Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie
Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie
Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie
E-book128 pagine1 ora

Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La depressione è il male della nostra epoca. È la malattia più diffusa al mondo ed è la più temuta dopo il cancro. Il nostro anti-eroe ci si imbatte nell'adolescenza e cerca di liberarsene con la disciplina e il metodo di un ricercatore, peccato che la cavia da laboratorio sia lui stesso. Finirà così per autocondannarsi a un'interminabile escalation di sfortune e miserie umane: queste daranno corpo a un romanzo di formazione in cui tragedia e commedia si intersecano e fondono fino a diventare del tutto indistinguibili.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita9 ott 2020
ISBN9791220205627
Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie

Correlato a Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie

Titoli di questa serie (15)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie - alec bogdanovic

    BANDINI

    Prefazione

    a cura della pagina Facebook Persone che pubblicano canzoni impegnate e non ne capiscono il significato

    Parliamoci chiaro: la prefazione non la legge mai nessuno, e allora alcuni autori chiedono che questa « parte di libro » che sembrerebbe imprescindibile venga redatta da un personaggio di rilevo. P ertanto Alec ha pensato di rivolgersi al sottoscritto dopo aver appreso della morte di Umberto Eco.

    Sono giorni che ci penso, non ho mai letto la prefazione di un libro. Oddio… qualche volta l’ho fatto e mi rompevo immediatamente i coglioni e quindi passavo direttamente al testo. Non ho mai amato le prefazioni, dovrebbero introdurti all’opera e invece chi le scrive pensa bene di autocelebrarsi e di inerpicarsi in citazioni alte, rimandi ai propri testi facendo sfoggio di retorica a buon mercato.

    Nemmeno voi leggerete questa prefazione. Potrei raccontarvi delle prime «tette in chat» targate primissimi anni Duemila, degli anni del liceo nella profonda provincia umbra in qualità di figlio di terroni, delle estati al mare in cui tutti si spacciavano per giocatori della primavera del Milan, Juventus e Inter ‒ i più scarsi dicevano di giocare nella Lazio o nella Roma ‒, potrei parlarvi di quando incontrai il Maestro Franco Battiato, mio unico vero idolo, lo salutai e lui non mi inculò di pezza, ma non vedo perché tediarvi con le mie misere frustrazioni.

    «Cosa dovremmo leggere in una prefazione?»

    Non lo so.

    «Cosa dovrei scrivere in una prefazione?»

    Non lo so.

    Allora vi racconterò di come ho incontrato l’autore del libro.

    Un giorno mi arriva un messaggio indirizzato alla casella di posta elettronica di una mia pagina Facebook: era l’autore del libro che mi inviava un estratto poiché aveva tratto ispirazione da un mio post. Sono onesto, gradii molto il gesto e le premure che ebbe nei miei confronti, i modi gentili e oltremodo lusinghieri, ricordavo quel post e le ragioni per cui lo scrissi. Un sorriso beffardo spuntò sul mio volto perché ogni post scritto in pagina che supera le tre righe è certamente scritto al cesso. È incredibile come un pensiero scritto di getto e «sotto sforzo» (sì, è una battuta moooolto velata) possa ispirare l’ingegno altrui, ci ragiono spesso su questa cosa e sorrido, penso alle nostre azioni, positive e negative, penso ai loro effetti, inutili, risibili per noi che le compiamo ma che – magari – lasciano un segno inconsapevole nell’animo degli altri. Succede a tutti, presumo. Ciò accade perché viviamo con leggerezza, la nostra leggerezza, che è differente rispetto alla leggerezza del nostro vicino di casa… e viva Dio!

    Posso dirvi che nel libro non troverete le storie di un borghese annoiato alle prese con la crisi di mezza età, non troverete il borghese intento a urlarsi contro ‒ faccia a faccia – a tre centimetri dal volto della propria ex come in un film di Muccino e, questione di estremo rilievo, non vi imbatterete in quei «micro periodi» e punti perentori che tanto successo riscuotono nei social. Questa è un’altra storia, forse la fine di un percorso intrapreso dall’autore e che ora volge al termine per intraprendere un nuovo inizio. Tutti voi, cari lettori, anche se non direttamente, potreste sentirvi coinvolti, toccati, potreste emozionarvi e scoprire il nome di molte sostanze psicotrope e questo non è un male… dicono che con le fuorisede funzioni ancora sciorinare una certa cultura didascalica in materia.

