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Al di là degli alberi
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Al di là degli alberi
E-book498 pagine5 ore

Al di là degli alberi

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Info su questo ebook

Marco viene trasferito al piccolo posto di Polizia di Lucento, un paesino del beneventano. Tutto sembra andare per il meglio, ma un rapimento scatenerà la furia di forze insormontabili, forze che vivono poco distanti, forze che vivono al di là degli alberi.

Chi sono queste forze? Chi è il prete nero? Marco è davvero ciò che dice di essere?

Ma soprattutto chi vive a Geena? La città dimenticata oltre il bosco?

Immergetevi nel primo romanzo di Castaldo Felice, già autore della raccolta di racconti “Dieci passi nel buio”, il successo horror del 2016.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2020
ISBN9788831688253
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    Anteprima del libro

    Al di là degli alberi - Castaldo Felice

    Lovecraft)

    TRAMONTO

    1

    Il Cd all’interno dell’autoradio aveva finito di girare, Marco prese la copertina e lo ripose all’interno, sopra c’era scritto Meddle e poi a caratteri cubitali Pink Floyd.

    Nel 2019, nell’era degli Spotify, mp3 e altre fantasticherie, Marco si ostinava ad ascoltare la musica come negli anni novanta, possedeva addirittura una Alfa Romeo 75 del 1997, un auto quasi da museo. Ma il ragazzo, beh, quasi adulto visto che aveva compiuto da poco 35 anni, era fatto così, era vintage e nell’epoca degli Hipster non era nemmeno così tanto fuori moda. Per non parlare poi dell’uso del cellulare, niente Facebook, Whatsapp o Twitter, in tasca aveva ancora un Nokia, di quelli vecchi, indistruttibili.

    Decise di fermarsi all’autogrill prima di uscire dall’autostrada, vi erano ancora 70 chilometri di strada statale da percorrere per arrivare a destinazione. L’alfa 75 si fermò lungo i parcheggi, la maggior parte erano vuoti, la strada non era tra le più battute.

    Uscì dal bagno con le mani ancora umide, si fermò a comprare un pacco di biscotti atene giusto per sgranocchiare qualcosa, la commessa al di là del bancone gli stava sorridendo, un sorriso che poteva dire sei interessante e carino, ma anche sono solo gentile non ti far nessun film, ma lui non se ne accorse nemmeno, era distratto, pensava ad altro. In quel periodo gli capitava spesso.

    Salì in auto lasciandosi fuori un freddo pungente, l’ultimo scampolo d’inverno stava facendo bye bye, Aprile era alle porte.

    Sull’autostrada s’incrociavano solo grossi camion, di auto nemmeno l’ombra, erano passate da poco le cinque del mattino l’imbrunire era alle porte, l’Alfa viaggiava dolcemente sui 120 chilometri orari, Marco intravide un cartello: BENEVENTO OVEST, era la sua uscita. Al casello trovò il casellante che stava beatamente dormendo con la testa appoggiata sulla cassa, lo svegliò dandogli una botta sul vetro, questo lo guardò un po’ intontito, poi parlò anzi biascicò provando a scusarsi:

    - A quest’ora non passa molta gente e così…

    - Stia tranquillo capita – Rispose Marco, poi continuò – Vorrei chiederle un’informazione -

    - Mi dica – L’uomo si allungò sulla sedia.

    - Devo arrivare a Lucento -

    - Mmm –

    Il casellante si portò una mano al mento e cominciò a dire ripetutamente:

    - Lucento…Lucento… Lucento – Poi l’illuminazione! La faccia gli si ravvivò come quando la sera indovinava le risposte al suo quiz televisivo preferito - Ah ecco, deve arrivare ai confini con la Puglia – Si fermò un attimo a pensare, poi continuò - allora segua qui a destra per Foggia e continui per altri 10 chilometri, poi troverà un grosso incrocio –

    - Sa mica come faccio a riconoscerlo? –

    - Facilissimo è l’unico incrocio che trova sulla strada, comunque prenda a destra per Duranto e poi dritto fino a Lucento –

    - Grazie tante –

    Si allontanò col sorriso sulle labbra, la gente del luogo sembrava alquanto cordiale. Diede uno sguardo veloce sul sedile del passeggero, le carte del trasferimento erano buttate lì.

