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L'uomo che ricordava troppo
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E-book393 pagine5 ore

L'uomo che ricordava troppo

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Info su questo ebook

ROMANZO (276 pagine) - FANTASCIENZA - Johann Hagenström non aveva ricordi del suo passato. In compenso ricordava eventi che non erano mai avvenuti. Un romanzo finalista al premio Urania che richiama gli incubi di Philip K. Dick.

Johann Hagenström ha un bel problema: la sua memoria ha perso parecchi pezzi del suo passato; in compenso, ogni tanto ricorda cose che non sono mai successe... che "non possono" essere successe. Johann vorrebbe tornare a una vita normale e al suo normale lavoro di traduttore: ma la strana sindrome mentale che lo affligge non glielo consente. La terapia dello psichiatra che lo ha in cura non sembra dare risultati; come se questo non bastasse, i suoi falsi ricordi lo portano frequentemente nel bel mezzo di una feroce guerra civile che lo atterrisce, o di un'Italia ridotta a un deserto. E nelle sue allucinazioni retroattive torna ossessivamente una figura enigmatica, un'affascinante donna di colore che pare conoscerlo molto bene... "troppo" bene. Quando poi Johann comincia a incontrare persone uscite dai ricordi di una vita che non ha vissuto, tutto intorno a lui comincia a disgregarsi; lui stesso comincia a dubitare di se stesso; e quella che emerge è una realtà minacciosa. E letale. Un romanzo finalista al Premio Urania, dove Philip K. Dick incontra Alfred Hitchcock.

Nato nell'anno delle Olimpiadi di Roma, Umberto Rossi a nove anni ha visto Armstrong posare i piedi sulla Luna. A diciotto l'hanno fatto uscire da scuola, coi suoi compagni, perché avevano rapito Aldo Moro. Dopo aver conseguito una laurea in lingue (e aver vestito l'uniforme dell'Esercito Italiano), l'autore ha tradotto manuali di informatica e un sistema operativo finito nel cimitero del software; si trovava negli Stati Uniti quando iniziò la I Guerra del Golfo e tornò a casa su un aereo pressoché vuoto; ha conseguito un dottorato di ricerca leggendo decisamente troppo; è tornato a fare traduzioni tecniche; si è trovato a fare ricerche di vario tipo come consulente del CENSIS; ha visitato Scampia prima che diventasse tristemente celebre; è finito su una cattedra delle scuole superiori quando meno se lo aspettava; ha tradotto Dick, Lansdale e Disch, per non parlare di Harlan Ellison; ha pubblicato due libri che non c'entrano niente l'uno con l'altro; stava per incontrare Ellison, ma per fortuna o purtroppo la cosa è andata a monte; lo invitano a parlare di diversi argomenti, ma non sempre lo pagano; ha pubblicato tre racconti di fantascienza. E adesso il romanzo, dopo soli 34 anni di gestazione.
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2015
ISBN9788867759828
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    Anteprima del libro

    L'uomo che ricordava troppo - Umberto Rossi

    a cura di Silvio Sosio

    Umberto Rossi

    L'uomo che ricordava troppo

    Romanzo

    Prima edizione dicembre 2015

    ISBN 9788867759828

    © 2015 Umberto Rossi

    Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl

    Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano

    Versione: 1.0

    Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI

    Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.

    Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria

    Indice

    Il libro

    L'autore

    L'uomo che ricordava troppo

    Dedica

    Citazione

    Prologo

    Primo tentativo

    Secondo tentativo

    Geldmann

    Matteo

    Giovanna

    David

    Ubiquitas

    Doris

    Il caporale Crisolora

    Giovanna Parodi; a seguire, Hanno Flieg

    Hanno

    Rudolf

    Hanno e Johann

    Delos Digital e il DRM

    In questa collana

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    Il libro

    Johann Hagenström non aveva ricordi del suo passato. In compenso ricordava eventi che non erano mai avvenuti. Un romanzo finalista al premio Urania che richiama gli incubi di Philip K. Dick.

