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La Fortezza
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E-book316 pagine4 ore

La Fortezza

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Info su questo ebook

Durante la Grande Guerra alcune reclute vengono trasferite in una caserma periferica, lontana dalla prima linea, sulle rive del Piave. Il prezzo da pagare per evitare i pericoli del fronte è quello di ubbidire all’ossessione del colonnello Alfieri di voler costruire una vera Fortezza per pareggiare un suo antico e inconfessabile debito di guerra, a qualsiasi costo. I lavori procedono con fatica tra insoddisfazione, incidenti e sabotaggi, in un equilibrio instabile, dove nulla è come appare e che si rompe solo al crollo del fronte a Caporetto. Da quel momento, le giornate di soldati e ufficiali vengono scandite dall’attesa del nemico e dal rumore dell’esercito austro-ungarico che avanza, mentre termina l’illusione di essere lontani dalla guerra. L’inganno della Fortezza stessa, e delle persone che la abitano, diventa chiaro a tutti. Italiani e austriaci.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289061
La Fortezza

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    Anteprima del libro

    La Fortezza - Nicola Pera

    sacrée

    Prologo

    Si è lasciato cadere sopra uno dei cuscini, accanto alla tovaglia costellata di briciole e bicchieri di carta, stesa sopra all’erba della golena.

    Ho rialzato subito la testa. Non sembrava arrabbiato per la mia assenza.

    «Dormivi? Si sta bene qui, no?»

    «Ti diverti?»

    Qualcuno più vicino alla riva gli ha urlato di sbrigarsi.

    «Vengo, ragazzi. Bevo giusto un sorso.»

    «Ti chiamano a giocare.»

    «Due calci, tanto per muovermi. Ma tu potresti almeno fingere di volerci stare, in compagnia.»

    «È una bella giornata» ho provato a dirgli.

    «Appunto, è una bella giornata, una delle prime quest’anno. Non eri stufa di stare in casa? Hai una faccia...tutte le altre sono laggiù, insieme ai bambini.»

    «Le vedo.»

    «Voglio dire, sembra che tu ce l’abbia con tutti.»

    «Sto bene...»

    «... ma?»

    «Ma cosa?»

    «Eddai, fallo per me, anche agli altri piace stare qui e domani ricomincia la settimana.»

    «Ecco, forse è proprio il qui che non mi piace...»

    Ha alzato gli occhi al cielo, come se dovesse parlare con una povera demente.

    «Tu non capisci.»

    «Capisco che non ti sta mai bene nulla, nemmeno una gita con gli amici.»

    «Sul fiume.»

    «Sì, sul fiume, come tutti. La vedi questa gente? Siamo tutti qui e quello che scorre laggiù è proprio un fiume.»

    «Non c’è bisogno di alzare la voce. Poi mi passa, lo sai.»

    «Ricominci con la solita lagna? Meglio se torno a giocare.»

    «Non vuoi mai che ti spieghi cosa sento.»

    «Qualcuno che chiama? Sì, ecco, pieno di gente qua sotto, eh? Senti, facciamo che finisco la partita e torniamo a casa, così le voci le sentiamo alla televisione.»

    Quando finalmente se ne è andato, ho dato un’occhiata ai bambini, stavano giocando e mi potevo nuovamente allungare sulla tovaglia, lasciando che la testa si appoggiasse sull’erba. Il mondo al contrario si mostrava dietro agli steli verdi, profumati, e più in giù, sotto di me; la golena si allargava in un prato scuro, ingrassato dall’acqua che scorreva vicina, rallentando per gorgogliare dentro qualche buca.

    Se giravo gli occhi, vedevo una collina ancora boscosa, tagliata nell’azzurro del cielo e quello che rimaneva di un muro di cinta, trapuntato da rugginosi ferri ritorti. Un vento tiepido mi accarezzava, ricco dei suoi ronzii e il sole pomeridiano riscaldava l’erba che sentivo vibrare sotto di me.

    Mi sembrava di distinguere qualcosa che gli altri ignoravano, come se lo riconoscessi. Qualcosa che veniva su, attraverso la terra, per chiedermi aiuto. Un coro antico, voleva raccontare una storia interrotta troppo presto.

    E io ho chiuso gli occhi per ascoltarla.

