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L'amica perfetta
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E-book340 pagine4 ore

L'amica perfetta

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Info su questo ebook

Numero 1 in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Italia

Autrice del bestseller Ti sto guardando

Mentre sta viaggiando in treno con il marito, a chilometri di distanza da suo figlio Ben, di appena quattro anni, Sophie riceve un’agghiacciante telefonata. A chiamare è un’infermiera: due bambini sono arrivati in ospedale a causa di un tragico incidente. Uno di loro è Ben. Sophie pensava di potersi fidare di Emma, la nuova amica che si era offerta di badare a suo figlio. Fin dal primo momento, aveva percepito in lei qualcosa di affine, come se le loro anime fossero legate. E nonostante le dicerie e le maldicenze che giravano nella piccola cittadina su di lei, Sophie era certa delle buone intenzioni di Emma. Almeno fino a quella telefonata. Potrebbe aver compiuto un’imperdonabile leggerezza mettendo la vita di suo figlio nelle mani della persona sbagliata? In una drammatica corsa contro il tempo per fare ritorno a casa, Sophie sta per scoprire la verità. E la sua vita non sarà mai più la stessa.

Un’autrice da mezzo milione di copie vendute
Tra i migliori libri dell’anno per il Sunday Express

Pensava di potersi fidare...

«È come stare sulle montagne russe dalla prima all’ultima pagina.»

«Avvincente, toglie il fiato e non ti esce dalla testa finché non si arriva alla parola fine.»
Teresa Driscoll
Vive nel Devonshire e lavora come presentatrice televisiva per la BBC da oltre quindici anni. Forte di una lunga carriera da giornalista d’inchiesta, ha deciso di cimentarsi con thriller realistici e dal sapore amaro che analizzano l’impatto che un crimine ha sui familiari delle vittime. Ti sto guardando, il suo esordio nella narrativa, ha ottenuto un grande successo in Inghilterra, Stati Uniti e Australia ed è stato tradotto in sei lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788822728531
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    Anteprima del libro

    L'amica perfetta - Teresa Driscoll

    Capitolo 1

    Prima

    Ci eravamo conosciute un giovedì. Due figli. Due madri. Molto più tardi, e soprattutto su quel treno, mi sarei torturata chiedendomi il perché di tanta curiosità ed eccitazione, di tutto l’entusiasmo con cui mi ero così facilmente lasciata andare.

    Ma in quel momento non c’erano avvisaglie del futuro, delle conseguenze. In quel momento non sapevo che qualcuno sarebbe morto, e perciò mi sono persa nel trantran di una giornata talmente normale che in un momento critico del nostro incontro mi sono lasciata distrarre dalle radici di pastinaca.

    Ero andata alla fattoria a prendere delle uova e avevo portato con me solo la borsetta, ma mi avevano colpito le pastinache, così cicciute e sode. Ne avevo comprate troppe per quella busta di carta gratis ma leggera, e così ero arrivata nel caos della piazza con Ben in bilico su un’anca e le pastinache che cascavano da tutte le parti.

    Sulle prime non avevo notato il furgone del trasloco, ma solo il capannello davanti al pub, parecchi volti familiari che scuotevano tristemente la testa con l’aria di chi la sa lunga. Solo quando mi ero avvicinata, con altre pastinache che cadevano attraverso lo squarcio nella busta, avevo capito cosa stava succedendo.

    Non era la prima volta. Nei quattro anni trascorsi a Tedbury Cross avevo visto due incidenti identici, furgoni che infilavano troppo veloci la curva di fianco al pub e finivano incastrati tra il muro del locale e quello del cottage della povera Heather.

    La povera Heather era un’artista del moribondo varietà con un premio dell’assicurazione da capogiro. Quando, non più di un paio d’anni fa, aveva dovuto far ricostruire una parte notevole del muro della cucina, aveva gettato la spugna. Ma la minaccia dei camion era di dominio pubblico. Due possibili acquirenti si erano velocemente tirati indietro e, con i proprietari locali più preoccupati del degrado urbano che di una guerra nucleare, l’amministrazione comunale aveva lanciato un’enfatica quanto inutile campagna per la costruzione di una variante.