    Sulla busta gialla c’era una scritta fatta con un pennarello nero: Questura di Roma e ancora più sotto un timbro in blu TRASFERIMENTO D’UFFICIO.

    Allungò la mano e prese la busta, cercò di non staccare gli occhi dalla strada, ne uscì un foglio con su scritto le sue generalità: Agente scelto Marco Favino, nato a Benevento il 07.02.1984 e poi una sfilza di nomi di città dove aveva lavorato. Lasciò scivolare la busta sul sedile passeggeri, era arrivato all’incrocio, svoltò a destra come gli aveva indicato il casellante, imboccò la strada, lì l’illuminazione dei lampioni finiva, la strada veniva avvolta dall’oscurità, l’ora più buia è sempre l’ultima.

    Accese gli abbaglianti.

    Riprese in mano di nuovo le carte e continuò a leggere, dando un occhio alla strada e un altro ai fogli: Trasferito presso il Posto di Polizia di Lucento in provincia di Benevento, motivo del trasferimento: incompatibilità d’ambiente.

    Nella loro saggezza avevano deciso di trasferirlo nello stesso posto dove era nato, pensando forse di fargli un minimo di favore, ma in realtà Marco a Benevento non vi aveva mai vissuto, ci era solo nato. La madre era di Lucento, la madre che da trentacinque anni giaceva ormai sotto tre metri di terra.

    Ora la strada iniziava a curvare e a salire leggermente, da lontano il cielo cominciò a colorirsi, l’alba stava sbocciando. Continuò a leggere: Punteggio al corso: OTTIMO, stato del servizio OTTIMO, scorse tutti i voti velocemente e arrivò in fondo alla pagina, la scritta sposato era stata sbarrata a matita, affianco in stampatello si stagliava maligna un’unica parola: VEDOVO.

    Fece una smorfia e gettò tutti i fogli alle spalle.

    Cinquecento metri più avanti stava piangendo.

    2

    Si asciugò le lacrime e guardò la strada, stava attraversando una galleria, all’uscita una piccola insegna blu: Lucento 8 chilometri:

    - Sono quasi arrivato - Disse Marco nel silenzio della macchina.

    Il pallido sole mattutino, che nel frattempo era sbucato, fece spazio ad un bel banco di nebbia, di quelli fatti bene, di quelli che non vedi proprio niente.

    Rallentò perché la foschia era molto fitta, ai lati della strada riusciva a malapena a scorgere gli alberi che costeggiavano la carreggiata, la visibilità era a meno di cinquanta metri e così decise di ridurre la velocità sui settanta chilometri orari, la strada scendeva discretamente, entrò in una nuova galleria, lesse un altro cartello: Lucento 6 chilometri. All’uscita l’Alfa fu di nuovo avvolta dalla nebbia, ogni volta che usciva da una galleria sembrava che la nebbia lo inghiottisse.

    Ora la visibilità era al di sotto dei 40 metri, scese sui 50 chilometri orari, ormai seguiva le tracce della linea sulla carreggiata, di fronte a lui c’era soltanto un muro, un muro grigio, un muro fatto di aria e di umidità e… scalò in terza marcia, riuscì con la coda dell’occhio ad individuare un cartello che segnalava un tornante poco più avanti, teneva fisso gli occhi sulla strada, non aveva mai visto tanta nebbia in vita sua.

    - Ma che cazz… -

    Di colpo la strada sotto i pneumatici sparì, di fronte a lui il vuoto, i freni della 75 fischiarono al di sotto del pedale, ma l’auto non sembrò voler rallentare, certo se avesse avuto l’ABS tutto sarebbe stato più semplice. Marco schiacciò ancora più a fondo e l’auto iniziò a frenare finalmente, le gomme fischiarono all’unisono lasciando nell’aria la puzza di gomma bruciata, l’Alfa si fermò a pochi centimetri dal fondo della strada, oltre c’era un burrone alto centinaia di metri.

    Le mani di Marco lasciarono un alone umido sul volante, aveva sudato e l’aveva scampata bella, scese dall’auto, sia per prendere un po’ d’aria fresca e sia per la curiosità di guardare il volo che avrebbe fatto se non si fosse riuscito a fermare.