    Parte prima

    L’arrivo

    1

    Mi chiamo Carlo Gottardi, per ore ho guardato fuori dal finestrino, come tutti, premuto sul sedile di legno della terza classe. La fronte appoggiata al vetro, il mio respiro disegnava sotto il naso un alone umido e opaco. La campagna scivolava via, l’odore di carbone bruciato passava dai finestrini aperti senza andarsene mai e si univa a quello del sudore. Non avevo voglia di parlare con gli altri e nemmeno di fumare, avevo fatto una scelta e se andava tutto in malora l’avrei pagata cara. Sapevo che la cartolina precetto poteva arrivare da un momento all’altro e in casa ho raccontato che tornavo a Milano, per un esame.

    Alla partenza mia madre ha acceso una candela sotto la piccola immagine della Madonna che teniamo in corridoio, come faceva sempre per proteggere un mio viaggio. Mio padre era fuori a seguire la sua condotta.

    «Dite una novena per me» le ho chiesto già sulla soglia. Sentivo pietà per la pena che le lasciavo oppure volevo che capisse che disertavo dagli austriaci e se mi avessero riconosciuto non avrebbe più riabbracciato suo figlio. Avrei fatto la fine del disgraziato che un anno fa hanno trascinato per il paese, prima di condurlo a Trento e farlo fucilare.

    E lei ha chinato la testa.

    Sono Carmine Lombardo e per me è molto meglio farsi ammazzare che essere schiavi. Schiavi a spaccarsi la schiena dalla mattina alla sera per coltivare una terra che non è nostra. È come essere delle bestie, prigionieri della vita degli altri, porcoddio. Mia madre si era raccomandata di mettere il vestito buono prima di andare dal padrone, quello che si usava per la messa. Quel bastardo ci aveva ricevuto nella sua villa, davanti agli ospiti durante il desinare ed eravamo guardati come animali selvatici.

    Quando mio padre gli ha detto che dovevo partire, con il cappello in mano e gli occhi bassi come se si vergognasse, il padrone non era contento.

    «Chi me li fa i lavori adesso, eh? Tu sei vecchio, non basti, non sei più buono.»

    Lui ha mormorato che mi avevano richiamato in guerra e dentro provavo la vergogna di vederlo chinare il capo per paura di perdere il lavoro. Padre vaffanculo. Dovevi prendere la vanga e spaccargli la testa. Da giovane eri forte, non avevi paura di nulla, mi battevi con delle mani dure come il legno e quando parlavi si voltavano tutti a sentirti. Cosa ti è successo?

    Poi il padrone ha fatto un gesto per farlo zittire dai suoi piagnucolii, per umiliarlo gli ha urlato di sbrigarsela da solo, anche senza di me e che lui non poteva farci nulla.

    Quando ho sentito che si scusava, che diceva di avermi tirato su fino a ora e adesso che aveva bisogno di me, lo Stato mi portava via, ho provato dentro una rabbia sconosciuta. Se solo avessi avuto in mano il fucile che mi daranno oggi lo avrei scaricato addosso a tutti e due. Meglio morire che tornare laggiù oppure, se devo tornare, la risolveremo in un altro modo.

    Lo giuro.

    Faccio il maestro di scuola, mi chiamo Enrico, Enrico Canepa. La tempesta ha girato per un anno senza farci male, sentivamo il rumore dei tuoni che scuotevano l’aria di mezza Europa e poi è arrivato anche il nostro turno.

    Nel vagone era tutto un vociare, molto più composto rispetto alla partenza, quando c’era stato chi aveva provato anche a ridere e scherzare e si cercava di vincere l’inquietudine con le parole. E se ne dicevano tante, ma non erano già più quelle dei nostri vent’anni, come se poche ore di viaggio ci avessero cambiato. Il tempo trascorso e lo scuotere regolare del treno sulle giunture dei binari avevano finito per calmarci, oppure era stata la nostra immaginazione a prendere il sopravvento e cominciavamo ad avere paura davvero. Io pensavo a quello che avevo detto ai miei scolari quando chiedevano della guerra, spiegavo che l’Italia avrebbe dovuto schierarsi, prima o poi.

    «Perché maestro?»

    «Per riconquistare il proprio territorio, quello che la natura ci aveva dato.»

    Loro non capivano, era normale, erano così giovani. Da Genova ero montato sul treno con un altro paio di reclute che poi ho perso nella confusione. Arrivati a Bologna ci hanno radunati e spedito verso l’Adriatica e poi a nord. A ogni nuova fermata, alla spicciolata, salivano altri ragazzi come noi, con sacche piene di vestiti da cui tiravano fuori gamelle con il pranzo e mescolavano l’odore ferroso del treno con mille sapori diversi. Venivano da tutta Italia, parlavano in tanti modi, erano uguali a me: anche loro giovani e incerti, spaventati e spavaldi.

