà dell’esistenza. Sicuramente hanno risentito dell’atmosfera buia che ci ha avvolti tutti in questo anno, o forse sono entrati tanto in sintonia con i quadri da sentire le pulsioni di Hopper, che con questi temi nutriva il suo campo d’elezione artistico. Spetta a voi scoprirlo.

    Scrivere è fatica. È impegno, dedizione e applicazione. Ma è anche una miscela di brividi e magia. In queste storie troverete una commistione di tutti questi elementi, raccolti insieme dall’entusiasmo che gli autori hanno provato scrivendoli.

    A loro non posso che augurare di preservare sempre e nutrire giorno dopo giorno questo entusiasmo.

    A voi, invece, auguro una buona lettura.

    Piergiorgio Pulixi

    RACCONTI

    Burnout

    di Giovanni D’Errico

    1

    Trovare lavoro alla clinica psichiatrica San Giuliano è stata una vera fortuna. Quando la Service Coop mi ha chiamato per offrirmi un posto da guardia giurata, ero tornato in Sardegna da appena tre giorni, dopo quindici anni vissuti in Veneto. A riportarmi nella mia terra natia è stata la morte improvvisa di nonna Bonaria. So che sembra una cosa stupida – nonna Bonaria aveva la bellezza di 97 anni – ma prima di allora non avevo mai pensato che potesse morire. Per me era come una quercia millenaria o la bibbia sul comodino: qualsiasi cosa fosse accaduta, lei ci sarebbe sempre stata. Invece se n’è andata una mattina di fine febbraio, nel sonno. A trovarla è stata Armida, la ragazza delle pulizie. Di punto in bianco, mi sono ritrovato proprietario di una casa, ma senza una nonna e senza soldi. Quindi a maggior ragione ringrazio Dio per aver mandato in mio soccorso la Service Coop.

    Il lavoro che mi è stato offerto era ciò di cui avevo bisogno: orario notturno, dalle 8:30 della sera sino alle 7:00 del mattino, sei giorni su sette e un ambiente di lavoro niente male.

    La stanza in cui si trovano i monitor è piccola e dotata di tutto l’essenziale: un tavolino, un armadio sbilenco e un vecchio televisore anni Ottanta a tubo catodico che frizza ogni volta che cambio canale. Il divano ha la pelle piena di crepe e la gommapiuma deformata, ma tutto sommato non mi posso lamentare. Non sto a contatto con i medici perché smontano prima che io arrivi, e i pazienti li vedo solo nei monitor quando fanno ritorno nelle loro stanze. Poi più nulla. A dir la verità esiste una paziente che incontro tutti i giorni. Quando attraverso il cortile, dietro il vetro della finestra della stanza del secondo piano, c’è sempre una ragazza dai lunghi capelli neri che guarda lontano, oltre il cancello. Assorta nei suoi folli pensieri, tiene le braccia strette intorno alla pancia e le maniche del maglioncino rosa tirate fin quasi al gomito. Mi chiedo spesso cosa osservi al di là del muro, che cosa abbia lasciato là fuori di così importante da procurarle tutta quella nostalgia. Ogni volta che passo sotto la sua finestra, vedo sempre le sue labbra pronunciare una parola che non riesco mai a cogliere.

    Comunque, stasera è una giornata speciale perché si giocano i quarti di finale di Champion’s League, Roma-Liverpool. È da anni che aspetto una partita come questa. Diciamo che non sono abituato a vedere la mia squadra del cuore raggiungere un simile traguardo, logico che per me questo sia un evento storico. Metto il cappello sul tavolo, accanto alla pistola e alla borsa con la cena, accendo il televisore e mi sintonizzo sul canale.

    Prima di accomodarmi sul divano mi appoggio al termosifone perché oggi si ghiaccia. Siamo ad aprile, ma sembra gennaio e fuori si sta abbattendo un temporale così violento che per sentire la voce del telecronista devo alzare il volume sin quasi al massimo. Mi concentro sulle squadre schierate in campo, le curve nascoste dietro densi fumi gialli e rossi e il brusio di fondo così corposo che quasi mi sembra di vedere lo schermo vibrare.

    Qualcuno bussa alla porta.

    Chiudo gli occhi senza muovermi.

    Altri due tocchi, stavolta più decisi.