    Tese l’orecchio nell’intento di percepire il rumore di qualche auto in arrivo, ma non udì niente, intorno a lui un inquietante silenzio, nemmeno un animale, un cane, un uccello. Per un attimo si sentì a disagio e decise di risalire in macchina, voleva arrivare al più presto a Lucento e voleva allontanarsi immediatamente da lì.

    Stava per risalire in macchina quando udì il primo rumore; era a pochi metri da lui, non lontano nascosto dalla nebbia, era del tutto simile a quello di un ramo che si spezza.

    Marco si abbassò nell’abitacolo e prese la pistola, l’aveva nascosta nel cruscotto, un brutto vizio di alcuni sbirri:

    - C’è qualcuno? –

    Non ebbe risposta, rimase lì fermo in silenzio sperando di percepire qualche altro rumore ma niente, non udì altro. Salì in macchina, posò la pistola e ingranò la retromarcia, guardò attraverso lo specchietto retrovisore e si fermò, dietro di lui al centro della strada c’era qualcosa.

    Fermò la macchina e riscese, poteva essere di tutto, l’effetto della nebbia a volte è estraniante, quello che a te sembra un corpo umano a dieci metri potrebbe essere un albero a cento. La prospettiva assume tutt’altro valore. Marco fece un paio di passi avanti ma non riuscì più a distinguere niente, qualsiasi cosa fosse sembrava sparita:

    Era, era una persona? Cosa ci faceva al centro della strada? È questa dannata nebbia che mi fa vedere cose che non ci sono. Meglio rimettersi in marcia.

    Si mise di nuovo in auto e scese lungo il pendio, la nebbia poco dopo si diradò, sulla strada iniziò ad intravedere le prima case, poi un grosso cartello: BENVENUTI A LUCENTO.

    3

    La vide che faceva jogging sulla strada, il pantalone della tuta di colore nero, la casacca bianca con le maniche lunghe color rosa, capelli biondi che scendevano su di un corpo atletico. Marco rallentò e abbassò il finestrino:

    - Scusa…-

    Ma la ragazza non si girò nemmeno, continuava imperterrita a correre, Marco ci riprovò:

    - Scusa sapresti dirmi??? -

    Ancora niente la ragazza continuava a correre indifferente, il giovane intravide gli auricolari.

    Maledetti aggeggi pensò.

    Suonò il clacson con un piccolo colpetto, primo, perché non le voleva far venire un infarto e secondo, perché erano pur sempre le 07.30 del mattino, non voleva certo farsi conoscere da tutti come colui che rovina il risveglio mattutino a colpi di clacson.

    La ragazza si girò e lo vide, sembrò quasi sorpresa o forse spaventata o entrambe le cose, rallentò e si fermò più avanti, era affannata, il sudore scendeva su quel viso grazioso senza imperfezioni, l’unico particolare era un piccolo neo che si affacciava dalla guancia sinistra, si abbassò appoggiando le mani sulle ginocchia e facendo intravedere inevitabilmente i due piccoli seni, aveva gli occhi azzurri.

    Il giovane secondo voi ne rimase ammaliato?

    - Come posso aiutarti? – Chiese la ragazza.

    - Ehm…ciao, sapresti dirmi dov’è il Posto di Polizia? –

    - Certo, ma sei quello nuovo? –

    - Si… ma tu come lo sai? –

    - Beh il paese è piccolo, comunque mi chiamo Laura –

    - Marco –

    - Dritto davanti a te a duecento metri sulla destra

    - Cosa? –

    - Per il posto di Polizia –

    - Ah già scusami è che sono stanco, sai il viaggio è stato lungo e così… -

    - Da dove vieni? –

    - Roma, sono partito stanotte – Mentre parlava il ragazzo guardò l’orologio e si accorse che stava facendo tardi - Scusami ma devo andare, magari ci si vede in giro –

    Lei scoppiò a ridere:

    - Ne puoi essere certo, non so se te l’hanno detto ma il paesino è molto piccolo –

    - Già, l’avevo immaginato – Sorrise guardandosi attorno.