    «Oh, no!», «Non di nuovo!», borbottò la folla mentre mettevo alla prova i miei addominali cercando di recuperare le pastinache senza far cadere Ben. Fu solo quando mi rialzai che la notai. La mia immagine speculare. Una bella donna, una nuova arrivata più o meno della mia età, in una posa identica alla mia, con un bambino in bilico sull’anca.

    Era vestita completamente di nero con ballerine e accessori d’argento, una sciccosa di città che spiccava all’istante. Quando sollevò i grandi occhiali scuri squadrati dagli straordinari occhi azzurri, notai che Nathan, un architetto del posto e amico di famiglia, la fissava tirando in dentro la pancia e dovetti morsicarmi il labbro per non sorridere.

    «È suo il furgone?». Mi avvicinai mentre i nostri figli si scambiavano sguardi di timida curiosità.

    «Ho paura di sì. Non è un buon inizio, vero?». Il figlio nascose la faccia contro il suo collo e Ben fece la stessa cosa con me, fingendo entrambi di non spiarsi di nascosto. Molto divertente.

    Intanto, dall’altra parte della piazza, la gente gridava indicazioni contraddittorie al conducente del furgone temporaneamente imprigionato nella cabina incastrata tra i due muri.

    Gira tutto a sinistra…

    No. No. Prima deve raddrizzarsi. Vada avanti un pochino, e poi a marcia indietro.

    «Ci stiamo trasferendo a Priory House», disse la donna con una smorfia. «Almeno, questo era il programma. A proposito, io sono Emma. Emma Carter», aggiunse, allungando un braccio verso di me, ma suo figlio protestò dimenandosi, e così lei si scusò alzando le spalle e unì le mani per sollevarlo in una posizione più comoda.

    Le sorrisi. «Io abito giusto di fronte. Perché non vieni a prendere una tazza di tè? Mi chiamo Sophie e lui è Ben».

    «Molto gentile, ma non posso. Davvero. Devo dare una mano qui».

    «Fidati di me, questa storia andrà avanti per un bel pezzo. E ci sono già abbastanza cervelloni. È probabile che di qui a poco arrivi una troupe televisiva. Temo non sia la prima volta che succede. È in corso anche una campagna per risolvere il problema». La sua espressione cambiò e mi sentii un po’ in colpa. «Perdonami. Mi sa che ti ho spaventata, Emma. Sul serio, avete tutti e due l’aria di avere bisogno di staccare. Perché non venite da me? I bambini possono giocare insieme. Nessun disturbo».

    «Ma mi sento così responsabile».

    «Sciocchezze. Non è certo colpa tua. Coraggio». Mi spostai a sinistra per informare Nathan seminando pastinache, cosa che fece ridere di gusto Emma. Altre persone si girarono verso di noi e alcuni furono tanto premurosi da aiutarmi a raccoglierle, e quando ci incamminammo verso il nostro cottage sorridemmo tutte e due dell’assurdità della situazione.

    Quando aprii la porta, avvertii subito lo strano fremito che si sente in compagnia di un estraneo. Vidi come guardava diritto davanti a sé e mi ricordai cosa avevo provato alla vista di quel pavimento. A volte, quando torno dalle vacanze, mi sorprende ancora. Le lastre di pietra. Non il taglio preciso a rombo dei negozi eleganti che ogni tanto, nella nostra vita precedente, andavamo a visitare in città, ma questa testimonianza più dolce e dalle tinte pastello di una vita vissuta. Di un peso sopportato. Le pietre sono tutte smussate e lisce, i contorni consumati da centinaia di piedi per centinaia di anni, tanto che la prima volta che le ho viste ho avuto la tentazione di chinarmi ad accarezzarle facendo scorrere le dita su quelle superfici fresche e glabre. Ma ero troppo imbarazzata con l’agente immobiliare che sorrideva da un orecchio all’altro mentre Mark mi esortava a gesti a non mostrare troppo entusiasmo. È dannoso per la trattativa, Sophie.