    Con uno sbuffo mi stacco dal calorifero, infilo in testa il cappello di ordinanza e apro. Sono Gheorghe e Ioan, i due OSS di nazionalità rumena che fanno il turno di notte. Mi guardano con un sorriso incerto. Gheorghe tiene in mano sei lattine di birra Westbraü, quelle del discount.

    «Ciao Milo. Possiamo guardare partita insieme?»

    Sento le labbra incurvarsi verso il basso.

    «A dir la verità non so se sono autorizzato a farvi entrare…»

    Tengo la porta socchiusa, ma Gheorghe, il più grosso dei due, la spalanca con una spinta.

    «Dai Milo, non rompere coglione» dice entrando. Capelli corti e naso schiacciato tendente verso destra, piccole cicatrici a forma di uncino ai lati dei sopraccigli. Gheorghe ha meno di trentacinque anni e un tempo deve essere stato un pugile, come testimoniano i muscoli tesi sotto la divisa.

    Ioan è smilzo e sembra sempre sul punto di fare qualcosa di sbagliato. La mascella dura e sporgente somiglia al muso di un cane, le labbra fini e gli zigomi appuntiti come lance gli disegnano sulla bocca un sorriso maligno. I capelli divisi a ciocche biondi e rigidi sembrano le setole di una scopa. Se dipenda dalla genetica oppure dal fatto che non li lavi di frequente, non posso saperlo con certezza.

    Li guardo accomodarsi sul divano.

    «No, ragazzi, davvero, non so se sia regolare quello che state facendo.»

    Cerco di mantenere un tono risoluto, ma Ioan si abbandona sui cuscini.

    «Partita in compagnia è più bella» dice, stappando una lattina.

    Preso dallo sconforto mi lascio andare sulla sedia. Cerco di farmi forza pensando che forse saranno presi dalla partita e non faranno baccano. Naturalmente succede tutto il contrario. Tra rutti, urla e bestemmie in rumeno, concentrarsi sulle azioni è impossibile. A fine primo tempo, la Roma perde per due a zero.

    «Milo tu no ha bevuto niente.» Gheorghe apre una birra e me la porge.

    Non mi è mai piaciuto bere, soprattutto in servizio. Rifiuto con decisione.

    Gheorghe fa una risata e mi si avvicina ancor di più, mettendomi la lattina sotto il naso.

    «Qui dite: chi non beve in compagnia è ladro o spia» dice Ioan fissandomi. Ride, ma nel suo sguardo c’è qualcosa che mi mette a disagio. «Tu sei ladro o spia?»

    «Nessuno dei due» rispondo serio.

    «Bevi allora»

    Guardo la lattina e poi Gheorghe. Mi osserva come se la mia decisione fosse la sintesi della persona che sono. Alla fine la afferro e butto giù la birra. Un brivido mi sconquassa il corpo, bevo in rare occasioni, e poi la Westbraü sembra piscio di cane.

    Con la coda dell’occhio mi accorgo che Ioan si è avvicinato al tavolo. In mano stringe la mia pistola.

    «Bella arma» dice lasciandola luccicare sotto la luce della lampadina.

    «Quella non puoi toccarla! – strillo prendendogliela di mano – Non si scherza con queste cose.»

    «Io non scherza. In Romania avevo pistola molto più grande di questa» risponde ridendo. Mi prende in giro, o forse no. Ioan è uno che potrebbe benissimo tenere un’arma illegale sotto al cuscino.

    «Perché tu ha sempre cappello» chiede Gheorghe allungando la mano verso la mia testa. Faccio un passo indietro prima che possa sfiorarlo.

    «Tu ha sempre cappello, anche quando non sei vestito da poliziotto. Diverso cappello, ma hai sempre. Fa vedere cosa nascondi lì sotto. Tu ha soldi?» chiede avanzando verso di me. L’idea che possa togliermelo mi paralizza, ma all’improvviso sento la testa scoprirsi. Gheorghe scoppia a ridere indicandomi. Mi volto. Ioan ha in mano il mio cappello e ride a crepapelle.

    «Ma cosa hai tu su tua fronte? Sembra crema di tartufo gigante.»

    Le risate diventano ancora più fragorose. L’aria intorno si incendia, come se all’improvviso nella stanza fosse stato sparato vapore bollente.