    - Ok, ciao –

    Lei si rialzò e si mise di nuovo in marcia, lui partì poco dopo, la guardò dal retrovisore:

    Chissà quanti anni ha?

    4

    Entrò nel vialetto e parcheggiò, in alto una piccola insegna spenta indicava il Posto di Polizia, il viale conduceva in un garage ove vi era parcheggiata una vecchia fiat punto con i colori della polizia.

    Marco scese dall’auto, un raggio di sole scese dolcemente sul prato, quel posto sembrava una classica villetta americana, prato inglese tutt’intorno, un marciapiede centrale che conduceva all’ingresso e sulla sinistra un vialetto con tanto di garage, assomiglia alla casa dei Simpson pensò o a quella di Beverly Hills 90210.

    Entrò dalla porta principale nel silenzio mattutino, il posto, vista anche l’ora era quasi vuoto. Si avvicinò alla grossa scrivania centrale, da un lato un telefono e dall’altro un portatile acceso, Marco allungò lo sguardo, era collegato su un sito porno.

    - Ehm…collega? – Il familiare suono di uno sciacquone lo sopraggiunse, la porta in fondo, con ogni probabilità quella del bagno si aprì, da dietro sbucò un uomo in divisa: era giovane, molto magro, barba di due giorni, dire che era leggermente trasandato poteva essere un eufemismo. Il collega si avvicinò

    - Piacere Giulio

    - Ciao Marco – La mano era umida e appiccicaticcia. Chissà cosa ci avrà fatto con quelle mani.

    Dai gradi sulle spalle capì che era un semplice agente, provò ad instaurare un primo discorso, il collega lo fissava con sguardo spento, probabilmente aveva dormito tutta la notte, altro che vigilanza.

    - Sono stanco morto, ho trovato una nebbia per strada –

    - Va buono ti accompagno subito in alloggio, benvenuto a Lucento, come ti è sembrata la nostra cittadina?

    - Carina – Rispose Marco

    - Carina? Vedrai che da qui non te ne andrai più, ti piacerà questa calma, questa tranquillità, tu vieni da Roma giusto?

    - Si

    - Bene qui è esattamente l’opposto, ti piacerà -

    Marco accennò un sorriso, poi rispose:

    - Beh, speriamo –

    I due uscirono con l’auto di servizio, Marco osservò la divisa che Giulio indossava, sembrava due taglie più grandi:

    - Ma chi rimane in ufficio, mentre noi stiamo in giro?

    - Nessuno – Rispose Giulio con aria distesa, poi per tranquillizzare il collega continuò

    – La gente del posto ha i nostri numeri di cellulare per le chiamate urgenti

    - Le armi? Non ci sono armi lì dentro?

    - Certo che sì. Stanno sottoterra in una stanza blindata. Solo un bazooka può aprirla

    - O le chiavi – Aggiunse lui

    Giulio si limitò ad annuire, troncando il discorso.

    Marco si fermò a pensare che razza di posto, poi provò a cambiare discorso:

    - Mangi molto vero?

    - Non puoi nemmeno immaginare – Giulio abbozzò un sorriso.

    - Si vede – Rispose sarcasticamente Marco.

    - Sei sposato? – Chiese il collega mentre svoltò su di una stradina.

    Nella mente di Marco iniziarono a danzare più immagini, la moglie mentre cucinava, lui mentre le faceva il solletico, i testimoni del matrimonio che offrivano le fedi sull’altare.

    - No – Rispose serio, senza dare troppe spiegazioni – Non sono sposato –

    Giulio si girò un istante verso il collega sembrava aver percepito qualcosa di anomalo, poi sorrise e continuò con il discorso.

    - È una bella cosa essere sposati, ti auguro di farlo al più presto –

    Marco non rispose e si limitò a guardare la strada, poi osservò le mani di Giulio, su quella sinistra s’intravedeva la fede nuziale.

    - Eccoci qui – Disse mentre parcheggiava.

    La casa messa a disposizione sembrava accogliente, posizionata leggermente in periferia, all’interno c’era tutto l’occorrente, dal frigorifero al televisore, dalla cucina alla lavatrice.

