Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Corking: Ci volevano i fantasmi per infestare il mondo dei vampiri
Corking: Ci volevano i fantasmi per infestare il mondo dei vampiri
Corking: Ci volevano i fantasmi per infestare il mondo dei vampiri
E-book349 pagine6 ore

Corking: Ci volevano i fantasmi per infestare il mondo dei vampiri

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Selva Brown ha diciotto anni e si è appena trasferita a Cork. La sua vecchia amica d’infanzia, Lizze Rodriguez, la trasporta al castello dei Davenport, i cui proprietari sono tutti di una bellezza cupa e tenebrosa. Fra loro il più abbacinante è Duval, il quale nasconde un segreto molto oscuro.
La sua pelle diafana, dall’inquietante sfumatura grigiastra, i capelli spettinati all’indietro come le ali di un’aquila in procinto di innalzarsi in volo, gli occhi color zaffiro elettrici, Duval è algido e affascinante. Chi è in realtà il bellissimo diciannovenne che scolpisce angeli come Michelangelo? Selva è seriamente intenzionata a scoprirlo…
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2015
ISBN9788869821257
Corking: Ci volevano i fantasmi per infestare il mondo dei vampiri

Correlato a Corking

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Corking

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Corking - Rianda Doe

    Rianda Doe

    Corking

    Cavinato Editore International 

    © Copyright 2016 Cavinato Editore International

    ISBN: 978-88-6982-125-7

    I edizione 2016

    Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

    © Cavinato Editore International

    Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy

    Q +39 030 2053593

    Fax +39 030 2053493

    cavinatoeditore@hotmail.com

    info@cavinatoeditore.com

    www.cavinatoeditore.com

    Indice

    Prefazione

    Ritorno a Cork

    L’incontro

    Bugie e segreti

    Amico o ragazzo?

    Strani eventi

    La rivelazione

    Il male

    I Davenport

    Tradimenti

    La scoperta

    Pericoli

    Jhon

    Scontro finale

    Vittoria

    Espiazione…

    Caleb

    Tregua

    Epilogo

    The steal souls

    Prefazione

    Faide

    RINGRAZIAMENTI

    Grazie per avermi insegnato a rischiare e per aver condiviso il tuo viaggio con me, mamma.

    Questo libro è dedicato a te e al tuo coraggio.

    L’amore, come la morte, cambia tutto.

    Khalil Gibran

    Prefazione

    A volte la polvere brucia trasportata dal vento. Talvolta invece lambisce a terra, incapace di trovare un po’ di sollievo nel tormento eterno che l’affligge. E a volte la mia carne e le mie ossa bruciano, ma come potrei spegnere il fuoco se questo significasse ammettere la mia debolezza, la mia incapacità di sopravvivere all’Inferno?

    Io sono il re del mio inferno, e tu, dolce e graziosa anima, non sei in grado di domarne l’arsura, poiché essa è parte di me. E non sia mai che il tuo incantesimo funzioni, perché non sarei più un re, ma il padrone del nulla.

    Tu sei un soffio d’aria fresca, ma il mio fuoco non si estingue.

    Sono il re della mia terra, la terra in cui ho scolpito quello che sono nella figura di un angelo. Non ci sono più fiamme, ora che ti ho trovata.

    Solo io e te. Innamorati adesso, innamorati sempre, innamorati fino alla fine.

    D.D

    Ritorno a Cork

    Agitando un cartello su cui a lettere cubitali compariva il mio nome e cognome, un omino di mezza età, basso e stempiato, camminava avanti e indietro all’uscita dell’aeroporto.

    Una magnifica accoglienza, pensai. Quel tizio, non convinto che fossi pienamente vedente, mi stava chiamando ad alta voce, facendo voltare tutti i passeggeri che confluivano verso i taxi posteggiati in fila accanto al marciapiede.

    Io non volevo tornare in Irlanda. Non mi andava proprio giù l’idea di passare le vacanze estive dalla nonna. Lo avevo detto ai miei genitori, lo avevo ripetuto fino allo sfinimento… ma niente. Erano stati irremovibili. La decisione non aveva margini di trattative.