    Io sono Pasquale Santoro. Prima di partire mio padre mi ha detto che non si va in guerra senza paura. L’importante è rimanere uomini, aveva aggiunto; poi ha chinato la testa per mettermi la sua mano pesante di contadino su una spalla. Me ne andavo quando la stagione, in campagna, era quasi nel pieno e avrebbe avuto bisogno di me per tanti lavori, ma questo non me l’aveva detto, non aveva più parlato perché non gli riusciva e ci eravamo abbracciati con forza senza trovare altre parole. Io ho pensato che avesse paura di dimenticare il nostro legame, lui, forse, che poteva essere l’ultima volta che lo avremmo fatto. Poi un nostro amico mi aveva dato un passaggio per Miglianico, dove ho preso la corriera per andare all’adunata della stazione di Pescara, ed era iniziato il vero viaggio.

    Quasi ogni fermata saliva qualcuno come noi, con uno zaino grande carico di ogni cosa e gli occhi di chi aveva paura ma cercava di non farlo vedere.

    Da casa mia, chilometro dopo chilometro, mentre il treno saliva verso nord, il paesaggio era cambiato. Non era più secco e bruciato dal sole, era diventato rigoglioso e verde e io mi perdevo a osservare quei campi appena imbionditi dalla luce primaverile, che rimandavano odore di erba bagnata. Si potrebbe fare qualcosa di buono con questa terra umida, ho pensato, non come la nostra, spaccata dal sole.

    Mi chiamo Alberto Cattaneo e sono salito sul treno alla Stazione Centrale di Milano. Mio padre non aveva voluto che la mamma venisse alla stazione, per evitare scenate in pubblico. Per lui, che pensa non sia nemmeno un uomo, un altro scandalo; e a casa i saluti non erano stati facili. Davanti alla carrozza, quando l’ho guardato per salutarlo, sentivo che gli occhi si bagnavano e la gola si chiudeva. Deve averlo visto anche lui, mi ha dato uno schiaffo e io ho abbassato la testa, ricacciando indietro le lacrime e la rabbia. Comportati da uomo, aveva detto, almeno qui. Poi mi aveva osservato impassibile salire sul treno e a me è rimasta da masticare l’amarezza.

    Mi sono coperto il viso in un angolo e ammetto di avere pianto a lungo, ma nessuno sembrava accorgersene, oppure tutti capivano il motivo e mi lasciavano in pace. Poi le lacrime si sono asciugate. Ho potuto alzare lo sguardo, vedere che gli altri ragazzi intorno erano tutti come me, con la stessa domanda spaventata negli occhi. E quell’essere insieme a persone che scontavano i miei stessi timori, mi aveva in qualche modo calmato.

    Il mio nome è Andrea Russo. Alla stazione, in mezzo alle altre reclute, ho visto che montava anche Barra. Doveva succedere, stesso paese, stessa classe, è normale che si parta insieme. Ma io non lo volevo tra i piedi quell’omm’ e’ merda. Ho sputato tra i binari per ricordargli che c’ero anch’io quando mio padre ha sistemato suo fratello e spero se ne sia accorto. Se proprio devo farmi ammazzare in questa guerra, ho il diritto di farlo in pace, senza averlo intorno anche qui. Lui doveva avermi visto, ma si è comportato come quel pisciasotto che è e si è tenuto alla larga come solo i fetenti sanno fare. Ma non c’è problema, alla prima occasione gli piazzerò una palla nella schiena. E il conto per la mia famiglia sarà pari.

    Sono solo un contadino, mi chiamo Sauro Ceccanti e ho paura, come tutti, perché la guerra mica è una passeggiata di salute. Questo me l’aveva raccontato il nonno mio al paese: lui una guerra l’aveva vista e si era raccomandato di tenere la testa bassa e lasciare andare avanti gli altri. La mamma tratteneva le lacrime a stento e il suo stringermi non era così diverso da quello del primo giorno di scuola, quando siamo bambini timorosi e abbiamo solo bisogno di un po’ d’affetto per tranquillizzarci. L’unico che cercava di restare sereno era il babbo e gli sono grato di quel suo modo goffo di cambiare discorso e portarmi via. Ma poi quando stavo per salire sulla mia carrozza, un attimo prima che il treno si mettesse in movimento con i suoi sbuffi densi come la neve, ha chinato la testa per non farmi vedere le lacrime che gli rigavano le guance. Una volta ero io che cercavo di non piangere davanti a lui, quando cadevo in giardino e lui medicava pazientemente le ginocchia sbucciate dalla ghiaia. Ci siamo abbracciati e mi ha detto di stare attento e non fare bischerate, e lasciare andare avanti gli altri. Anche lui.