    - Dammi due minuti che mi metto la divisa – Disse Marco, mentre portava la valigia dentro

    - Per fare che? –

    - Per presentarmi al capo –

    Giulio scoppiò a ridere, poi disse:

    - Non prima di stasera bello, sai com’è qui, la vita è molto tranquilla –

    - Si, si – Rispose il ragazzo sorridendo cercando di nascondere un pizzico di nervosismo.

    Si ricordò della macchina parcheggiata fuori al Posto di Polizia. Giulio gli disse di non preoccuparsi, sarebbe passato lui la sera a prenderlo, gli lasciò il numero di cellulare e si allontanò con l’auto di servizio. Marco guardò il collega andare via, entrò in casa e iniziò a disfare le valigie.

    5

    Erano le 09.00 del mattino quando Giulio rincasò, la moglie stava per andare al lavoro e indossava quell’orribile camice verde. Carla, così si chiamava la moglie di Giulio, era originaria di Lucento, la sua famiglia viveva lì da generazioni e lavorava come infermiera presso l’ospedale di Duranto, qualche chilometro più giù verso valle. Giulio invece era il forestiero, così lo chiamavano in paese, veniva da Napoli e tre anni prima dopo aver conosciuto la bella Carla, aveva deciso di rimanere, il forestiero a poco a poco si stava trasformando in un Lucentino a tutti gli effetti, con tutti i modi di fare che ogni persona che abita in un piccolo paesino conosce bene.

    Quella forma particolare di esprimersi, quell’accento o quel modo di gesticolare che a volte appartiene ad un’unica comunità. A volte basta spostarsi al paese successivo e alcune cose cambiano, alcuni caratterizzazioni diventano differenti.

    Giulio si tolse la giacca della divisa rimanendo solo con la camicia bianca e la cravatta a penzoloni, Carla si avvicinò e gli diede un bacio, poi lo salutò:

    - Amore ci vediamo a pranzo, vado a lavoro –

    - Ok ciao – Rispose l’uomo tra uno sbadiglio e l’altro ancora stanco dal turno di notte, anche se a dirla tutta la maggior parte del tempo l’aveva passata a dormire.

    Carla entrò in macchina e si avviò verso Duranto pensando a quello che avrebbe fatto il marito: Si addormenterà fino a pranzo, aspetterà me per mangiare e poi passerà tutto il pomeriggio stampato davanti al televisore con la playstation. Ma quando torno non la passa liscia, appena arrivo mi sente, oggi voglio uscire un po’ e non voglio sentire scuse".

    L’auto passò davanti alla salumeria di Zia Fortuna che aveva appena aperto, la salutò prima d’immettersi sulla strada principale per l’ospedale.

    Zia Fortuna era una donna sulla sessantina, viveva sola, perché il marito se ne era andato circa due anni prima, travolto da un maledetto infarto mentre potava l’erba fuori casa. Zia Fortuna era una simpatica signora, possedeva uno dei pochi negozi del paese, oltre al suo c’erano l’edicola, un piccolo negozio di vestiti, una pescheria, un negozio di cianfrusaglie e il vero nemico, o meglio un supermercato con ogni ben di Dio.

    Anche il suo in realtà era un vero e proprio supermercato, certo non era gigantesco, certo non aveva l’aria condizionata, certo non aveva il parcheggio e certo non aveva le porte che si aprivano da sole, ma cavolo provavi a chiederle qualsiasi cosa e lei riusciva sempre ad accontentarti, in pochi metri quadrati riusciva ad accatastare quanta più roba possibile, un bazar dove potevi trovare di tutto, ma di tutto sul serio. Zia Fortuna aveva l’abitudine di parlare a voce alta, sempre per qualsiasi cosa, la si sentiva fino alla fine della strada, il suo vocione era riconoscibile a metri e metri di distanza, anche se era in sovrappeso riusciva a muoversi come un gatto tra gli scaffali, te la trovavi davanti con il vocione e quel corpo così grosso, le chiedevi la candeggina o gli ultimi cerali al cioccolato bianco e lei spariva dietro a uno di quei scaffali di plastica per poi tornare subito dopo, veloce, scattante e infallibile.