    Mio fratello Matthew era stato mandato in Spagna, dagli zii che avevano già quattro figli ed erano più adeguati della nonna a gestire la sua vivacità fuori dal comune. E avevano spedito me a Cork, una città sperduta situata nella regione del Munster.

    Raccolsi da terra i miei bagagli – consistenti in un borsone da viaggio e uno zaino scolorito – e attraversai le porte automatiche dell’aeroporto. Scansai le persone, guardando desolata il panorama totalmente diverso da quello a cui ero abituata: New York.

    Il mio nome, intanto, riecheggiava come il tam-tam di un tamburo tra la folla.

    Dannazione! Quel tizio aveva davvero delle corde vocali di ferro.

    «Ehilà, sono qui, mi vede?», domandai irritata, piombandogli davanti e guardandolo dall’alto in basso perché la sua testa da elfo mi arrivava a malapena sotto il mento. «Sono io Selva Brown e intendo informarla che non sono sorda!». Non ero mai stata così sgarbata con un estraneo fino a quel momento. Attribuii immediatamente la colpa allo stress. Quell’uomo era lì su richiesta della nonna e le stava facendo un favore venendo a prendermi dato che lei, ormai ottantenne, non guidava più da un pezzo.

    Inspirai profondamente e abbozzai un sorriso. «Lei è il signor Mackintosh, esatto?».

    L’uomo annuì, senza aprire bocca. Era di poche parole. Meglio così, tanto non ero in vena di chiacchiere.

    «Le chiedo scusa per il tono. Il viaggio è stato lungo e spossante, e sono piuttosto stanca. Le dispiace se ci mettiamo subito in marcia? Vorrei arrivare al più presto a destinazione».

    «Nessun problema signorina». Okay, tre parole le aveva dette.

    Il suo accento mi suonava famigliare. Forse dipendeva dal fatto che, avendo trascorso la prima parte della mia infanzia in quei luoghi, me n’era rimasto un residuo in memoria.

    Il signor Mackintosh aprì il portabagagli e v’infilò dentro le mie valigie, mentre salivo nell’auto che odorava di menta e tabacco. Poi si mise al volante.

    Non ricordavo molto dei miei primi anni di vita vissuti sull’isola. Pur essendo nata in Irlanda e cresciuta lì fino all’età di cinque anni, io mi sentivo americana. Con i miei genitori ci eravamo trasferiti prima che ne compissi sei.

    Mio padre, dopo la morte del nonno, con la sua parte di eredità, aveva aperto una catena di fast food a New York insieme a suo fratello Jonathan, che già da tempo risiedeva negli Stati Uniti. Mio zio, due anni dopo, durante una vacanza a Madrid, aveva conosciuto Vidal, sua moglie, e si era stabilito permanentemente in Spagna, dove ora dirigeva un maneggio di sua proprietà.

    Il mio amore per i cavalli era sbocciato in quel luogo magnifico. La passione per l’equitazione mi aveva accompagnata negli anni dell’adolescenza, a tal punto che, allenandomi a livello agonistico, mi ero piazzata diverse volte al primo posto in gare importanti. Fino all’anno precedente, quando, insieme alle mie ossa, si era spezzato il sogno di poter continuare a praticare quella disciplina sportiva.

    Tastai la gamba sinistra, da metà ginocchio fino all’addome.

    L’inverno era stato un percorso da incubo tra fisioterapia e riabilitazione; non ero stata capace di accettare le conseguenze dell’incidente, e questo mi aveva fatta cadere in una sorta di limbo. Incapace di cancellare la rabbia e il dolore – rifiutandomi di andare da uno strizzacervelli, come aveva imprudentemente suggerito mio padre – avevo bandito il mondo esterno dalla mia vita.

    I miei genitori avevano fatto tutto il possibile per aiutarmi a reagire, invano. Gli amici, all’inizio comprensivi, alla lunga si erano defilati. E il diploma lo avevo preso da privatista, grazie a una commissione comprensiva che mi aveva concesso l’opportunità di dare gli esami studiando a casa.

