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Via Cassia e Via Francigena nella Tuscia
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E-book363 pagine5 ore

Via Cassia e Via Francigena nella Tuscia

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La Via Francigena è un cammino antico della fede che non può rivivere solo con operazioni di ricostruzione “filologica” di come, di dove e di ciò che è stato in passato. Il cammino deve confrontarsi con tutte le stratificazioni di esperienze e processi che, sull’asse viario Toscana-Roma, si sono accumulate nel corso dei secoli con modalità e con soggetti diversi, dal Medioevo fino al presente, lungo la Via Francigena, finché essa è stata riconosciuta e frequentata, e poi lungo il contiguo percorso, antico e nuovo anch’esso, della Via Cassia.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2014
ISBN9788878535558
Via Cassia e Via Francigena nella Tuscia

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    Anteprima del libro

    Via Cassia e Via Francigena nella Tuscia - Vincenzo De Caprio

    TUSCIA

    Introduzione

    Nel 2007, organizzato dal CIRIV in collaborazione con l’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo, si è tenuto presso l’Aula magna dell’Università della Tuscia il convegno Fra Via Francigena e Via cassia. Pellegrini e viaggiatori nella Tuscia. I lavori si sono svolti il 6 e 7 dicembre e sono stati chiusi, la sera del 7 dicembre, da un concerto Musica in cammino della Camerata Polifonica Viterbese, impeccabilmente diretta dal maestro Piero Caraba nell’Auditorium dell’Università.

    Questo volume riunisce le relazioni presentate al Convegno[1] insieme con i contributi di alcuni studiosi, scritti su invito del CIRIV, che molto arricchiscono ed articolano il quadro[2]. La speranza è che il libro possa contribuire a mettere meglio a fuoco i problemi connessi con l’affermarsi e con la crescita del movimento di pellegrini che si avviano a piedi o con altri mezzi lungo la Via Francigena nella Tuscia, mossi, come avviene lungo il Cammino di Santiago de Compostela, non solo da motivazioni religiose, ma anche da motivazioni eminentemente laiche, spirituali in senso ampio. Il volume nasce dalla consapevolezza che la Via Francigena è sì un cammino antico della fede, che non può però rivivere solo con operazioni di ricostruzione filologica di come, di dove e di ciò che essa è stata in passato. Questa è la base indispensabile; ma il cammino deve confrontarsi con tutte le stratificazioni di esperienze e processi che, sull’asse viario Toscana-Roma, si sono accumulate nel corso dei secoli con modalità e con soggetti diversi, dal Medioevo fino al presente, lungo la Via Francigena, finché essa è stata riconosciuta e frequentata, e poi lungo il contiguo percorso, antico e nuovo, della Via Cassia.

    Colgo l’occasione dell’uscita del volume per esprimere la mia affettuosa riconoscenza all’amico Gaetano Platania, Preside della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università della Tuscia, per il contributo dato alla realizzazione del Convegno e soprattutto per l’aiuto fraterno dato a me. Gravi motivi di salute mi hanno impedito di seguire gli ultimi atti dell’organizzazione del Convegno e, naturalmente e con mio grande dispiacere, mi hanno impedito anche di essere presente ai suoi lavori. Malgrado i non certo leggeri impegni come Preside della Facoltà, Gatano ha accettato generosamente di sostituirmi, liberandomi così di ogni preoccupazione e facendosi carico di tutti i compiti che sarebbero toccati a me e che, senza il suo aiuto, difficilmente avrei saputo a quali mani affidare con tanta tranquillità senza sentirmi in colpa o in imbarazzo.

    Un particolare ringraziamento va inoltre ad Angelo Cappelli, Assessore al Turismo della Provincia di Viterbo; al Consiglio Direttivo ed a tutti colleghi del CIRIV per il costante impegno scientifico collettivo e per l’incoraggiamento ed il sostegno dato anche a questa iniziativa.

    Vorrei comunicare infine la mia gratitudine verso tante persone, amici, colleghi ed allievi, che si sono adoperate generosamente e con molto entusiasmo per la buona riuscita del convegno e del concerto: in primo luogo, il dott. Mario Imbastoni, dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo, un amico oltre che appassionato ed esperto della Via Francigena, che ha seguito con amorevole cura ed interesse questa iniziativa, contribuendo alla sua riuscita a partire dal primo momento della sua progettazione; il prof. Antonello Ricci, che ha messo a nostra disposizione il suo sapere nel campo dell’odeporica, la sua conoscenza del territorio e le sue straordinarie capacità organizzative e gestionali; l’amico Massimiliano Vinci, che mi ha dato il supporto della sua autorevolissima competenza negli studi e nella progettazione dello sviluppo della Francigena; i miei collaboratori dott. Cinzia Capitoni e Stefano Pifferi, entrambi docenti di Letteratura del viaggio presso la nostra Facoltà, per l’aiuto dato a questa come alle altre attività del CIRIV, e per l’affettuosa solidarietà.