    Nel negozio entrò Don Giuseppe, che come ogni mattina aveva raccolto un mazzo di fiori e glieli aveva portati, con la primavera era facile trovarli, d’inverno si limitava ad una primizia, ma cadesse il cielo le doveva sempre portare qualcosa:

    - Don Peppe voi tutte le mattine con questi fiori, ma cosa vi aspettate da me? Io sono una donna ancora sposata – Disse Zia Fortuna col suo vocione

    - Ma io non voglio nulla, voglio solo vedervi sorridere –

    - Tu vuoi veder sorridere un’altra cosa, tutti uguali vuoi uomini –

    - Così mi offendete – Sorrise Don Peppe mentre accennava a un inchino, sembrava di assistere ad una scena di un film di Totò.

    La donna sorrise mentre poneva il nuovo mazzo di fiori all’interno del vaso, la sera li portava a casa e li lasciava appassire.

    Don Giuseppe era un suo coetaneo, era andato in pensione da poco e aveva lavorato come architetto per tutta la vita nel piccolo Comune di Lucento, non si era mai sposato, ma in paese dicevano che era un grande fariniello; il fariniello è l’equivalente del Don Giovanni, del Valentino, del conquistatore e del più volgare ma non di meno onesto trombatore.

    Le voci in paese parlavano di tante amanti nelle città limitrofe e qualcuno qua e là accennava pure a parecchi mariti cornuti, le donne di Lucento durante i loro pettegolezzi sussurravano tra di loro che l’amica dell’amica le aveva riferito che Don Peppe aveva un bel dono da dare alle varie fanciulle.

    Tempi passati, tempi andati, ora l’uomo non era più il fariniello di anni addietro, inevitabilmente si era dovuto dare una calmata, l’età fa questo, l’età ti calma.

    Nel frattempo Giulio, a casetta da solo, si era messo a letto per riposarsi dopo la notte passata al lavoro (o a dormire) e mentre gli si chiudevano gli occhi pensò a cosa avrebbe potuto fare nel pomeriggio.

    6

    Sentì suonare alla porta, guardò la sveglia sul comodino: 12.40.

    Quanto ho dormito.

    Marco si alzò dal letto, era arrivato la mattina presto talmente stanco che nemmeno si era accorto di essersi addormentato, si era solo appoggiato un attimo sul letto e… puf…sonno pesante, bavetta ai lati e bocca spalancata.

    Il campanello suonò una seconda volta:

    - Arrivo! – Urlò l’agente di polizia, passò davanti allo specchio e cercò di aggiustarsi un attimo, si passò una mano tra i capelli come se servisse a qualcosa, si vedeva da tre chilometri che veniva da una sessione mattutina di sonno profondo.

    Aprì la porta cercando di sorridere, all’ingresso trovò un uomo sulla quarantina, indossava un maglioncino marrone, portava gli occhiali, aveva i capelli color castani, tendenti al bianco e tra le mani teneva una pipa accesa che lasciava nell’aria quel gusto dolciastro di tabacco fresco, Marco dedusse che era anice.

    Ben fatto ispettore Crousoe. Si complimentò.

    Nascosta dietro le gambe dell’uomo c’era una bambina, capelli corti biondi, occhi chiari e sguardo tra l’incuriosito e il timoroso.

    - Salve, come posso aiutarvi? – Chiese Marco gentilmente.

    - Salve lasci che mi presenti, mi chiamo Salvatore La Gatta…ehm…La Gatta è il cognome –

    - L’avevo capito, io Marco Favino…Favino è il cognome – Disse sorridendo.

    La bambina nascosta dietro le gambe rise portandosi la mano alla bocca, il papà la guardò divertito, poi continuò:

    - Abitiamo lì di fronte, siamo i suoi vicini di casa

    - Piacere sono Marco, sono arrivato stamattina –

    - Lei è il nuovo Poliziotto, vero? –

    - Si –

    - Viene dalla città giusto? –

    - Da Roma – Rispose Marco

    - Ah ci voleva un po’ di gente sveglia, io sono il Dottore del paese, il mio studio è la mia casa-

    - Ah che bello, così se sto male basta attraversare la strada… –

    - Solo ad una condizione però posso curarla – Lo interruppe Salvatore.

    - Quale? – Chiese Marco sorridendo.