    L’estate era alle porte ed eccomi qui. A mia madre era balenata in mente la brillante idea che cambiare aria mi avrebbe aiutata a reagire. Ricordavo ancora la nostra ultima conversazione: lei seduta sul mio letto, io in piedi con il broncio lungo un chilometro.

    «Vedrai, non sarà così male. Ti farai dei nuovi amici. Lo sai che io e tuo padre saremo impegnati con il lavoro per tutta la stagione… finiresti col rimanere rinchiusa in queste quattro mura, con le cuffiette sempre attaccate alle orecchie o appiccicata al televisore tutto il santo giorno! Almeno lì avrai modo di stare un po’ all’aria aperta».

    «Mi sono mai lamentata del fatto che vi vedo soltanto all’ora di cena?», avevo ribattuto con una punta di durezza.

    «Sai benissimo che non è questo il punto».

    «Allora perché stiamo facendo questa conversazione?».

    «È per il tuo bene, Selva».

    «Il mio bene è restare qui, a casa mia. Per favore, non costringermi a partire».

    Papà si era affacciato in quel momento sulla porta. Da quando avevo avuto l’incidente sembrava invecchiato di dieci anni. Aveva più capelli bianchi e una ruga fissa di preoccupazione scavata nella fronte.

    «Margaret, siete pronte?», aveva chiesto, poco convinto dalle nostre espressioni corrucciate.

    «Sì, Ken». Un sorriso tirato era apparso sulle sue labbra tese. «Selva, so che adesso la vivi come un’ingiustizia, ma sono sicura che ti capiterà qualcosa di bello laggiù. Me lo sento».

    Aveva chiuso la cerniera del borsone come se quel gesto ponesse fine alla discussione.

    «Sicuro!». Glielo avevo strappato di mano. «La verità è che vi fa comodo sbarazzarvi di me!».

    Di una cosa ero certa: l’Irlanda non aveva nessuna sorpresa in serbo per la sottoscritta.

    Le strade di Cork erano allegre e popolose: agglomerati di case, negozi, supermercati e banche. La vegetazione attorniava i villaggi circostanti, file e file di villette, librerie, pub, e cittadine piovose che conducevano direttamente nel centro della città.

    Cork era la mia prigione personale, fatta su misura per me.

    Per arrivare a Dublino da New York ci vogliono sette ore; da lì avevo preso un altro aereo per Cork. Il viaggio in macchina, più i venti minuti che l’aereo aveva impiegato per raggiungere il centro, mi aveva sottratto ogni energia. Nemmeno la lentezza dell’auto nel traffico riusciva a sbollire un po’ la mia irritazione.

    Il signor Mackintosh non aveva più aperto bocca da quando aveva avviato il motore dell’auto. Prima di mettere le mani sul volante, aveva acceso il vecchio stereo incassato nel cruscotto, già sintonizzato su una stazione radio di musica sinfonica. Personalmente trovavo insolito il suo gusto musicale. Sembrava una persona piuttosto semplice, un uomo di provincia. Colpa dei pregiudizi, suppongo. Avrei dovuto lasciarli a New York, insieme a tutto il resto.

    Guardai fuori dal finestrino. Il buio stava calando. La campagna silenziosa sostituiva pian piano il panorama vitale che ci lasciavamo alle spalle. Ad un certo punto, mentre svoltavamo in una stradina secondaria, lunga e deserta, lontano dal traffico, a nordovest (il mio senso dell’orientamento non era un granché, perciò potevamo benissimo essere diretti a nordest, nella direzione opposta), l’oscurità si fece fitta, ad un punto tale che mi riusciva difficile persino distinguere il contorno degli alberi.

    Come ogni altra cosa in Irlanda, Cork sovrabbondava di giardini verdeggianti. Tutto era verde, umido e freddo.

    Mi sentivo un po’ in ansia, probabilmente perché mi trovavo nell’auto di un perfetto sconosciuto. O forse perché stavo lentamente prendendo consapevolezza del cambiamento a cui stavo andando incontro.