    Io sono Saverio Pavolini e, finalmente, qualcosa di giusto per la Patria. Animo, ragazzi! Andiamo a combattere e faremo vedere di che pasta siamo fatti noi italiani. Non se ne poteva più dei discorsi.

    La guerra ha una sua bellezza. Uno scontro mortale in una tempesta d’acciaio, velocità e rumore, sangue e aeroplani sulla testa, parole in libertà e libertà assoluta. Voglio vivere un assalto con la baionetta, migliaia di uomini che corrono incontro a un martirio giusto, sotto il piombo tormentoso della mitraglia, già chinati come spighe di grano nelle loro alcove di terra e cemento.

    La guerra è merda e morte. Oppure è scontro sanguinoso e quello che vedrò schizzare sarà il sangue mio e dei miei compagni. Un nettare rosso che porta la vita, e raccoglierlo è qualcosa di necessario, per fare pulizia nel mondo.

    Mi hanno stufato i discorsi di questi pavidi qui intorno. Guardateli, pronti a pisciarsi addosso al minimo pericolo, attaccati alle gonne delle loro madri e alla terra. Cadaveri che camminano e cianciano per conto proprio. Meglio sarebbe stato andare direttamente al fronte, ma appena arrivo mi iscrivo come volontario per la prima linea, e lascio questi quattro cacasotto a Treviso.

    Il treno ci aveva sbarcati alla stazione di Spresiano, a pochi chilometri da Treviso. Sarebbe stata anche una bella giornata, ma dopo tante ore sui sedili di legno eravamo troppo stanchi per godere dell’aria tiepida di maggio. Siamo scesi sul marciapiede insieme ai civili che avevano finito il loro viaggio e ci osservavano con curiosità, mentre tornavano verso casa; sembrava che la guerra non riguardasse anche loro, che non esistesse se non in un mondo lontano. Eravamo un plotone di una cinquantina di reclute che non erano ancora soldati e due sottufficiali. Ci hanno radunati nel piazzale polveroso della stazione e messi in riga davanti ad alcuni autocarri Fiat.

    «Dove andiamo?» ha chiesto ad alta voce uno che dopo ho saputo chiamarsi Sauro. Da come scivolava sulle vocali ho capito che veniva dalla Toscana e gli piaceva parlare, anche troppo. Il caporal maggiore in comando si è avvicinato. Era sulla quarantina, con il volto rasato e vagamente gonfio e occhi grigi e acquosi sotto la tesa del suo elmetto, si chiamava Otello Balboni e forse Sauro si era fatto ingannare dal suo aspetto fisico. Balboni avrebbe avuto bisogno di una divisa più grande e camminava con le punte dei piedi allargate, sembrava un impiegato comunale più che un soldato.

    «Segreto militare. Altro da chiedere?» aveva sibilato e Sauro, abbozzato un sorriso, non sembrava averlo preso sul serio.

    «Altro da chiedere, soldato?» gli aveva urlato Balboni sulla faccia e allora Sauro, rimasto in silenzio sull’attenti, aveva balbettato un: «signorno, Signore». Il caporale che assisteva alla scena sembrava divertirsi. Si era presentato per dire che avrebbe pensato lui al nostro plotone. Si chiamava Giovanni Piredda, era piccolo e scuro di carnagione, con capelli neri e stopposi attaccati poco sopra alle sopracciglia. Aveva un viso simpatico e poco più della nostra età.

    Poi ci hanno fatti salire sul cassone degli autocarri ed eravamo contenti come bambini che non ci fosse il telone, così potevamo guardare fuori, lungo la strada. Io ero sull’ultimo e ho pensato che ci sarebbe toccato mangiare un po’ di polvere. Da Spresiano abbiamo imboccato una strada bianca, parallela alla riva di un grande fiume che doveva essere il Piave, così hanno detto quelli che erano saliti con noi ed erano di quelle parti.