    Sia chiaro, il libro di Alec non ha nulla a che fare con la mia pagina Facebook, «quel» post era solamente un trampolino di lancio, il libro non è una propaggine dell’ennesimo consesso virtuale perché la pagina dello scrivente non ha i numeri per influenzare le masse e poi perché la trama del libro è avulsa, nella sua essenza, dalle dinamiche dei social, per fortuna.

    Oramai i libri più venduti sono legati inscindibilmente a un successo «social»: scrive l’influencer, scrive lo youtuber o l’amministratore della pagina Facebook di successo, e cosa dicono? Un cazzo, o meglio, nulla di nuovo, di vagamente interessante. È solo la trasposizione in chiave «libresca» di quello che sono nel mondo virtuale, per tali ragioni ritengo che i ghostwriter siano degli eroi moderni costretti a sorbettarsi vagonate di banalità trite e ritrite a cui bisogna dare un contegno. Leggendo il libro di Alec ho incontrato uno spirito puro, la volontà di sfogarsi, di giungere a una catarsi col lettore che non porti, però, a giudizi di merito ma «solo» a una nuova consapevolezza dell’autore del proprio «io» di oggi e di ieri, senza velleità ma con amara lucidità. Questo mi basta, se avete avuto la buona creanza di seguirmi sin qui, per esortarvi a leggere, a cogliere l’essenza di un «piccolo» e prezioso manifesto generazionale che potrebbe restarvi nel cuore facendovi sorridere un po’.

    Sul come è nato questo libro

    Una pagina al giorno, quanto basta per accedere a una piccola dose di dopamina.

    Sul come mi sono rovinato la vita

    Ho cominciato a soffrire d’insonnia all’età di sedici anni. Ricordo che tornavo a casa troppo stanco per studiare, così passavo la giornata a rimandare: dopo pranzo, dopo i Simpson , me lo studio la sera così si fissa meglio in testa. Però c’è un bel film, vabbè facciamo dopo il film.

    Dopo aver passato tutta la giornata così, arrivavo alla notte con gli occhi che non ce la facevano a star su, allora decidevo di mettermi la sveglia mezz’ora prima in modo da anestetizzare l’ansia e riuscire ad addormentarmi tranquillo col proposito che avrei studiato una volta sveglio.

    Quando mi svegliavo però la roba da studiare era troppa per mezz’ora, e alla fine mi limitavo a leggere solo i titoli dei capitoli, pensando che in caso di interrogazione avrei improvvisato.

    Pian piano però la mia amigdala [1] cominciò a capire il trucco e decise che mezz’ora non era più sufficiente, diventò quindi un’o­ra, poi un’ora e mezza, poi due ore. Alla fine ero arrivato al paradosso di far suonare la sveglia ancor prima che riuscissi a prendere sonno.

    Fu allora che chiesi a mio padre di cambiare scuola, ma lui mi consigliò di ripetere il mantra «posso farcela, ce la farò». Inoltre, per darmi la carica, mi spiegò che gli ostacoli non si evitano ma si superano, e si produsse in qualcun altro di questi motivational che si trovano appesi alle pareti d’ufficio degli imbecilli o condivisi sulle bacheche Facebook di altrettanti imbecilli.

    Mio padre non poteva mandarmi via dall’Enrico Fermi. L’Enrico Fermi era stato premiato come miglior Liceo Scientifico d’Italia, era la scuola dove andavano i figli dei dottori e dei potenti della zona e dove mio padre e le mie vecchie prof si erano fatti in quattro per mandarmi. Alle medie in effetti ero considerato il genietto della classe, c’è da dire però che in quella scuola se sapevi fare le addizioni senza usare le dita anche i professori ti guardavano con sospetto.

    Il primo giorno allo Scientifico notai che alle finestre delle aule c’erano delle sbarre. Chiesi un po’ in giro, e scoprii che erano state messe qualche anno prima, dopo che uno studente si era buttato. A quattordici anni però ero ancora un ottimista, non lo interpretai come l’oscuro presagio che era.

    L’Enrico Fermi era in città, e io avevo vissuto tutta la vita in un paesino abruzzese che si trovava (e si trova anche adesso) a un’ora di autobus. C’è poi da dire che non avevo ancora sviluppato, ero un bambino emarginato coi vestiti comprati dalla mamma in mezzo a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1