    Johann Hagenström ha un bel problema: la sua memoria ha perso parecchi pezzi del suo passato; in compenso, ogni tanto ricorda cose che non sono mai successe… che non possono essere successe. Johann vorrebbe tornare a una vita normale e al suo normale lavoro di traduttore: ma la strana sindrome mentale che lo affligge non glielo consente. La terapia dello psichiatra che lo ha in cura non sembra dare risultati; come se questo non bastasse, i suoi falsi ricordi lo portano frequentemente nel bel mezzo di una feroce guerra civile che lo atterrisce, o di un'Italia ridotta a un deserto. E nelle sue allucinazioni retroattive torna ossessivamente una figura enigmatica, un'affascinante donna di colore che pare conoscerlo molto bene… troppo bene.

    Quando poi Johann comincia a incontrare persone uscite dai ricordi di una vita che non ha vissuto, tutto intorno a lui comincia a disgregarsi; lui stesso comincia a dubitare di se stesso; e quella che emerge è una realtà minacciosa. E letale.

    Un romanzo finalista al Premio Urania, dove Philip K. Dick incontra Alfred Hitchcock.

    L'autore

    Nato nell'anno delle Olimpiadi di Roma, Umberto Rossi a nove anni ha visto Armstrong posare i piedi sulla Luna. A diciotto l'hanno fatto uscire da scuola, coi suoi compagni, perché avevano rapito Aldo Moro. Dopo aver conseguito una laurea in lingue (e aver vestito l'uniforme dell'Esercito Italiano), l'autore ha tradotto manuali di informatica e un sistema operativo finito nel cimitero del software; si trovava negli Stati Uniti quando iniziò la I Guerra del Golfo e tornò a casa su un aereo pressoché vuoto; ha conseguito un dottorato di ricerca leggendo decisamente troppo; è tornato a fare traduzioni tecniche; si è trovato a fare ricerche di vario tipo come consulente del CENSIS; ha visitato Scampia prima che diventasse tristemente celebre; è finito su una cattedra delle scuole superiori quando meno se lo aspettava; ha tradotto Dick, Lansdale e Disch, per non parlare di Harlan Ellison; ha pubblicato due libri che non c'entrano niente l'uno con l'altro; stava per incontrare Ellison, ma per fortuna o purtroppo la cosa è andata a monte; lo invitano a parlare di diversi argomenti, ma non sempre lo pagano; ha pubblicato tre racconti di fantascienza.

    E adesso il romanzo, dopo soli 34 anni di gestazione.

    A mia madre

    che mi ha insegnato

    l'importanza degli ingredienti

    Ognuno va al cinema che preferisce

    Il Custode del cimitero

    Prologo

    ho trovato una saponetta nel lavandino, un pezzo di sapone rosa, ovale, normale, così normale che a momenti neanche lo vedevo

    nella saponetta c'era un buco

    il rubinetto, che perde, aveva pian piano scavato la saponetta fino a forarla, goccia dopo goccia, con una lentezza opprimente

    ho contato le gocce

    ne cade sì e no una ogni ora

    quanto c'è voluto perché la saponetta venisse perforata? giorni? mesi? anni?… ma io non me ne sono accorto

    se anche la saponetta fosse stata di pietra, l'acqua sarebbe riuscita a bucarla, alla fine

    gutta cavat lapidem

    l'acqua, nella sua insensibile pazienza di cosa, può tutto; gioca una partita che dura per l'eternità; e se c'entra l'eternità tutto diventa possibile, i mari si asciugano, le montagne si spianano, i fiumi cambiano il loro corso, i soli si spengono…

    e l'eternità c'è entrata, si è impadronita di me, senza che lo volessi, senza che facessi nulla per entrare nel suo dominio, mi ha preso e non mi lascia più

    se solo riuscissi a ricordare quando e come ho lasciato quella saponetta nel lavandino; se solo riuscissi ad uscire dal tempo delle acque e delle rocce, che mi ha catturato; se riuscissi a tornare tra gli uomini, a ridiventare me stesso… ma non so come si fa