    Quando ci siamo avvicinati alle acque, abbiamo raggiunto un piccolo paese. Per passare nelle vie deserte, tra le case di sasso intonacate alla buona che si aprivano nella piazza della chiesa, abbiamo incrociato qualche carro trainato da muli; i contadini ci osservavano per poi proseguire senza dire una parola, a volte accennando un saluto con un movimento della testa che muoveva un cappellaccio nero.

    Guardando fuori, la voglia di parlare sembrava passata. L’unico era Sauro che si presentava a tutti, a lui il nervoso era entrato dentro così, con le parole, e non si era zittito nemmeno durante l’appello.

    «Te da dove vieni?» chiedeva a tutti.

    «Da Genova» gli ho risposto.

    «E che fai a Genova?»

    «Il maestro di scuola.»

    «E come ti chiami?»

    «Enrico. Enrico Canepa.» Sauro sembrava soddisfatto e poi ha fatto la stessa domanda a quello seduto di fronte a noi che guardava fuori e si vedeva da lontano non avere nessuna voglia di dare confidenza.

    «Che t’importa?»

    «Per dire.»

    Si chiamava Benedetto Pellegrino ed era di Torino. Lavorava alla Fiat, gli aveva detto.

    «Tanto la guerra la fanno fare agli operai e ai contadini. Di signori qui non ce ne sono» aveva aggiunto.

    «E te, perché non ti hanno tenuto in fabbrica?»

    «Rompevo i coglioni» gli ha risposto a muso duro.

    «Bene, rompevi i coglioni a loro e ti hanno mandato qui, e noi dove ti mandiamo?» Benedetto lo ha guardato storto.

    «Ma lascia perdere» ha detto qualcuno.

    Sauro era così, aveva un sorriso simpatico e nessuna intenzione di offendere. Io ero accanto a lui sull’autocarro e non mi dava fastidio che continuasse a parlare; per dire la verità sembrava non dare fastidio a nessuno, eravamo tutti presi dai nostri pensieri, da quello che stavamo facendo solo una settimana prima, quando era arrivata la cartolina precetto. Circolava una voce su una Fortezza che sarebbe stata la nostra destinazione. Una Fortezza voleva dire muri di cemento e batterie di cannoni per difendersi. Sembrava una buona sistemazione, e comunque eravamo lontani dal fronte. Era meglio che finire in qualche trincea dell’Isonzo per un assalto alla baionetta, come scrivevano i giornali da mesi.

    Dopo mezz’ora di sobbalzi lungo una strada di ghiaia, la Fortezza ci è arrivata addosso da lontano, qualcuno l’ha indicata e sembrava poco più di un casale circondato da un muro e appoggiato a una collina boscosa. Gli autocarri sono entrati nel cortile, dove un anziano colonnello ci aspettava in piedi, insieme a un altro graduato più giovane che fumava con un lungo bocchino bianco. Erano eretti, ma non impettiti e ho pensato che avessero un magnifico portamento da ufficiali di grado superiore.

    In un angolo del cortile c’era anche una squadra di carabinieri, sei soldati e un brigadiere, vestiti di nero come corvi, che assistevano al nostro arrivo.

    Il colonnello era un metro avanti a tutti, minuto, impassibile, con gli stivali lucidi e un frustino in mano. La divisa era perfetta, senza la più piccola piega, come se l’avesse indossata un attimo prima di uscire dal suo alloggio. Sotto la tesa del suo scodellino da ufficiale ci osservava in silenzio con uno sguardo azzurro e immobile in un reticolo di rughe, aspettando che ci facessero scendere tutti per allinearci sull’attenti davanti a lui.

    Tenevo il viso dritto dinanzi a me, però con gli occhi seguivo il colonnello che aveva iniziato a passeggiare. Ascoltava con la testa bassa gli ordini che ci davano i sottufficiali, senza scomporsi, tenendo il frustino nella mano destra e scuotendolo ritmicamente per farne oscillare la punta e colpire la stoffa dei pantaloni sulla coscia. Mi sembrava più anziano di mio padre che ha già tutti i capelli bianchi. Le gote cadenti e i baffetti curati gli davano un aspetto amichevole, erano quelli di un vecchio zio. Mi è venuto in mente che avrebbe pensato a noi, a proteggerci. Ne ero convinto e l’ho detto a quello che avevo accanto; era di Trento, si chiamava Carlo e sul mento portava un pizzo squadrato e rossiccio che gli dava un’aria temeraria. L’ufficiale che aspettava dietro il colonnello, invece, sembrava indifferente. Alto e magro teneva gli occhi nell’ombra del suo scodellino e rimaneva immobile, fumando.