    «Bella casa». Emma posò il figlio e gli riaggiustò i vestiti, prima di inginocchiarsi e passare il palmo della mano e poi le dita sul pavimento, percorrendo con un polpastrello le forme dei fossili nell’angolo di una delle pietre più grandi per poi sedersi sui talloni. Io mi bloccai.

    «Sono così invidiosa. Questo pavimento è semplicemente favoloso». Passò di nuovo le dita sulla stessa pietra, una delle mie preferite, e allora mi accorsi che le sue mani non si accordavano minimamente alla sua persona. Dita corte, unghie poco curate e secche, pelle a tratti ruvida. «È un gran peccato che molti di questi pavimenti siano stati sacrificati. A Priory House c’è la moquette, purtroppo. Avevo sperato che sotto ci fosse qualcosa d’interessante, ma quando ho controllato ho trovato solo cemento».

    «Sì, lo so». Ero un po’ disorientata, provavo uno strano fremito che non riuscivo a capire bene, così mi girai dall’altra parte, portai i bambini in cucina e diedi loro del succo di mela prima di abbassarmi per salutare il figlio di Emma fissandolo negli occhi.

    «Dunque tu come ti chiameresti, giovanotto?»

    «Theo. È l’abbreviazione di The-o-dore».

    «È un gran bel nome. Non avevo mai avuto l’onore di conoscere un The-o-dore». Rimarcai la rima ma non ottenni alcuna reazione, nemmeno il minimo accenno di un sorriso, così mi rivolsi a mio figlio. «Perché non mostri a Theo i tuoi giocattoli e giocate insieme, Ben? E ricordati che ho messo le batterie nuove nei trenini».

    Poi mi rialzai, e quella sensazione dimenticata ma non spiacevole di anticipazione e disagio diventò ancora più forte. Una sconosciuta. Un cambiamento. Una boccata d’aria fresca.

    «Dunque conosci Priory House? Ah, ma cosa dico… probabilmente conosci tutte le case del tuo paese, vero, Sophie?»

    «Scusa, è meglio se non ti siedi lì. Peli di gatto. A proposito, caffè o tè?»

    «Tè, grazie. Così poi per ringraziarti posso leggerti le foglie. Oddio, guarda!». Era in ginocchio sulla panca accanto alla finestra. «Adesso c’è qualcun altro che sta entrando nella cabina del furgone. Si è infilato nel finestrino. Ti pare una buona idea?»

    «Se è un contadino, è un’ottima idea. Quelli sanno manovrare un TIR anche con un dito. Scusa… non ho sentito. Cosa dicevi del tè?».

    Emma si girò verso di me. «Il mio numero ai party. Leggo i fondi del tè. L’ho imparato da mia nonna. Leggo anche la mano. Non sei una scettica, vero?». Poi, vedendomi aggrottare la fronte, aggiunse: «Scusa, Sophie. Ti ho messa in imbarazzo».

    «Nient’affatto». Una bugia. «D’accordo, sì, lo hai fatto. A essere sincera, temo di avere solo tè in bustine».

    Mentre cominciavo a cercare in uno dei pensili, lei scoppiò a ridere.

    «Mi sta bene comunque, tranquilla. Non darti pensiero, più forte è meglio è. Comunque, dicevo sul serio sul fatto che leggo le foglie. Possiamo farlo un’altra volta». Poi si voltò di nuovo verso la finestra. «Scusa… hai detto qualcosa su una troupe televisiva?»

    «Più che probabile. Questa storia dei camion e di quella strettoia è diventata una specie di saga. Dipende da quanto resterà incastrato e da quanto tempo possono dedicargli quelli della TV. Ma se è intervenuto un contadino, potrebbe risolversi tutto prima che si muovano». Smisi di fingere di cercare, sapendo benissimo di non avere tè sfuso, e lasciai cadere tre bustine in una teiera di porcellana, tirando indietro la testa per evitare il vapore dell’acqua che versavo dal bollitore.

    «È stato molto gentile da parte tua venire a soccorrere me e Theo. A Streatham non sarebbe successo».

    «Dunque è da Londra che arrivi».