    eppure deve esserci un modo per ricordare…

    Primo tentativo

    Ricordo di oggi: mi portano in un istituto di ricerca. Piccoli edifici, alberi. Lecci? Sughere? Sui Castelli, ma come se i Castelli fossero molto più vicini. Gente in camice bianco, certi con cuffie di plastica. Mi fanno mettere dei sacchetti di plastica sulle scarpe. Andirivieni di gente nei corridoi. Una ragazza mi porta in un salone, c'è altra gente che aspetta, tutti con queste buste sulle scarpe. Dobbiamo vedere qualcosa di importante. Una macchina. Si chiama E-Omega. Non so che significa. Gli altri invece fanno cenno di aver capito. Ci fanno passare uno alla volta per una porta, poi su una passerella stretta; siamo su una piattaforma sospesa. La macchina è lì, un cubo azzurro, con luci che si accendono e si spengono. Arriva un uomo con uno zuccotto in testa e una lunga barba, e dice che quello è l'E-Omega. Fa freddo, molto freddo. Ma è giusto così. L'uomo colla barba dice che quella macchina ha un altro nome, segreto: il nome è BET. L'uomo ci mostra un rotolo di carta, lo spiega. C'è un unico segno, uno strano segno, pare una maniglia.

    Me la sono ricordata di colpo, questa visita. Ma ci sono stato davvero? Non sarà come quelle altre cose? Come si chiamava questo posto? Dov'era? Quella macchina, che cos'era? Chi era l'uomo colla barba? Mistero.

    Perché ho la testa così confusa?

    No, non dovrei dire così, l'espressione corretta è perché ho le idee così confuse? …forse perché mia madre diceva sempre che testa che ho! sono stato spinto ad esprimermi in questo modo. Comunque, sia la testa o siano le idee, quel che è certo è che vivo in una tale confusione!

    Scrivere non è il mio forte. Certo, mi sono guadagnato da vivere come traduttore o almeno così mi sembra, non ricordo bene quando, ricordo un libro in tedesco, i vocabolari che prendevo dagli scaffali, che sfogliavo, avanti e indietro… Ma lì è diverso, il testo è già pronto, c'è solo da trascriverlo; le idee sono lì, l'ordine è lì, e tu puoi nasconderti dietro il nome di quell'altro, l'autore. Non c'è questo sforzo di ricordare, disporre, seguire un filo logico che mi sfugge continuamente dalle dita…

    Perché scrivi, allora?

    Ma già! Così posso cominciare. Posso spiegare perché sto scrivendo, perché sto digitando queste cose in un vecchio portatile che neanche ha il disco fisso, solo due slot per i floppy disc… Ecco: tutto è cominciato quando il dottor… oh, no! Già mi sono scordato come si chiama; ricordo anche troppo bene il suo faccione odioso di Bratwürst, quei suoi capelli ormai più giallastri che biondi, ma il nome… Kaufmann? Qualcosa del genere. Non ricordo, il che dimostra come io ho bisogno di cure.

    In breve: il dottore che mi ha in cura è sicuro che se io scriverò le cose che mi ricordo su un quaderno – no, meglio: se io scriverò su un quaderno le cose che mi ricordo, man mano che mi tornano in mente, se terrò insomma una specie di diario, e lo rileggerò ogni tanto, e lo aggiornerò, ne avrò un qualche sensibile miglioramento.

    Su un quaderno, mi ha detto. Ma insomma, siamo nel 1993. Ho questo portatile, sarà vecchiotto, ma ancora funziona. Io metto tutto su questo floppy e amen.

    Però forse dovrei scrivere qualcosa anche sulla mia malattia. Altrimenti non si capisce niente. Il fatto è che soffro di amnesie, o meglio, come dice il dottor Geldmann (che dopotutto non si chiamava Kaufmann, però non sono sicuro nemmeno di questo), di una forma assai particolare di rilassamento dell'attenzione. In pratica mi capita di…

    No, basta, non ce la faccio. Non ce la faccio. Non capisco come faccio a − ma forse dovrei scrivere come faccia a…. Dio mio dio mio dio mio che confusione. In certi momenti resto a guardare lo schermo per un quarto d'ora, queste parole arancioni su fondo nero, che neanche fa tanto bene alla vista, un quarto d'ora o forse anche di più, con le idee che mi vorticano nella testa, ma mi mancano le parole per dirle. Ho dubbi assurdi, come se l'italiano non fosse la mia lingua. Si dice che una cosa sfugge dalle dita o tra le dita? Dimostra come o dimostra quanto? Ne avrò qualche miglioramento oppure ne ricaverò qualche miglioramento? In certi momenti ho l'impressione di star sempre ripetendo la stessa cosa, in altri di non averla ancora detta ma di averci solo girato intorno, in tondo. Le parole complottano contro di me. Le frasi si costruiscono tutte storte, tutte sbilenche… dopo un po' devo smettere e ricominciare. Non ci capisco più niente. Mio dio, come si fa ad andare avanti così?