    A Cinzia Boni, dell’Ufficio della Presidenza della Facoltà, insostituibile punto di riferimento, un grazie per l’impegno profuso nel seguire l’organizzazione del Convegno. Ringrazio infine, solo perché è il più giovane di tutti, Marco Vaccari, presidente dell’associazione studentesca ASCI, che intelligentemente ha curato la grafica delle locandine e dei programmi del convegno e del concerto.

    Il CIRIV deve moltissimo per la realizzazione di questo volume alla dott. Marilena Savino, che con competenza ed impegno svolge il compito di segretaria amministrativa del Centro; e alla pazienza e all’affettuosa comprensione di Emanuele Paris.

    Vincenzo De Caprio

    Presidente del CIRIV


    [1] Non tutti i partecipanti al Convegno hanno potuto redigere in tempo utile la propria relazione in forma scritta: è questo il caso della relazione introduttiva di S. E. Lorenzo Chiarinelli, Vescovo di Viterbo, La metafora della vita e di quelle di Gaetano Platania, La Via Francigena ieri e oggi e di Massimiliano Vinci, Ritmi alternati.

    [2] Si tratta dei testi di Duccio Demetrio, di Stefano Pifferi, di Mariagrazia Russo e di Renato Stopani, ai quali rinnovo il mio più vivo ringraziamento per aver accettato il mio invito.

    ​Duccio Demetrio, METAFORE DEL CAMMINARE Tra mito e implicazioni filosofiche

    Premessa

    Non facile è risalire alle prime fonti narrative, filosofiche e religiose, che identificarono, nel camminare degli esseri umani, un’analogia con la condizione vitale (e mortale) di tutti noi.

    Queste tracce tenteremo comunque di rinvenire, là dove il linguaggio degli uomini (di alcuni di essi) riuscì ad escogitare la connessione tra il destino della loro esistenza materiale e l’ esercizio fisiologico – esito di un’evoluzione millenaria – dell’ergersi su gambe e piedi, dell’incedere cauto, poi più spedito, quindi vacillante, là dove le strade ancora non avevano un nome. Creandole passo dopo passo e quindi inventando la parola camminare in idiomi diversi. Avanzando o in fuga, nelle lunghe o brevi soste. Prima di riprendere il cammino, nelle marce forzate – non certo per il puro piacere di passeggiare – i primi rappresenti di questa razza itinerante non solo dovettero domandarsi quale fosse il luogo dove fermarsi. La loro intelligenza allo stato nascente non poté non interrogarsi sulle ragioni, le cause, la missione di tanto estenuante vagare. Il non saper rispondere a tali quesiti primordiali, secondo una logica pur elementare, generò altre soluzioni cognitive: per placare l’angosciante sensazione del limite, della finitezza, delle decifrazioni per loro impossibili. Nacquero così le immagini, le figure divine tremende o benevole, capaci di spiegare i fenomeni naturali e, soprattutto, di offrire qualche spiegazione generale a tanto travaglio.

    Nonostante queste invenzioni lenitive, rassicuranti poiché affidate al potere di esseri che non erano costretti ad avvalersi dei piedi (semoventi su cavalli alati, sempre giovani e straordinariamente belli, forti, veloci…), il camminare – simbolo di irrequietezza, tensione verso le verità nascoste, ricerca di un senso plausibile da assegnare al perché del vivere, – continua a stimolare senza interruzione le nostre menti. Per questo, camminare e filosofare, poetare, narrare, cercare sono forme verbali fra loro strettamente imparentate: il divenire e il creare ne intridono il motivo per cui vennero coniate.

    Per questo chi cammina, non per svago, non per turismo, non per agonismo, ma per tornare ad interrogare quel che incontra interrogandosi, nel ritmo lento, metodico, elegante e ponderato del passo, rivive – pur nella evidente emulazione impossibile – pensieri ed emozioni di quanti si iniziarono alla natura profonda della filosofia: che mai ci rende soddisfatti del tutto, che sceglie l’aporia, il dubbio, il dilemma a misura e senso di se stessa.