    Ma non riuscivo a pensarci; la presa di coscienza me la sarei risparmiata per quella notte, qualche minuto prima di chiudere gli occhi e abbandonare ogni difesa per incontrare Morfeo.

    Risentivo ancora dell’effetto del jet lag e delle ore di sonno perse nell’intervallo di tempo tra lo scalo a Dublino e il volo sul piccolo aereo per Cork. Ero lontana da casa, dalla mia famiglia, in viaggio verso un luogo di cui conservavo a malapena il ricordo… era ovvio che fossi provata. L’ansia era solo un effetto collaterale.

    Tirai un sospiro.

    Era così ingiusto. Perché non potevo essere un’adolescente qualunque, senza protesi e tutto il resto? Avevo accettato l’imposizione dei miei genitori, senza ricordare loro che ormai avevo diciotto anni e che la frase finché vivrai sotto il nostro tetto aveva smesso di funzionare da un pezzo. Dunque, perché non mi ero opposta?

    Probabilmente perché ero stanca. Avevo perso i miei sogni, ogni cosa… avevo smarrito la bussola. Il destino mi aveva scaraventata a Cork. Non avevo scelta, se non accettare l’inevitabile morte sociale a cui mi avrebbe sottoposta quell’isola infernale.

    Improvvisamente, qualcosa distrasse la mia attenzione.

    Nell’oscurità gelida della notte, con la coda dell’occhio intravidi un bagliore strano. Era troppo basso per essere il riflesso della luna e troppo sfavillante per essere un lampione. Fuori posto, come una bolla magica allineata a noi, conduceva lo stesso percorso alla medesima velocità.

    Stropicciai gli occhi, sbattendo più volte le palpebre, pensando che fosse una sorta di visione prodotta dalla stanchezza. Quella luce brillante, distante qualche chilometro dalla strada, continuava a volteggiare tra gli alberi come una gigantesca lucciola incandescente.

    Quando l’auto del signor Mackintosh frenò stridendo sulla ghiaia, nello spiazzo antistante la casa della nonna, la luce si spense all’unisono con il motore.

    Rimasi perplessa, ma non osai domandargli se avesse visto la stessa cosa.

    Aprii la portiera. L’aria fredda mi frustò le guance e il naso. Mi strinsi nella giacca a vento, lanciando un’occhiata all’ampio tratto boschivo che circondava il vialetto. Era tutto così… verde.

    Un’ondata di nostalgia mi travolse. Mi mancavano i grattacieli. Mi mancavano i miei genitori, mio fratello, la mia casa.

    Cork non era il posto giusto per me.

    Una donnina dai capelli candidi come la neve uscì nel portico illuminato, strofinandosi le mani nel grembiule giallo che portava legato alla vita. Il suo viso, avvizzito come un’albicocca, con rughe profonde intorno agli occhi e alla bocca, si illuminò di un sorriso radioso.

    «Finalmente siete arrivati! Ero un po’ in pensiero, Arcibald». Posò gli occhi grandi e caldi, gli stessi occhi di mio padre, su di me. «Selva, tesoro, è una gioia riaverti qui con me», mi disse con un sorriso.

    Le andai incontro. «Ciao, nonna».

    L’abbracciai e lei mi scostò da sé per guardarmi meglio. «Caspita! Sei diventata proprio una signorina. Da quanto tempo non ci vediamo?».

    «Un bel po’, direi». L’ultima volta che ero tornata in città era l’estate dei miei quindici anni. Dopo esserci trasferiti a New York non avevamo trovato che rare occasioni per andarla a trovare. E questo, più che mai in quel momento, mi dispiaceva.

    «Entriamo, che qui fuori fa fresco. Arcibald, vuoi unirti a noi per una tazza di cioccolata calda?», chiese cortesemente al signor Mackintosh.

    «Ti ringrazio, Luise, ma devo proprio andare», rispose lui, mentre depositava a terra i miei bagagli.

    «Allora ci vediamo domani alla solita ora».

    «Come sempre». Salutò entrambe e innestò la retromarcia, lasciandoci sole.

    La nonna mi prese sottobraccio. «Vieni, ti mostro la casa. Sono cambiate tante cose da quando vivevi qui!». Un sorriso caldo si aprì sulle sue piccole labbra paffute.