    Forse è meglio se smetto per un po', mi rilasso e poi ricomincio. Sono troppo agitato, adesso.

    Che poi la visita al centro di ricerca e la macchina sono cose da niente. Quello che mi è tornato in mente stamattina, mentre facevo colazione. Quello mi ha scombussolato. Un ricordo brutto, ma brutto. Vorrei dimenticarlo ma non ci riesco. Sento come il bisogno di scriverlo.

    Caliamo a valle sotto gli alberi, su un terreno in pendenza che alterna neve e foglie secche. I tronchi sono grigi, i rami nudi. Abbiamo paura: è una cosa folle, ma lo stiamo facendo. Ma è molto pericoloso. Siamo lontani dai nostri, siamo soli. In mezzo al nemico. Sono ore che camminiamo, ore, avvolti in lenzuoli bianchi per confonderci in quel biancore sotto i tronchi grigio peltro dei faggi. Anche i fucili sono avvolti in stracci bianchi. Corriamo come disperati. E sotto di noi non c’è la salvezza, ma il nemico. Questo è ancora niente, rispetto a quello che ci aspetta.

    Siamo lupi. Cacciatori e prede. Lupi, come i guerrieri che in battaglia si coprivano delle loro pelli grigie.

    Vedo uno dei primi alzare un braccio e agitarlo. Zitti e fermi. Ha visto le sentinelle. Senza doverglielo neanche dire, quattro dei nostri partono, silenziosi come una malattia. Arrivano, afferrano, sgozzano. Ci fanno cenno. Noi corriamo avanti. Siamo su una strada, dall’altro lato un edificio. La scuola. C’è gente fuori. Ci vedono. Ora dobbiamo essere svelti. Non dobbiamo lasciarli respirare.

    Mentre prendiamo la mira, il gruppo coi lanciarazzi sulla destra sferra il colpo. Un boato, la porta salta via, le finestre del primo piano eruttano fumo e fuoco e schegge di vetro. Corro avanti, sparo, corro, sono già nel parcheggio accanto, ci sono dei camion parcheggiati, tiro una granata dentro un cassone, non aspetto lo scoppio, corro avanti, una s’affaccia, lo falcio, salto sul muro, entro nella finestra, sono in una stanza piena di brande, si muovono, un botto di fuori, un altro, io sparo a casaccio, finisco i colpi, tiro fuori la pistola, i soldati scappano, non sanno che fare, certi restano paralizzati, li accoppo uno ad uno, loro per la paura non capiscono un cazzo, si stavano riposando, cazzeggiavano, giocavano a carte, parlavano di ragazze, aspettavano la cena, non s’aspettavano i lupi.

    Esco dalla stanza, per sicurezza mi lascio dietro un’altra granata per finire il lavoro, metto un altro caricatore nel fucile, vedo due in fondo al corridoio, portano la DROP, mostrine cremisi, Bersaglieri, li massacro con una raffica. Un botto che mi assorda, cadono calcinacci: la granata ha fatto il suo porco lavoro. Poco dopo mi raggiungono altri dei nostri. A momenti ci spariamo, poi ci riconosciamo dal cattivo odore. Siamo dello stesso branco.

    Corriamo nell’edificio. Dappertutto Bersaglieri che s’arrendono, che s’inginocchiano, alzano le mani, piangono. Li facciamo uscire, li spintoniamo coi calci dei fucili, li raduniamo fuori dalla palazzina. Gli ufficiali vengono spacciati con un colpo alla nuca, subito, senza discussioni. Non facevano prigionieri, stavolta non li facciamo neanche noi.

    E i soldati?

    Non sono pochi. Un centinaio.