    «Non direttamente. Via Francia, per la verità. Ci ho passato qualche mese da mia madre».

    «Oh, capisco».

    «Ne dubito. È un po’ complicato. Non c’è un signor Carter, nel caso te lo stessi chiedendo. Non c’è mai stato. Spero che questo non crei qualche complicazione. Per Theo, intendo, in un paese così piccolo».

    «Ma figurati». Sentii il sangue salirmi alla testa mentre andavo a posare sul tavolo la teiera e due delle nostre tazze più belle. «Dunque… qualche mese in Francia? Dev’essere stato piacevole».

    Ed ecco che Emma mi colse di nuovo di sorpresa, una smorfia mal celata, con quegli splendidi occhi che si girarono per un istante mentre giocherellava con i lunghi capelli bruni. Una strana e inattesa crepa nel suo atteggiamento sicuro.

    Stava prendendo tempo, e provai pena per lei nel notare il suo improvviso disagio mentre allungava volutamente lo sguardo verso la stanza dei giochi, dove i bambini erano sdraiati sul pavimento ad agganciare vagoni alle motrici su binari paralleli. Li guardammo, e io aspettai.

    «Mi sembra che se la intendano. Theo era preoccupato per il trasferimento. Anch’io, per la verità, ma credo davvero che qui mi troverò bene», aggiunse Emma, ritrovando la propria sicurezza. Un sorriso la illuminò, non solo la bocca ma anche gli occhi, e in quel momento mi accorsi delle minuscole pagliuzze verde e nocciola sullo sfondo azzurro delle sue iridi. Un particolare così insolito da mettermi di nuovo in difficoltà con quel miscuglio di sensazioni strane e inaspettate. Curiosità e qualcos’altro.

    Qualcosa che in quel momento non riuscii a identificare.

    Oggi, ore 16:30

    Allora, a cosa serve di preciso una milza?

    Guardo dal finestrino frugando nell’archivio della mia mente in cerca di una lezione di biologia o di uno stralcio di documentario che possa aiutarmi, ma non trovo niente e ricordo invece la donna seduta poco distante con quella bambina pestifera… e l’iPhone.

    Passa meno di un minuto prima che mi ritrovi in piedi nel corridoio accanto a lei. «Scusi l’intrusione, non mi sognerei mai di disturbarla se non fossi assolutamente disperata, ma ho bisogno di controllare una cosa e con il mio telefono non ci riesco. Sono pronta a pagare».

    «Prego?»

    «Posso prendere in prestito il suo telefono? Per favore. Solo per un minuto. È per mio figlio. Ha solo quattro anni».

    «Suo figlio ha quattro anni e ha già un cellulare?», chiede lei in tono di stupita disapprovazione.

    «No, no. Non mi sono spiegata bene. Non voglio chiamarlo al telefono. Ho bisogno di un’informazione su di lui. Si è fatto male e… senta, sono mortificata di trovarmi in questa situazione». Devo interrompermi perché mi si bloccano le parole in gola e le sto dicendo con gli occhi: Non osare farmi domande. «Senta, sono disperata. Questo è il mio telefonino e non ho connessione dati». Le mostro il mio apparecchio, un modello vecchio e ingombrante.

    «Ah, certo, ho capito. Naturalmente». Abbassa gli occhi sulla figlia che sta colorando una fatina con un pennarello di un rosa rivoltante. «Nessun problema, ecco qui». Tocca il display, preparando il telefono per me… e io mi sforzo di nascondere la mia invidia nel vedere la bambina che le siede accanto sospirando annoiata.

    Al sicuro.

    «Le sono davvero grata. Faccio in un lampo».

    Cinque minuti dopo sono di nuovo al mio posto a osservare le parole che mi ballano davanti agli occhi.

    …un elemento integrante del sistema immunitario.

    La milza, come temevo, è importante. Un organo a forma di pugno che si trova sotto la scatola toracica e sopra lo stomaco. Prendo appunti sul mio taccuino. La pagina web dice qualcosa sui sistemi di filtraggio. Piastrine e globuli rossi e bianchi. Se non hai la milza sei esposto a un rischio più alto di infezioni, per cui è possibile che tu sia costretto a prendere penicillina o altri antibiotici tutti i santi giorni…

    E mio figlio ha solo quattro anni.