    «Avanti Milo, facci assaggiare tuo tartufo» dice Gheorghe allungando la mano. Mi sembra di essere tornato all’adolescenza, a quando ancora non potevo nascondermi e dovevo affrontare le prese in giro a scuola, in strada, ovunque andassi. L’angioma che ho sulla fronte dalla nascita mi ha sempre perseguitato, rendendomi la vita impossibile. Ho lottato anni per liberarmi dei bulli e ora sono costretto a rivivere quelle stesse identiche sensazioni.

    «Allora Milo, se tu ha pezzo di pane io posso assaggiare. Non dirmi che vuoi tenere tutto per te.»

    Sento la fronte imperlarsi di sudore. La mano e i pensieri tremano all’unisono, sfuggendo al mio controllo. Guardo la pistola. Il colpo è in canna.

    Qualcuno bussa alla porta. Chiudo gli occhi e ringrazio Dio. Corro ad aprire.

    L’enorme corpo di Zaid, l’altro OSS di turno stanotte, copre l’intera porta. Di origini giamaicane, Zaid è un ragazzone alto un metro e novanta, con il grasso ben distribuito su tutto il corpo e la carnagione color caffellatte. Lunghi capelli stopposi castano chiaro, braccia grandi come querce, ha gli occhi sottili e allungati simili a due pescetti, anche se sospetto che quella forma dipenda soprattutto dalle canne che si fuma di nascosto.

    «Si può sapere che cavolo state facendo qui? Vi ho cercato per tutta la clinica. Giuliana è incarognita. Vi siete dimenticati che oggi è il vostro turno di sanificare le sedie a rotelle e i bagni?»

    «C’è partita.»

    «Sì, c’è partita, ma c’è anche sedia a rotelle e bagni. Se non volete essere licenziati ora, vi consiglio di muovere il culo.»

    Gheorghe e Ioan si guardano. Stanno per ribattere qualcosa, ma poi escono senza dire nulla.

    Rimasto solo, mi siedo sul divano. La partita ricomincia, ma non esulto nemmeno quando la Roma mette a segno due gol nel giro di tre minuti. Sento addosso la stessa rabbia, la stessa frustrazione degli anni passati, di quando nei bagni della scuola venivo sbeffeggiato dai ragazzi più grandi. «Milo, mi stacchi dieci euro di fumo dalla fronte?» e giù risate e prese per il culo a più non posso. Con le ragazze andava anche peggio. Come quella volta a Capodanno, quando avevo quindici anni e con i miei amici Ciccio, Franci Spano e Luca Aresu siamo andati al Blue Note, una delle discoteche più in voga a quel tempo. Lì avevo conosciuto Lucia, una ragazza tanto carina quanto ubriaca. Dopo chiacchiere improbabili su quanto fosse bella la vita da single, ero riuscito a baciarla. Ed era stato bellissimo. Stavo ancora assaporando il sapore alcolico delle sue labbra, quando il suo sguardo era passato dall’incuriosito alla sorpresa per scivolare infine nel disgusto. Avevo visto il mio cappellino sul tavolino. Le guance si erano incendiate all’istante mentre biascicavo qualche mezza parola di scuse che non ero riuscito a concluderne perché lei si era alzata lasciandomi da solo in compagnia della mia vergogna. Quel giorno avevo capito una volta per tutte che non avrei avuto scampo. Non era importante quanto mi fossi impegnato, quel biscotto al cioccolato che mi abbelliva la fronte, sarebbe stata per sempre la mia persecuzione.

    Mi chiedo come sia potuto accadere di nuovo. Devo essere stato proprio uno stupido a pensare che fosse sufficiente nascondersi al mondo per evitare la sofferenza. Rabbia e vergogna scuriscono tutti i miei pensieri. Devo lasciare il lavoro o presto diventerò lo zimbello della clinica.

    Un movimento sul monitor di sinistra mi riporta alla realtà. All’inizio non gli presto attenzione, ma poi vedo una ragazza scalza che cammina nel corridoio. Avvicino il viso allo schermo. Le maniche del maglione chiaro tirate sin sopra il gomito, le gambe nude, i capelli lisci che scendono sul seno. Le riprese sono in bianco e nero, ma la riconosco subito. È proprio la ragazza triste che vedo ogni giorno quando arrivo alla clinica. Avanza con passo lento, quasi che intorno alle caviglie abbia delle catene di ferro. Aspetto che qualcuno compaia nel monitor e la riporti nella sua stanza. La ragazza si ferma. Guarda

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