    Li rimiro. Anche volendo, prigionieri non ne possiamo fare. Gli elicotteri che ci verranno a prendere avranno spazio solo per noi. Incursioni rapide dietro la linea del fronte e fuga rapidissima in elicottero. Non s’è mai parlato di prigionieri.

    Potremmo ammazzarli tutti. Ma finiremmo i colpi. Però abbiamo le baionette, le asce.

    I prigionieri mi fissano. Io li guardo. Perdio sono ragazzini. Questi li hanno portati qui per forza. Come cazzo si fa ad ammazzarli tutti? Se lo facciamo, che differenza c’è? Noi facciamo la guerra per liberarli, non per mandarli al cimitero.

    Ma se li lasciamo qui, domani ce li ritroviamo addosso. E stiamo già ridotti male.

    Questa è la guerra. Non ti lascia alternative.

    Non sono riuscito a fare colazione, dopo che mi è venuta in mente questa scena. Una cosa improvvisa; guardavo il latte freddo nel bicchiere, prendo un savoiardo, una cosa stile Proust… ma non mi torna in mente la mia infanzia, macché, niente cose normali. No, la neve, la paura, la morte, la guerra, ecco cosa. E l'orrore; non tanto per quel che era già successo, ma per quel che doveva ancora succedere. Li avremmo ammazzati tutti; li avremmo massacrati nel modo più brutale, decapitandoli, sbudellandoli, tagliandogli la gola. Qualcosa di orribile. Sono stato sconvolto tutta la mattina. Poi, verso mezzogiorno, l'altro ricordo.

    Sono le quattro. Esco a fare quattro passi, magari se mi distraggo mi passa.

    Secondo tentativo

    Ho ritrovato questo dischetto stamattina. Non ricordavo cosa c'era dentro, e sopra non c'era scritto niente, per cui l'ho messo nel portatile ed eccomi qui. Si tratta di uno dei tanti (inutili) tentativi di far fronte al mio male che si sono succeduti l’anno scorso. Nemmeno ricordavo di aver scritto le cose che stanno in questo file (nome file: ricordi…). L'ho ritrovato in un cassetto dove tengo lampadine, candele, qualche cacciavite, roba del genere. Inutile chiedersi cosa m'abbia detto la testa per metterlo lì dentro.

    Se dovessi spiegare a qualcuno cos'ho che non va, mi basterebbe fargli leggere questa roba. Mi metto a scrivere perché me lo ha detto il dottore, per riordinarmi le idee. Poi, sul più bello, mi scordo del dischetto, mi scordo di quello che c'è scritto, di tutto. Mi metto a fare qualcos'altro, qualsiasi cosa. E poi, un bel giorno, per puro caso, trovo questo floppy e mi deprimo a pensare quanto posso essere inconcludente. Ma non sono semplicemente inconcludente; io sono ma-la-to.

    Della guerra e dei prigionieri da uccidere non ricordo assolutamente nulla. Nulla. A leggerlo sembrano cose scritte da qualcun altro. Eppure chi altri può averlo scritto? Ma è proprio classico. I falsi ricordi di rado durano. Dopo qualche giorno svaniscono nel nulla. Ma quando arrivano, sembrano cose successe veramente, più vere del vero.

    La mia è una sindrome rara. Dice Geldmann che se ne sono occupati, oltre a lui, cinque o sei psichiatri, quasi tutti tedeschi (lo dice con malcelato orgoglio, ovviamente…). Praticamente chi ne soffre ogni tanto ricorda persone, esperienze, posti, cose che non ha mai incontrato, vissuto, visitato, visto. Memorie false. Falsi ricordi. Ma sembrano vere. Sembra, ecco, avete presente quando di colpo vi torna in mente una ragazza che avete incontrato al mare quando avevate vent'anni, oppure un compagno di scuola che vi stava antipatico, o un libro che avete letto tanto tempo fa? Capita a tutti, no? Proust ci ha scritto un popo' di romanzo, su queste cose. Be', ecco – queste cose che ricordo poi si scopre che non sono possibili. Faccio un esempio: ti ricordi un ristorantino che fa cucina romanesca, ricordi di esserci stato, ricordi che ti è piaciuto, cameriere simpatico, servizio veloce, vino buono, alla fine pure il conto è piacevolmente basso. Ci vuoi tornare. Sei sicuro, dico sicuro di sapere dov'è. Una traversa di Via Crispi. Ricordi l'insegna, il numero addirittura. Ti dici, quasi quasi ci vado stasera, non ho niente in frigo, una pastasciutta e un contorno, va bene così.