    Al telefono è stata l’infermiera a lasciarsi sfuggire la possibilità di un intervento. Poi ha fatto marcia indietro, ha detto che non avrebbe dovuto parlarmene prima che il primario avesse preso una decisione e prima che avessero stabilito chi era chi dei due bambini…

    All’improvviso mi è venuta una gran nausea. Il ribrezzo che mi desta la parola milza mi fa sentire debole, patetica e non all’altezza del sostegno di cui ha bisogno mio figlio. Chiudo gli occhi e spero con tutto il cuore che sia la milza del suo amico quella posata sul vassoio d’acciaio di fianco al lettino in sala operatoria, ed è una cosa brutta e crudele, che mi fa provare vergogna, ma non riesco a impedirmelo perché è questo il senso della maternità.

    Mio figlio. Il mio bambino.

    E in questo momento, su questo maledetto treno, non riesco a pensare ad altro.

    Capitolo 2

    Prima

    L’ironia più crudele? Ho voluto che ci trasferissimo in campagna perché pensavo che sarebbe stato più sicuro.

    Idea mia, non di Mark. Sono stata io a insistere.

    Nei primi due anni del nostro matrimonio abbiamo amato Londra senza riserve. I teatri. I ristoranti. I ponti. Il rumore di fondo.

    Ci eravamo calati nel cliché di un appartamento nella zona nord, con i piani di lavoro in marmo nero, i divani bianchi di quelli in cui si sprofonda e i regolari scippi davanti al kebabbaro del quartiere.

    Il nostro era il sogno metropolitano, all’inizio adorato e poi in ugual misura detestato da una cerchia di amici passata senza soluzione di continuità, di gravidanza in gravidanza, dall’iniziale piacere per le stazioni della metropolitana e la cucina esotica sotto casa all’insofferenza per l’eccesso di criminalità, gli spazi troppo ridotti e lo stato della scuola pubblica locale.

    Nel tumulto generalizzato della tempesta ormonale, tutti i nostri amici sorpresero se stessi e gli altri imboccando vite completamente diverse: Ryan ed Elaine presero in gestione un complesso turistico in Francia, Sally e Eden occuparono posti di insegnamento in Nuova Zelanda, Hermione e Ian si trasferirono in un’aborrita periferia, Simon e Stella affrontarono una causa di divorzio.

    Dopodiché era toccato a noi. «Mark, Londra non è un posto adatto per una famiglia. È troppo pericolosa».

    «Non dire sciocchezze, Sophie. È perfetta per una famiglia. Pensa a tutti i musei».

    «Noi non mettiamo mai piede nei musei, Mark. E sto dicendo sul serio. Hai visto la scuola del quartiere? I coltelli sembrano far parte del materiale didattico».

    «Lo manderemo in una scuola privata».

    «Noi non crediamo nelle scuole private».

    «Nel post-partum un po’ d’ipocrisia è consentita». Eravamo nella cucina bianca e nera del nostro nuovo e scomodo appartamentino e lui mi guardava il pancione di cinque mesi.

    Il piano di Mark era molto semplice. Avremmo traslocato in un appartamento più grande con giardino e impianto antintrusione.

    Mi ci vollero poche settimane per farlo desistere con una spudorata campagna a base di filetti al sangue da uomo delle caverne e una razione incalcolabile di sesso orale.

    «In campagna mi sento più sicura, Mark. Una persona diversa. Più cucina casalinga, meno stress. È ciò di cui ha bisogno il piccolo. Ciò di cui abbiamo bisogno noi».

    Così, mentre Mark continuava ad auspicare un trasferimento in un sobborgo residenziale, io mi dedicai alla nostra totale reinvenzione. Se dovevo accettare la sospensione della mia carriera per amore della famiglia, lo avrei fatto con tutti i crismi. Mi ero innamorata del Devon da bambina e immaginavo ottimisticamente che Mark avrebbe potuto trasferire il suo lavoro a Exeter. O a Bristol, nel caso peggiore.