    La genialità di Edipo

    Camminare sempre, dall’alba al tramonto, come dote necessaria a tutti – poi ridefinita una vera condanna, una tortura – e come qualità individuale, è emblema ancora di quel potere e attitudine, ma anche di una delle più intense e convincenti metafore che mai siano state escogitate dalla mente umana per rappresentarsi. Oggi, certamente, questa usuale e quotidiana facoltà è ben più svalutata di un tempo, in ragione dei mezzi sostitutivi ad essa; alle protesi, alle molte virtualità dell’andare e tornare di cui possiamo disporre. La posizione eretta, che ci fece più lenti, meno adatti alla corsa di altre specie animali fu ciò che, rispetto ad esse, ci rese però ben più superiori e terribili. Quando infatti, d’esperimento in esperimento, le mani cessarono di essere piedi, questi riscattarono una perdita di cui difficile è dolersi. Il ritorno odierno alla mitologia del camminare è forse sia il segno di una nostalgia antropologica che si va smarrendo, sia di quella immagine atavica dell’esistenza che, pure, ci chiede di essere riaggiornata. Anche se la conclusione del cammino, resta pur sempre, almeno per ora, la nostra invalicabile soglia.

    Dovettero trascorrere migliaia di anni però, da quando la nostra postura si fece verticale, prima che la Sfinge greca, dall’origine egizia, rivolgesse ad Edipo il suo enigma: «Chi è quell’essere che prima cammina a quattro zampe, poi su due, e, infine, con tre?». L’infelice giovane, poi divenuto un altrettanto sfortunato re di Tebe, se la cavò al momento. Rispondendo sicuro «l’uomo!», poté sfuggire alla morte immediata, a differenza dei tanti che avevano fallito prima di lui. Poiché egli seppe, genialmente, sottrarre in tal modo l’arte della metafora al mostro alato, dal volto di donna; ne divulgò – da quel momento – gli artifici tra i propri simili, il cui pensiero non fu più quello di prima. Edipo non insegnò comunque agli uomini, come Prometeo il fuoco, qualcosa di utile. Rubò agli dei il modo per rassegnarsi alla propria infelicità genetica, non per dimenticarla. La scoperta dell’errabondo accecatosi di propria mano, che in seguito la filosofia in abbondanza gli saccheggiò, anzi fu proprio effimera; come continua ad essere considerato di alcun valore ciò che non possegga una sua pratica positività. Tuttavia, la via del pensare per similitudini aprì nuove vie al ragionamento, inaugurando la sublime e meravigliosa sterilità dell’ intelligenza poetica e speculativa, dell’ironia, della supposizione, della congettura, dell’assurdo e dei paradossi. E, forse, anche il sentire religioso deve non poco ad Edipo; così ricco di analogie, parabole, equivalenze tra quello che si vede, si sente, si ode e l’invisibile, l’astratto, il senso metafisico dello stare al mondo, in attesa di un altro universo migliore.

    Se la metafora (letteralmente ciò che ci conduce altrove, camminando oltre il luogo in cui siamo) ci consente di oltrepassare e superare quanto, troppo spesso, ci accontentiamo di sapere di primo acchito; allora, la sua speciale utilità consiste nel darci bellezza e, al contempo, la visione dell’orrore. Nel caso qui esaminato, ci anticipa il destino nefasto che ci attende sottraendoci la facoltà di gioire in totale abbandono e spensieratezza.

    Da allora, dal tempo del mito, sappiamo che la bellezza non ci salva, che la poesia o la filosofia nemmeno, eppure, un pensiero senza possibilità di pensarsi diverso da quel che è, almeno ad alcuni, renderebbe ancor più triste la vita. La Sfinge uccideva coloro che non risolvevano il suo indovinello perché forse non reputati degni di comprendere che c’è sempre un’altra visione possibile, un’altra soluzione almeno immaginativa: ora nelle sembianze di un sogno, di un desiderio, di una speranza o di un’utopia; ora, nella promessa di un Al-di-là. Di quell’oltre la vita come cammino destinato a finire, che soltanto coniando altre metafore riusciamo appena noi contemporanei ad intravedere. Dal momento che la proprietà di questa figura linguistica e concettuale è ravvisabile proprio laddove non ci si accontenti delle strade già battute. È andando fuori pista, che ci è dato – qualche volta – imbatterci in un’inattesa epifania.