    Ci vai, e trovi che non solo non esiste il ristorante: non esiste la strada. Quella traversa di Via Crispi semplicemente non c'è. Chiedi a gente che passa, qualcuno conosce bene la zona, ti dice che un ristorante di quel nome (Il callarello, questo ancora me lo ricordo!) non c'è mai stato lì. Mai sentito nominare, eppure il tipo con cui parli abita lì da quand'è nato e sembra bello anzianotto.

    Associato ai falsi ricordi, l'amnesia parziale, o, come la chiama Geldmann, Aufmerksamkeiterschafflung, rilassamento dell'attenzione. Bel parolone, vero? Il panzone ne tira fuori uno per ogni seduta, con la scusa che dopotutto sono tedesco anch'io (il che non mi lusinga affatto, checché ne pensi herr Doktor; sono più orgoglioso del mio 50% di sangue italiano). Certe volte sospetto che quelle parole lo facciano sentire a casa, a Berlino, quando lavorava nell'ospedale psichiatrico di Spandau.

    Il rilassamento dell'attenzione è un altro sintomo della mia sindrome, e altrettanto imbarazzante; qualche volta semplicemente tragico. Faccio un esempio: pochi giorni fa (tre? quattro? non potete chiedere dettagli del genere a uno nelle mie condizioni!) sono uscito di casa per comprare il pane. Facile. Non c'è che da andare in un alimentari, comprare un filone, portarselo a casa, metterlo nella credenza e mangiarselo quando si ha fame. Facile. Per chi è normale, certo. Ma io non sono normale!

    Sono uscito di casa con tutte le migliori intenzioni, ma a un tratto la mia attenzione si è rilassata e, arrivato al negozio, ho tirato dritto. Mi sono piazzato a una fermata dell'autobus, ho preso il 310 fino al Portuense, e ho passato il resto del pomeriggio al cinema, a vedere un film di guerra (uno strano, si chiamava I dannati di Sora). E pensare che odio i film di guerra! Solo verso sera, dopo esser tornato a casa, mi sono reso conto che la credenza era ancora vuota e che avevo speso gli ultimi soldi della pensione.

    Distrazione, direte voi; volubilità. No, non è solo questo. Magari lo fosse. Non si tratta di semplice volubilità, quando ogni minima azione della vita quotidiana è un'avventura che non so mai come andrà finire. Non è volubilità soffrire di continue amnesie parziali, uscire di casa meno che puoi per paura di ritrovarti negli angoli più sperduti della città, senza sapere come ci sei arrivato e perché, e senza sapere dove abiti; specchiarti al mattino per trovarti di fronte il volto di uno sconosciuto. Non è questione di incostanza o distrazione. È che non ho la testa a posto. In altri termini: psicopatologia. Tra falsi ricordi e cose che scordo, non è vita. È un inferno.

    Il dottor Geldmann minimizza. Dice che non la devo fare tragica. Il mio è un caso interessante, una sindrome rara, ma nient'affatto unica. Mi ha fatto leggere articoli, storie simili alle mie. Ha qualche somiglianza col Morbo di Alzheimer, solo che colpisce soggetti giovani. E non pare avere un'origine biologica, ma puramente psicologica. Il rilassamento dell'attenzione si accompagna non tanto a una perdita della memoria; quanto a un inceppamento della memoria. Ogni tanto dei ricordi si bloccano, non riesco a recuperarli, si fermano, incastrati non si capisce bene dove. Oppure falsi ricordi li sostituiscono per un breve periodo. Poi, di colpo, tutto si sblocca e il ricordo, quello vero, torna.