    «Ma sei matta, Sophie? Il Devon? Hai idea di quanto mi ci vuole a venire a lavorare dal Devon? Ci vedremmo soltanto nei fine settimana».

    Poi cominciarono ad arrivare le brochure, a scivolare attraverso la fessura della cassetta per la posta del nostro appartamento di Londra: i tetti di paglia e i fienili, l’incanto di prati verdi, amache e passeggiate con i lama. Senza contare il golf. Così, mentre la mia pancia cresceva, la resistenza di Mark si allentò ed entrambi mettemmo gli occhi su Tedbury.

    Villaggio dell’anno con una chiesa del XIII secolo e un pub, un negozio e una scuola elementare, Tedbury offriva il raro bonus di una piazza tradizionale con sei magnolie che ogni primavera, per un breve periodo, lasciavano cadere coriandoli rosa sui residenti che vi si recavano di prima mattina per portare a spasso il cane e la sera per parcheggiare l’auto.

    In campagna sarò felice. Lo so, Mark.

    Quella frase mi tornò in mente, facendomi rigirare nel letto, la notte dopo l’incontro con Emma.

    Tutta quella noia e quella frustrazione erano al cento percento colpa mia.

    Me n’ero andata da Londra sognando proprio questa vita, eppure nel momento in cui lasciai il posto dirigenziale di copywriter in un’importante agenzia pubblicitaria… sì, ci avete preso… ci rimasi male. E quando strinsi tra le braccia il figlio tanto desiderato in preda a una colica, mi ritrovai a pensare: Ma cosa mi è venuto in mente?. Rimpiansi l’ebbrezza della grande città, il Mind the Gap delle stazioni della metropolitana. E questo non fece altro che accrescere il mio terribile e doloroso senso di colpa nel vedere Mark fare avanti e indietro tutti i giorni in autostrada.

    Lui cercò di condividere il mio rimorso. Aveva in programma di trasferire il lavoro, ma poi si rassegnò. Ero stata io, però, quella che aveva sbagliato i conti.

    Ero stata io a non calcolare la volpe che mangiava le galline, la legna umida che non prendeva fuoco, le nuvole cariche di pioggia che si incollavano alle colline come fiocchi di cotone all’albero di Natale. E il fatto che il figlio numero due si sarebbe rifiutato categoricamente di manifestarsi, prolungando la mia sospensione dal lavoro in un limbo solitario e interminabile.

    Passava qualche mese e riaffiorava sempre lo stesso pensiero: Torna al lavoro, Sophie… il secondo figlio non arriva. Ma poi l’idea veniva rintuzzata da un ritardo del ciclo. Una settimana di palpitazioni. Due. Sognando. Sperando. E poi sempre la stessa sconfortante delusione…

    «Allora, che tipo è?».

    Aprii gli occhi e vidi Mark appollaiato sul letto.

    «Che tipo è chi?». Lì per lì ero confusa, la sera prima non lo avevo sentito arrivare.

    «Non mi stavi ascoltando, Sophie?».

    E ora, sentendomi di nuovo in colpa, mi chiesi cosa fosse successo al mento di Mark. Una volta aveva un bel mento. Che fine aveva fatto?

    Anche alle altre mogli succedeva lo stesso? Dopo un po’ guardavano il marito e pensavano: Mio Dio. Ma ha sempre avuto quella faccia?.

    «Scusa. Scusa. Ero ancora mezzo addormentata. Cosa dicevi?»

    «Ti ho chiesto della donna misteriosa di cui tutti parlano al pub».

    «Al pub?»

    «Quando sono rientrato eri già a letto che dormivi».

    «E così sei andato a farti un cicchetto».

    «Tre». Mi baciò sulla fronte e me ne diede conferma soffiandomi un alito che sapeva di birra. «Ma questa settimana ho concluso un nuovo contratto grazie al quale potrai continuare la tua vita fatata. Sono andato a festeggiare. C’era Nathan, e non ha fatto altro che parlare di un furgone che ieri è andato a incastrarsi contro il muro di Heather e di una misteriosa donna che evidentemente l’ha molto colpito. Pensa che sia una cantante jazz o che so io. Dice che tu l’hai salvata e vuole che mi racconti tutta la storia prima che ci vediamo al golf».