    La casa era davvero cambiata: un piccolo cottage di sei stanze, molto semplice, più vecchio di come lo ricordavo. Posai la borsa vicino alla lunga scala di legno che conduceva ai piani superiori. La scala affiancava un salotto completo di camino, divano, due poltrone e un tavolino di vetro. Al centro della parete regnava una porta-finestra che dava sul patio. Il corridoio stretto, tra il salotto e le scale, conduceva alla porta sul retro.

    Seguii la nonna in cucina. Era una stanza ovale, con pesanti travi a vista sul soffitto e un’efficiente penisola color avorio circondata da alti sgabelli di legno. Le pareti, tra un pannello e l’altro, erano dipinte di verde. Sotto le tre finestre ad arco erano disposte delle mini panche a muro, sommerse di cuscini e ricoperte da una soffice moquette blu.

    Guardai al di là del vetro, scostando le tende pallide. Da lì si poteva scorgere il vialetto principale, in lontananza i lampioni stradali e il bosco che attorniava il cottage. La vegetazione rigogliosa si estendeva per chilometri e chilometri… Era il rifugio perfetto per passare un po’ di tempo da sola, praticare trekking per tenere in esercizio la gamba e fare lunghe passeggiate. Non avrei stravolto le mie abitudini soltanto perché il verde della foresta aveva sostituito i grattacieli, e il cottage preso il posto dell’appartamento di New York.

    La novità peggiore, tutto sommato, era che stavo già pianificando come trascorrere il mio tempo lì anziché scappare.

    La nonna attirò la mia attenzione, piazzandomi in mano una tazza colma di cioccolata calda, densa come budino. Il che mi ricordò il signor Mackintosh.

    «Lo conosci da tanto?», chiesi, montando su uno sgabello. Assaggiai il cioccolato liquido cosparso sul cucchiaio.

    «Chi, Arcibald? Oh, sì». Sorrise. «Era molto amico di tuo nonno. Erano entrambi appassionati di pesca sportiva. Ora è il mio factotum. L’ho assunto per farmi da autista e per svolgere altre piccole mansioni che, purtroppo, non riesco più a sbrigare da sola».

    «Non sono stata gentile quando è venuto a prendermi all’aeroporto». Mi rammaricavo del mio comportamento. Il nervosismo aveva prevalso sulla buona educazione. Speravo non diventasse un’abitudine.

    Anziché rimproverarmi la nonna mi guardò con dolcezza. «Avremo altre occasioni per rivederlo e di sicuro troverai il modo per farti perdonare. Ora devi risposare, sarai esausta. Ho preparato per te la camera che i miei figli dividevano da ragazzi. Spero ti troverai a tuo agio. Se ti serve qualcosa, lo sai, non devi fare altro che chiedere».

    «Non preoccuparti, nonna. Ho tutto il necessario con me», la rassicurai.

    Mezz’ora dopo ero sdraiata sul vecchio letto di mio padre, nella mansarda che profumava di muschio. La mia stanza era minuscola. Le pareti erano dipinte di azzurro, così come il soffitto. C’era un doppio letto a cassapanca addossato al muro, un armadio e una scrivania con una sedia girevole. I cuscini erano nuovi, così come le lenzuola. Tutti i mobili erano di legno scuro, tranne la scrivania. La finestra di fronte al letto dava a ovest, sotto a un’altra, a forma d’arco, che sembrava disegnata nel muro.

    Il tutto aveva un aspetto gradevole, se mi sforzavo di guardare i post-it con Parigi, Atlanta e Phoenix (riconoscevo la firma di mio padre in quei reperti scoloriti, un accanito viaggiatore), il parquet pieno di graffi e l’arredamento antiquato, con occhi positivi. O di ignorare i vetri consunti e le abat-jour vecchie di secoli.

    Nell’angolo della stanza, vicino al comodino, c’era una libreria a muro con una sfilza di libri sui fantasmi, tutti di autori diversi. L’Irlanda era la terra natia di quelle leggende.