    Il muro di cinta bianco e scrostato intorno al cortile sembrava più il recinto di una vecchia casa signorile che un’opera militare, era pieno di crepe da cui ogni tanto sbucava una lucertola o un ciuffo di malerba. Oltre quello, vedevamo gli alberi di una bassa e larga collina coperta di boschi scuri. L’aria era familiare, mancava solo il profilo delle nostre montagne per sentirmi a casa, vicino a Trento. La brezza pomeridiana ronzava di insetti che si lasciavano portare da un vento tiepido, primaverile. Non posso dire che si sentisse scorrere il fiume, ma sapevo che c’era, e il fruscio dell’acqua che scappava via era un sottofondo invisibile a tutti i rumori che venivano dalla campagna. Una presenza che avvertivo e mi ricordava i miei rientri a casa dall’università, quando scendevo nei campi che circondano l’Adige, per dare una mano.

    Quello che mi era accanto nella fila sembrava ancora più giovane di noi, aveva occhiali da studioso e uno sguardo tanto timido da essere quasi femminile. Veniva da Milano e spiegava a tutti che il nostro comandante gli sembrava un vecchio zio. Non so se condividevo quell’idea, io lo vedevo freddo, lontano. Ma poi qualcuno ha dato di gomito al mio vicino, per indicare una finestra in fondo al cortile dove si era affacciata una ragazza. In molti se ne sono accorti intorno a noi e ci siamo sporti di lato per osservarla meglio.

    Come tutti, cercavo di restare il più eretto possibile. Dopo tante ore passate in treno e poi sull’autocarro, la schiena e le gambe avrebbero avuto bisogno di essere sgranchite, di fare due passi, magari una corsa, ma non importava a nessuno. L’allineamento era completo, il nostro comandante aveva smesso di passeggiare e anche se ero stanco e sentivo un grande appetito, volevo ascoltarlo.

    Fino a quel momento l’esercito e la guerra erano state solo parole di altri oppure articoli sui giornali, discussioni tra quelli che avrebbero voluto partire e chi pensava solo a non correre rischi. Modi di dire e notizie che passavano da una bocca all’altra, senza possibilità di capire quali erano reali e quali soltanto delle esagerazioni per il piacere di stupire il proprio pubblico. Adesso tutte queste sarebbero diventate le nostre parole.

    L’anziano ufficiale ci ha dato un’ultima occhiata, poi si è voltato a guardare i carabinieri che si erano schierati dietro di lui e ha schiarito appena la gola.

    «Soldati. Io sono il colonnello Alfieri. Il vostro comandante.» Con le mani dietro la schiena parlava a periodi brevi, intervallati da pause. Aveva una voce bassa, stentata, che ci costringeva a tendere le orecchie.

    «Fino a che sarete di stanza alla Fortezza. Siamo chiamati. Tutti. A un dovere dalla nostra Patria. E Dio voglia che ne siamo in grado. Respingere lo straniero.» Nell’ultima frase aveva atteso più del solito per riprendere a parlare, come se aspettasse un nostro applauso.

    «Il vostro compito sarà. Prima di tutto. Quello di rinforzare le nostre difese. Nell’attesa del nemico. Questa Fortezza farà parte dello Sbarramento Lombardo Veneto. E voi. Sarete chiamati. A onorare la nostra Sacra Patria. Donando il vostro impegno. E se necessario, il vostro sangue!

    Oggi il nostro esercito, con la benedizione del Re Vittorio Emanuele, ha iniziato un altro grande attacco alle posizioni dell’Austria-Ungheria lungo il fronte isontino. La riscossa dell’Italia è iniziata. Presto si avvieranno delle azioni belliche anche in questo settore e dovremo essere pronti.

    Il nemico potrebbe scagliare un attacco di inaudita violenza. Contro le nostre linee difensive. Non vergognandosi di utilizzare per l’ennesima volta i gas. Un’arma ignobile, non degna di un uomo. Per piegare la resistenza dei nostri soldati. Dei vostri compagni.

    Io farò di voi dei veri uomini. Prima del vostro addestramento, però, dovrete completare. Le opere di rinforzo della Fortezza. Mi aspetto sempre il massimo del valore. Il massimo dello sprezzo del pericolo. Il massimo dell’ubbidienza che dovrà essere. Pronta. Cieca e assoluta. Per dimostrare di essere degni delle richieste del nostro Re Vittorio Emanuele e della nostra Patria. Viva il Re, viva l’Italia!»

    Quello era

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