    Mi è successo più volte. Per esempio, un mese fa ero convinto che la Roma avesse vinto il campionato di calcio nel 1983: mi pareva di ricordare tutto, i festeggiamenti, i semafori dipinti di giallo e rosso, la gente per le strade…

    Invece no. Il portiere mi ha fatto vedere il giornale che conservava per cimelio: la Roma ha vinto nel 1986, dopo aver rimontato 8 punti alla Juventus di Platini. Le scene erano quelle che ricordavo (più o meno), ma c'era una differenza di tre anni. E quando il portiere mi ha fatto vedere il giornale il vero ricordo si è sbloccato, o meglio, disinceppato, e tutto è tornato al suo posto.

    E se non è molto importante che la Roma abbia vinto nell'ottantatré o nell'ottantasei (a me del calcio non è che me ne freghi più di tanto) è importante sapere che studi hai fatto, in cosa ti sei laureato, come si chiamano i tuoi genitori. Come ti chiami tu. Chi sei. Che cosa vuoi.

    E anche queste cose, ogni tanto, mi sfuggono. O meglio, piuttosto spesso; a dire il vero troppo spesso.

    Comunque sia, Geldmann è convinto che io non sia un caso incurabile. La sindrome di Morselli (sarebbe la mia malattia) non si cura con psicofarmaci, si risolverà senza dubbio con il lavoro di analisi. Cioè, psicoanalisi. E con una terapia occupazionale. Dice che se mi concentrassi su un'attività, una sola, pure se semplice, e la portassi avanti con ordine e continuità… be', lui dice che il numero, la frequenza e l'intensità di queste mie amnesie parziali calerebbero sensibilmente… con l'andar del tempo questo mi porterebbe a condurre una vita relativamente normale.

    Fin qui la teoria. Nei fatti le cose sono andate ben diversamente. Girando per casa non posso fare un passo senza inciampare in qualche relitto dei miei passati tentativi di iniziare un'attività terapeutica, il che talvolta mi abbatte a tal punto da indurmi a desistere dal tentativo in corso.

    Non che mi sia mancata la buona volontà. Ho provato di tutto, proprio di tutto. Ho studiato il francese, ho cercato di giocare in borsa, ho costruito modellini di navi in legno e di aerei in plastica, ho seguito un corso di yoga in TV, ho giocato a scacchi per corrispondenza… qualunque cosa richiedesse concentrazione, ordine, metodo. Inutile. Dimenticavo nomi e verbi e poi trascuravo di fare gli esercizi; invece di comprare il giornale per tenermi al corrente delle quotazioni, quando arrivavo all'edicola prendevo la Settimana Enigmistica (amo i rebus); iniziavo i modellini, poi li lasciavo a metà perché mi era arrivata la posta, e mi mettevo a rispondere con una lettera piena d'insulti a una cartolina inviatami da una vecchia conoscenza dell'Università… quanto al corso di yoga, non c'era verso di farmi restare sul quinto canale della RAI se scoprivo che qualche TV privata dava un film con Ingrid Bergman o Rita Hayworth. Stendo un velo pietoso sulla mia attività scacchistica.

    Lo vedete? Non è questione di volubilità o di semplice distrazione. Sono pazzo; o almeno molto malato. Non ho un filo di coerenza. Comincio una cosa, poi un'altra e abbandono la prima, poi un'altra e un'altra ancora – e non me ne rendo assolutamente conto. Questo è il problema: ogni novità pare cancellare quello che stavo pensando o facendo prima. Completamente. Solo dopo qualche giorno riesco a ricordare quello che è stato annullato dalla mia nuova attività. Spesso qualcosa di veramente importante. Come, per esempio, quando sono andato all'ufficio postale per pagare la bolletta della luce, e invece mi sono ritrovato allo Zoo. Morale della favola: mi hanno staccato la corrente elettrica, e sa Dio quel che ho dovuto fare per riaverla dalla ConEdison!

    I momenti peggiori sono le crisi di abulia. Vengono dopo che un rilassamento dell'attenzione mi ha cacciato in un guaio. Quando mi rendo conto di quel che ho combinato, mi passa la voglia di fare qualsiasi cosa. Di solito mi rifugio nella vasca da bagno per ore, facendo scolare l'acqua quando si raffredda, e riempiendo di nuovo la vasca con altra acqua calda. Resto lì per interi pomeriggi, senza pensare a nulla. Oppure non mi decido a svegliarmi: riprendo sonno, poi mi risveglio, poi riprendo sonno, e avanti così fino a sera, sempre più confuso e intontito.