    Prima di spegnere le luci mi alzai e ne sfilai uno, riconoscendone la copertina blu. Era proprio quello che mi leggeva sempre il nonno, da piccola, perché era il mio preferito.

    Seduto nel portico su una vecchia sedia a dondolo, con me sulle ginocchia che lo guardavo adorante, mi narrava le vicende contenute nella storia senza stancarsi mai, con la pazienza di chi ti vuole davvero bene dal profondo del cuore.

    «Nonno, quando sarò grande io voglio sposarti», gli dicevo, con l’innocenza tipica dei bambini.

    Lui sorrideva, carezzandomi dolcemente la fronte. «La tua proposta mi lusinga, Selva. Ma credo che per allora io non ci sarò più, perciò dovrai trovare un sostituto adeguato».

    «Perché, dove sarai?».

    «Vedi, tesoro, i nonni invecchiano e si stancano molto. Così, ad un certo punto, quando sono sicuri di aver vissuto un’esistenza ricca e felice, vanno in un posto dove possono dormire quanto vogliono e non sono più scocciati da nessuno. Soprattutto dalle nonne come la tua, che è una gran rompiscatole quando ci si mette!». Rideva, facendo una faccia buffa, imitando l’espressione della nonna quando lo rimproverava.

    «Allora sposerò lui». Puntavo il ditino al centro della pagina.

    «Un fantasma? Hai dei gusti originali. Non ti fanno paura?».

    «No, mi piacciono, ma non so dove trovarne uno». Mi lagnavo.

    Allora, stringendomi a sé, guardava in alto, verso il cielo estivo stellato.

    «Facciamo una cosa: ti prometto che quando sarò nel posto di cui ti ho parlato, farò in modo che lui ti trovi, e che si prenda cura di te al posto mio». Mi rassicurava, e io mi addormentavo serena tra le sue braccia.

    Richiusi il libro, sentendo salire le lacrime agli occhi.

    Se n’era andato così il nonno, addormentandosi su quella vecchia sedia, in un tiepido pomeriggio di primavera. Nelle settimane successive tutti piangevano, mentre io sorridevo tranquilla, giocavo e mi comportavo come se nulla fosse.

    Un giorno, mentre stavo terminando di colorare un disegno con i pastelli, mio padre mi aveva raggiunta con la scusa di aiutarmi a terminare l’opera.

    «Selva, non sei triste per il nonno?», buttò lì, passandomi il giallo per disegnare il sole.

    «No. Perché?».

    «Lo sai che ora lui è in cielo, vero?». Cercava di non mostrare il dolore che gli procurava pronunciare quelle parole. Aveva un tono basso e calmo.

    «Lui non è in cielo!», ero scattata, premendo con forza il rosso sul contorno di un fiore. «Stai dicendo una bugia! Io lo so. L’ho visto ieri sera».

    Papà aveva spalancato gli occhi, incredulo e sconcertato. «Lo hai visto?».

    «Sì! È venuto a leggermi le favole dei fantasmi».

    Non mentivo.

    Ancora oggi conservo il ricordo nitido della sua immagine, composta di fumo lucente, che attraversava la porta della mia camera. Si sedeva sulla sedia a dondolo e parlava con me: il nostro era un dialogo telepatico.

    Mi portarono da un neuropsichiatra infantile a cui raccontai le stesse cose. Consigliò ai miei genitori un cambiamento radicale, forse avrebbe fatto bene a tutti, così ci trasferimmo a New York.

    La notte trascorse senza sogni. Mi svegliai di colpo, disorientata, ma dopo poco ricordai dove mi trovavo e tornai a raggomitolarmi sotto le coperte.

    La nonna venne a svegliarmi di buon mattino, per comunicarmi che il signor Mackintosh ci avrebbe condotte in città a fare spese. Avrei voluto coprirmi la testa col cuscino, avvolgermi nel plaid e tornare a dormire. In cuor mio speravo fosse tutto un incubo, che mi sarei risvegliata nella mia stanza, a New York. Così avrei avuto la certezza di essermi inventata tutto.