    - Che oggi venga a pranzo da me, c’è mia moglie che sta cucinando un arrosto squisito –

    - Beh così mi tenta, facciamo che vengo ad una condizione –

    - Quale? – Chiese il medico mentre inalò un po' di quel tabacco all’anice.

    - Che mi dia del tu –

    - Va bene ci sto Marco. Tra mezz’ora da me? –

    - Devo portare qualcosa? – Chiese il ragazzo

    - Solo la tua persona – Rispose Salvatore

    Marco guardò la piccola, si accovacciò, portandosi all’altezza degli occhi:

    - Tu invece come ti chiami?

    La piccola si nascose ancora di più dietro al padre che provò a farla parlare:

    - Su amore, Marco ti ha chiesto come ti chiami, è da maleducati non rispondere

    La bambina lo guardò, poi abbassando gli occhi disse:

    - Francesca

    - Che bel nome e quanti anni hai Francesca? –

    - Cinque – Aprì il piccolo palmo della mano facendo segno con le dita, il ragazzo sorrise.

    - Allora ti aspettiamo – Disse il Dottore mentre si allontanò.

    - Puoi contarci –

    - Va buono – Rispose di nuovo Salvatore La Gatta.

    Marco chiuse la porta dietro di sé, pensò per un attimo a quel saluto: Va buono , l’aveva sentito dire anche da Giulio, probabilmente era un modo di dire molto amato dagli abitanti di Lucento.

    Quiz televisivo: Qual è il termine più usato dai Lucentini? Va buono.

    Risposta esatta! Date a quell’uomo quel triliardo di euro.

    In verità però, Marco non aveva alcuna voglia di andare a pranzo dai La Gatta.

    Che palle, che palle. Però lo devo fare, questa sarà la mia nuova vita e devo iniziare ad entrare in contatto con le persone del posto. Non posso fare lo scorbutico come in realtà sono. Mi devo stampare un sorriso sulle labbra e mostrarmi interessato ad ogni cosa e ad ogni argomento.

    Sì però che palle.

    7

    Marco bussò alla porta dei La Gatta.

    La piccola Francesca lo accolse con un timido:

    - Ciao –

    - Mi sa che hai fatto colpo – Disse Salvatore facendolo entrare – Questa monella non ha parlato altro che di te – Francesca scappò via tra le risate del padre:

    - Prego entra Marco, lei è Valentina –

    Valentina sembrava avere circa trent’anni, anche lei come il marito portava un paio di occhiali, i capelli castani corti, bassina e con quel chiletto in più che però non sfigurava, anzi portava con grazia.

    Si sedettero a tavola, l’arrosto era ottimo.

    1 a 0 per il dottore. Pensò il giovane poliziotto.

    Speziato al punto giusto, mentre le patate al forno che facevano da contorno erano croccanti fuori e morbide dentro, la piccola mentre mangiava continuava insistentemente a guardarlo e lui per non sembrare maleducato ricambiava sempre col sorriso.

    Parlarono del più e del meno senza entrare troppo nelle vite private, Salvatore provò a versare un po’ di vino nel bicchiere vuoto di Marco, ma lui rifiutò senza dare troppe spiegazioni. Non poteva dirlo davanti a quella bambina, non poteva dire che negli ultimi tempi, prima di essere stato trasferito, era diventato uno schiavo dell’alcool, non poteva dire che solo la vista del vino o di qualsiasi altro liquore lo faceva stare male, non poteva dire che lo stomaco gli si attorcigliava con crampi simili a pugnali che ti sviscerano.

    Il dolce arrivò presto, pan di spagna con scaglie di cocco, semplice ma assolutamente squisito. Valentina ne tagliò una grossa fetta e dopo averla messa nel piatto gliela fece portare da Francesca, che continuava a non stare ferma, canticchiava e saltava continuamente. Una bambina gioiosa e allegra e che inevitabilmente contagiò tutti, persino Marco.

    Valentina e Salvatore parlarono un po’ delle persone del paese, disegnandole come silenziose, leggermente schive con i forestieri, ma nel complesso brava gente.

    Erano le quattro del pomeriggio quando Marco si alzò da tavola, salutò Valentina e la piccola e tornò a casa sazio e rilassato, Salvatore decise di accompagnarlo.