    Ed è in quei momenti che ho i peggiori inceppamenti della memoria. Tempo fa non sono riuscito a ricordare niente di mia madre per quasi tre giorni.

    Ero qualcun altro. Non so bene chi. Non questo relitto che sono ora.

    Voglio continuare questo diario. Lascerò il dischetto nel portatile, così dovrò aprirlo per forza. Ho cambiato il nome del file, ora si chiama leggimi, così magari lo apro – magari continuo a scrivere. Geldmann dice che devo anche registrare tutti i falsi ricordi, possibilmente appena si presentano. Secondo lui, anche se sono falsi, si possono interpretare. Possono dirci qualcosa. Cosa, ancora non l'ho capito, ma alla fine il dottore è lui.

    L'espediente ha funzionato! Oggi ho acceso il portatile, volevo vedere la posta elettronica, e ho trovato il file (che nel frattempo m'ero dimenticato) e l'ho aperto e l'ho letto ed eccomi qui. Benissimo! Funziona!

    Certo, mi sono reso conto di non ricordare tutto quel che ci avevo scritto solo otto ore fa. La cosa un po' mi ha abbattuto, ma non avvilito. Dopotutto ho il file. Qualcosa è rimasto.

    Ricordare. Che ossessione. A volte sospetto che si tratti solo e soltanto di una mia fissazione. Forse essere smemorati non è così grave… può succedere, no? Però non c'è solo la quotidiana smemoratezza, la serie di distrazioni che mi fanno consumare tutto il mio tempo in una sequela di azioni interrotte. Ci sono quei falsi ricordi, spesso discretamente sgradevoli, anzi, orribili. Ed è difficile convivere con quelle cose. E poi…

    Poi c'è la paura.

    Succede quando non ho nulla da fare e mi stendo sul divano in salotto senza pensare a niente di particolare; oppure la sera, quando cerco di prender sonno isolandomi dai rumori che salgono da via dei Taurini… È allora che comincia a martellarmi il cervello questo pensiero dominante, ossessivo, feroce: l'idea paurosa che anni fa mi sia successo qualcosa di terribile, qualcosa di insopportabile, che ho preferito dimenticare insieme a buona parte della mia vita. Qualcosa che ha fatto di me il malato che sono, un trauma devastante. Qualcosa di cui ho paura.

    Arrivo addirittura a rallegrarmi della mia amnesia, perché mi protegge da quello, di qualsiasi cosa si tratti, e mi impedisce di riviverlo; cosa che, se accadesse, mi distruggerebbe del tutto, perché io non posso reggerlo.

    Qualcosa però filtra. Durante certe notti insonni, verso le due, mi pare di rivedere una bottiglia piena di liquido rosso, forse vino… qualcuno vestito di verde, in una grande stanza verde, dà ordini in tedesco, una voce brusca, imperiosa, e poi grida, grida, grida animalesche… tutto ciò è infestato da un tale orrore che devo accendere la luce. Finisce che prendo qualcosa da leggere per distrarmi, e vado avanti fino all’alba.

    Il dottor Geldmann, d'altra parte, ha un’opinione diametralmente opposta sulla questione. Lui è convinto che l'evento non sia mai avvenuto, anzi, dice di averne le prove, perché lui mi ha sempre avuto in cura, anche nel periodo precedente le amnesie; all'inizio la sindrome di Morselli si manifesta solo coi falsi ricordi. Secondo lui ho costruito a posteriori questo evento traumatico, in parte per spiegarmi razionalmente la mia malattia, in parte per esaudire un desiderio di cambiamento nella mia vita… argomentazioni del genere mi ripugnano, ma devo ammettere che sono sensate.

    Vede, mio caro fa, con quel suo tono professionalmente sereno e costruttivo "lei ovviamente brama la salute, come tutti, del resto… ma lei dispera di ritrovare questa sua verlorene Gesündheit, so Sie…"

    Niente tedesco, la prego lo interrompo, come al solito, perché mal sopporto il suo grasso accento bavarese.

    "Sia pure. Lei dunque brama questa sua salute, così, ehm, per

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