    «Non mi dirai che vai a giocare di nuovo a golf con Nathan?»

    «Allora, sentiamo un po’. È veramente una celebrità?».

    Ripassai mentalmente la nostra conversazione. L’ora che avevo trascorso con Emma era stata molto gradevole, ma non aveva mai menzionato la musica. Per la verità, non c’era stato nessun accenno al lavoro, e a me andava benissimo così.

    «Io non l’ho riconosciuta. E lei non mi ha detto niente».

    «Ah, sei una frana. Faccio il caffè».

    «È un tipo particolare, questo sì. Affascinante, ma con un che di new age alla Totnes. Voleva leggermi non ho capito bene cosa… Deve avere una nonna rom. Ma mi piace, potrebbe essere la persona giusta per questo posto. Però è troppo perbene per Nathan. Dovrò metterla in guardia».

    In onore di Totnes, la cittadina poco distante da noi che rappresentava ancora uno strano portale su un ancor più strano passato, Mark fece uno scherzoso segno hippie di pace.

    «È sicuro che sia una cantante?»

    «Un nome importante sulla scena jazz, a quanto pare. È stata ospite di Jules Holland. Ma a te la musica non interessa più di tanto».

    «Invece sì».

    «No, non è vero. E lascerei stare Nathan».

    Lo fissai con le sopracciglia inarcate. Mark alzò le mani. «D’accordo. Caffè».

    Mark scomparve chiudendo la porta e io chiusi di nuovo gli occhi e ascoltai i passi di Ben. Poi sentii Mark che sollevava nostro figlio in aria, rumori di aeroplani e risa infantili. E sorrisi ricordando perché lo avevo sposato. Papà sa preparare la colazione. Papà sa fare gli aeroplani. Papà sa…

    E poi, all’improvviso, Mark mi svegliò per la seconda volta, non so se dieci minuti o un’ora dopo. In piedi vicino al letto, reggendo un vassoio, mi fissò con un’espressione dubbiosa. Oltre al caffè con la schiuma, che confermava una riluttante battaglia con la macchina dell’espresso, c’erano il giornale, un mazzolino di fiori e, misteriosamente, una scatoletta di tè Darjeeling. Una scatola verde scuro con scritte in oro. Ottima qualità. Foglie intere.

    «Fiori?»

    «Prima che tu mi dica non avresti dovuto, sappi che io non c’entro nulla. Erano davanti alla porta di casa, insieme al tè. Mi spieghi?»

    «La nostra nuova cantante».

    «Tè?». Guardò il regalo con una smorfia, ma io decisi di lasciarlo sulle spine, mi strinsi nelle spalle e risistemai i guanciali.

    Un’ora dopo, fresca di doccia e vestita, scesi accolta dai rumori di qualcuno che rovistava nello stipo sotto la scala. Era Mark che cercava il suo equipaggiamento da golf. Una cosa strana e del tutto inutile, visto che la borsa era in garage. L’avevo visto lasciarla lì il fine settimana precedente, dicendo che così infilarla nel bagagliaio dell’auto sarebbe stato più comodo.

    Ascoltai in silenzio una serie di tonfi seguiti da un’imprecazione. Misi i fiori nell’acqua e invitai sottovoce Ben a prendere le scarpe.

    «Scusa? Cos’hai detto? Non trovo la mia roba da golf». La voce di Mark dagli abissi dell’armadio fu seguita da uno schianto di vetro infranto e da un sinistro silenzio.

    Infilai velocemente la giacca a Ben e lo spinsi fuori dalla porta.

    «Prova in garage, tesoro. Ci vediamo dopo».

    Il tragitto fino a Priory House fu esattamente come avevo temuto, del tutto familiare e al tempo stesso del tutto nuovo. Lo scricchiolio della ghiaia, il profumo dei fiori selvatici che stavano sbocciando, il muggito irritato di una

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