    - Ho notato una cosa – Disse il Dottor La Gatta mentre attraversavano la strada.

    - Cosa?- Chiese Marco, mentre nella tasca cercava le chiavi di casa.

    - Quando ti ho offerto il vino, il tuo viso è cambiato, come se avessi visto chissà che cosa –

    Marco si fermò:

    - In che senso Salvatore, non capisco –

    - Da che eri sorridente e allegro, sei diventato cupo, diciamo triste –

    - Scusami non volevo –

    - È successo qualcosa che ti ha fatto innervosire? –

    - Nulla, stai tranquillo –

    - Va beh se lo dici tu –

    Marco trovò il mazzo di chiavi, guardò negli occhi Salvatore, tirò un lungo sospiro e disse con aria affrancata:

    - Sono stato un alcolista, bevevo molto, bevevo troppo –

    La buttò lì quella frase, così senza pensarci, come se fosse una cosa normale essere degli ubriaconi, come se stesse parlando di una malattia qualunque e non di un maledetto vizio. A poche persone aveva confidato quel segreto e ora come se niente fosse, davanti a un uomo conosciuto poche ore prima si era aperto, confidando uno dei suoi segreti più cari, senza pensare minimamente alle conseguenze di una simile rivelazione, in un piccolo paese come quello un pettegolezzo del genere era il sale della vita, per lui sarebbe stata la fine prima ancora di cominciare.

    Salvatore lo guardò negli occhi e chiese:

    - Sei stato o lo sei ancora? –

    - Non tocco un alcolico da sei mesi, ne sono fuori –

    Salvatore gli appoggiò una mano sulla spalla in segno di conforto, si girò e prima di andare via disse:

    - Per qualsiasi motivo sono qui, quando ti serve una mano non esitare a chiedere –

    - Grazie – poi aggiunse – Salvatore mi raccomando…-

    - Stai tranquillo – Lo rassicurò il Dottore mentre si allontanava di spalle – Non lo dirò nemmeno a mia moglie –

    Salvatore La Gatta mantenne la parola data.

    8

    Giulio arrivò in serata con la sua auto:

    - Dove mi porti? – Chiese Marco.

    - Nel locale più in di Lucento, nonché l’unico: La Botte di Zio Tonino –

    - Scusa ma non dovevo conoscere il Capo? –

    - Avrai tempo – Rispose Giulio – Avrai tempo –

    Il locale si trovava leggermente defilato dal centro, nel piccolo e modesto parcheggio c’erano due auto e un furgone. All’ingresso, sotto una tettoia malandata, c’erano seduti due ragazzi poco più che diciottenni, tra le mani bottiglie di birra, a terra se ne contavano almeno tre vuote. Videro Giulio e lo salutarono facendo segno con il capo, uno dei due era completamente ubriaco.

    Marco passando accanto a loro li guardò dritto negli occhi.

    Ecco i due che mi daranno più grattacapi.

    I due ragazzi lo guardarono sorridendo, un sorriso da presa per il culo:

    - Benvenuto ispettore – Disse uno di loro.

    - Non sono ispettore – Rispose lui.

    - Beh – Continuò quello – Alla sua salute allora – E tracannò una mezza peroni. Il suo amico di rimando cominciò a cantare.

    Giulio aprì la porta d’ingresso, le narici di Marco furono invase da puzza di alcool mischiata a tabacco secco, una nuvola di fumo oscurava gran parte del locale, ai tavoli sedevano poco più di dieci persone, tutti maschi, nessuna donna, Giulio gli appoggiò una mano sulla spalla e disse:

    - Qui il divieto di fumo nei locali è andato a farsi fottere – Marco lo guardò leggermente infastidito, non voleva essere là, quel posto era la tana dell’alcool, su ogni tavolo c’erano almeno tre boccali di birra vuoti e la maggior parte delle persone sembrava fuori di giri, in più lo stomaco iniziava a reagire a tutti quegli odori acri e dolci, un senso di nausea persuase il suo corpo:

    - Mi devo sedere – Disse Marco al collega.

    - Che c’è stai male? – Chiese Giulio preoccupato.

    - No, amico è la stanchezza

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