    Un indizio, in tanta incertezza l’abbiamo dunque trovato nel celebre mito. Ma esistono, è indubbio, oltre a quanto rievocato, che indica nel puerile camminare a gattoni, nel procedere spedito adulto, dell’avvalersi del bastone in tarda età, tre tappe della vita, ben altre tracce e indizi che ci fanno comprendere quanto antica sia la connessione tra questa proprietà fisicamente certa, patibile (tra piacere e disappunto, se viene meno) e la sua proiezione simbolica.

    La saga di Gilgamès, le altre leggende mesopotamiche, i racconti pre-biblici e mediterranei, nordici o dell’Oriente estremo, evocanti le marce e le migrazioni forzate di eserciti, tribù, cacciatori e pastori solitari, sono soltanto alcune tra le testimonianze che ci sono pervenute.

    Tali gesta, che fondarono grazie al camminare come unica forma di viaggio il genere epico, ebbero per protagonista l’errare ora di popoli interi, ora di pionieri coraggiosi non impauriti dall’ignoto; i quali, in ragione della loro scelta, in seguito ad un’ingiunzione o ad un capriccio divino, si trovarono a divenire eroi (per antonomasia maschili). Spesso per caso, contro la propria volontà, proprio là dove la strada avevano intrapreso. Né a cavallo, né su un carro: fidando soltanto sulla loro perizia pedestre: perché, a piedi, si è simili agli altri, li si può ascoltare barattando storie; perché il conversare in cammino può essere fonte di conoscenza e di utili, indispensabili, avvertimenti per sfuggire alle insidie delle contrade.

    C’è chi, scopriamo in tali celebri ritrascrizioni dalla tradizione orale, si cimentò nell’inseguire dicerie circa l’erba che rende immortali o la sorgente di eterna giovinezza; chi affidò ai pericoli del viaggio la propria espiazione sacrificandosi per colpe ancestrali e misteriose, o, ancora, ci fu chi si incamminò verso qualche landa vergine che potesse offrirgli un temporaneo sollievo. Nella rassegnazione di non essere riuscito a trovare il segreto della vita eterna, il fuoco che mai si estingue o qualche definitiva verità: invocata vanamente, dinanzi a un dio sempre troppo taciturno o troppo facondo e tale da ammutolire i loquaci all’eccesso come l’annichilito Giobbe. Il quale nemmeno, come altri, poté trovare un poco di ristoro scoprendo, ad una svolta, una quieta radura, un albero frondoso sotto il quale riposare. E, tantomeno, una fanciulla portatrice d’acqua, disponibile a giacersi con lui o almeno ad ascoltarlo, prima di riprendere ad assecondare il richiamo, inesorabile, del passo.

    Il quale, in tale figura della ribellione umana, ne intravide la assoluta vanità, l’impotenza, l’inutilità. Perché all’occhio di Dio non si sfugge. Inutile – come Adamo – è nascondersi dietro un albero. Inutile il girovagare, il camminare trafelati, soltanto il pellegrinaggio per rendergli omaggio potrà veramente essere cosa gradita all’Onnipotente o al timido dio minore di una selva.

    In queste innumerevoli storie, in tutte le fiabe del mondo, leggiamo dunque di simili uomini – e di qualche donna intraprendente o folle – dalle nobili o umili origini. Talvolta messisi in cammino quanto mai risoluti nell’intento di adempiere al raggiungimento della missione assegnata da un sogno, una profezia, una minaccia; talaltra, invece, confusi e incerti: dinanzi ad ansiogeni quadrivi, all’inquietudine della decisione pressoché impossibile. Nel fardello, più pesante della bisaccia, di aver voluto (o dovuto) tagliare le radici con la propria stirpe, costretti a dimenticare persino il proprio nome. Nella beffa di ritrovarsi, rintracciata finalmente la strada giusta ed entrati in possesso di quel che a lungo avevano cercato, a rischio della perdita dell’anima o dell’intelletto, dell’illibatezza o di ogni forza, al punto di partenza. Nell’ambascia angosciante di non sapere più riconoscere la fine dall’inizio; nell’amarezza di scoprirsi trasformati, a quel punto, in anti-eroi condannati a girovagare e a peregrinare persino nell’Oltretomba. Sconcertati nell’avvedersi di aver camminato e camminato in tondo, a vuoto, invano. Nello scoramento dell’inutilità del viaggio, della vita stessa; nell’affanno di avvedersi ad un certo punto del cammino che le prove (dalle chimere, alle maghe seduttive, ai draghi alati, ecc) pur superate, lasciavano tutto come prima. Il male ancora più feroce e protervo; il bene ancora più fragile, la giustizia ancora più offesa. Tutti costoro, anche se dei loro pensieri nulla ci è dato leggere, dovettero abbandonarsi al ragionamento inevitabile, quanto mai ancora plausibile che, tutto sommato, meglio sarebbe stato non partire e, forse, nemmeno nascere. Nella rassegnata constatazione, ma anche intuizione geniale, che il cammino va intrapreso dentro di sé e che il premio è talvolta più vicino di quanto non appaia e, sicuramente, non così lontano. Edipo e chi per esso, giunto a questa conclusione, non avrebbe così soltanto dato agli uomini e alle donne l’arte della metafora. Avrebbe egli inventato, condotto da Antigone senza più luce negli occhi, con queste riflessioni tra sé e sé sulla via di Colono, il vagabondare nella vita interiore: così come l’ebreo oggetto di una scommessa tra Dio e Satana all’unisono avrebbe scoperto.