    Ma siccome non potevo illudere troppo me stessa, controvoglia, mi alzai.

    Passai una mano nei capelli scompigliati, avvicinandomi alla finestra. Il sole era basso nel cielo opaco, la luce fioca non arrivava a illuminare le fronde degli alberi. Tirava un po’ di vento e la pioggia era in agguato dietro le nuvole. Diedi fondo all’ultima goccia di ottimismo pensando che con un po’ di fortuna il tempo sarebbe migliorato.

    Feci una doccia veloce. Mi presi un po’ di tempo per asciugare i capelli e districare tutti i nodi. Indossai un top grigio e i miei jeans preferiti, abbinando il tutto ad un paio di comode scarpe da ginnastica. Scesi in cucina e divorai una barretta ai cereali con un po’ di latte. Poi raggiunsi la nonna in salotto.

    Luise mi sorrise. «Pronta?».

    Sollevai il pollice. «Pronta», mentii.

    Il signor Mackintosh ci portò a Cork – la città distava solo pochi chilometri dalla casa di Luise – informandoci che sarebbe passato a riprenderci nel primo pomeriggio.

    Nell’aria c’era un tepore caldo e afoso, davvero piacevole. Inaspettatamente, il sole splendeva al centro esatto del cielo terso. Dovevano esserci quindici gradi, forse venti. Il tempo in Irlanda è mutevole e imprevedibile: le piogge e i temporali si alternano, senza alcun margine di previsione, a giornate limpide e assolate.

    Stavo leccando il mio gelato, passeggiando sottobraccio alla nonna, quando udii per la seconda volta il mio nome urlato a piena voce in fondo alla via.

    «Selva? Selva! Mio Dio, sei proprio tu!». Una ragazza bionda mi si precipitò addosso con la forza di una valanga, spiaccicandomi il cono sul top nuovo.

    Il mio primo impulso sarebbe stato quello di strangolare quella pazza che mi aveva appena rovinato la colazione, ma un violento, provvidenziale dejà vu, mi fermò giusto in tempo.

    «Lizze?», domandai, riconoscendo vagamente l’amichetta con cui giocavo da bambina.

    Il naso all’insù non era cambiato, il resto invece sì. Era più bassa di me di qualche centimetro e aveva lunghi capelli biondi che le ricadevano in un’onda delicata sulla schiena. Le iridi azzurre incastonate nelle palpebre olivastre, le labbra morbide che si aprivano su denti dritti, degni di uno spot dentistico.

    «Allora non mi hai dimenticata!», esultò Lizze con uno strillo acuto che mi trapanò i timpani.

    Come potevo? Solo lei gridava esultando come ad una partita allo stadio.

    Baciò la nonna su una guancia, mentre io mi tamponavo il colletto con un fazzoletto di carta.

    «Oh, ma è fantastico! Da quanto sei arrivata? Perché non mi hai telefonato? Ah, già! Non hai il mio numero…». Senza riprendere fiato estrasse un foglietto e una penna dalla borsa, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi. «Ecco, tieni. Dobbiamo assolutamente vederci! Ho un sacco di cose da raccontarti! Domani per te può andare bene?».

    «Io veramente…». Guardai la nonna, sperando in un aiuto che non venne. Sorrideva divertita.

    «Passo da te alle nove, così chiacchieriamo un po’. N’è passato di tempo, eh? Ti trovo super bene, davvero!». Mi abbracciò di nuovo, incurante del fatto che eravamo imbrattate di crema tutte e due. Poi se ne andò urlando: «Fantastico! A domani!».

    «Ho pronunciato per caso il monosillabo ?», chiesi alla nonna.

    Lei scoppiò a ridere. «Tanto non ti avrebbe lasciato parlare. Lizze Rodriguez è fatta così».

    «Sono fidanzata».

    Spaparanzata sul letto, sorbivo da due ore il monologo della mia amica d’infanzia. A parte il ritmo dei suoi bisogni fisiologici, ormai potevo dire di conoscere ogni particolare della sua vita avvenuto negli ultimi tredici anni.

    Erano le undici e pioveva. Lizze mi aveva promesso

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1