    Il più entusiasmante e inquietante dei cammini è questo; il meno faticoso per il corpo, eppure il più impervio e audace. L’equiparazione delle strade reali, dei sentieri polverosi, dei cunicoli nei quali si procede strisciando, con i labirinti delle anime in pena, gli agostiniani quartieri della memoria, i tortuosi viottoli del dubbio, costituì un’altra svolta nel pensiero umano. La più moderna e sempre attuale, poiché – a quel punto – il camminante solitario, durante il viaggio, aveva imparato a pronunciare la parola io. A riconoscersi, pur lacero, affamato, inseguito dai propri fantasmi o da nemici alla caccia delle sue orme, come soggetto e individuo. Chi ebbe l’ardire, o chi venne lasciato indietro dal branco, di incamminarsi da solo plasmò la sua mente a concepirsi persona, nemmeno intuendo la portata di una rivoluzione (di una parola) che altri secoli, grazie ai pochi come lui, avrebbero visto trascorrere prima del suo riconoscimento definitivo. L’io compare grazie al distacco, grazie al camminare in solitudine: il camminatore anche contemporaneo è attratto da questo primordiale richiamo, specie quando il senso del suo ego vacilli o non ne possa più del noi.

    Forme dell’incedere

    Senza che gli autori trascrittori di tali miti collettivi – spesso stigmatizzanti le scelte individuali di chi osasse allontanarsi dal villaggio, dal gruppo –, rimasti senza identità, fossero a conoscenza dei messaggi filosofici elementari (eppur preveggenti) di quel che andavano cantando, è dunque alle gesta e alle leggende di strada, sacre e profane, che occorre ricorrere. Al fine di scoprire le prime tracce del fato umano: lasciate nel fango, nella sabbia, sulla rena del mare, impercettibili tra le foglie appassite del bosco, indissolubilmente legato al dovere di mettersi in cammino e, contemporaneamente, al paradosso di scongiurarlo e temerlo come la peggiore iattura. Poiché fonte di interrogativi inutili, di rivelazioni sgradevoli, di sfide nefaste a potenze superiori irascibili e vendicative. Il camminare, ad ogni modo, si declinava già allora nelle molteplici andature possibili: circospette, veloci, ritmiche…capaci di mutare, in un istante, la figura dell’uomo (e della donna al suo seguito) camminanti in danza, piroetta, acrobazia, balzo, corsa sfrenata, scalata, sinistro sfilare in colonna. Quando anche le mani e tutto il corpo, allora come oggi, concorrano alla missione primigenia del tributare ai piedi la facoltà – anche questa simbolica – oltre che del poter andare verso qualcosa o a zonzo, per necessità o per ozio, del saper stare in-piedi, in equilibrio, eretti ancora una volta. Segno inequivocabile dell’essere in vita, di affrontare la morte guardandola in volto e non già supini rassegnati ad attenderla.

    L’incedere ha sempre espresso, e sintetizzato allegoricamente, la fatica di vivere: l’ineluttabilità, l’appartenenza ad una genia che non può – in quanto tale – ribellarsi a ciò che le è toccato in sorte. Tanto più se per propria scelta e colpa. Il camminare assunse, fin dall’apparire della autoconsapevolezza, dei primi interrogativi sul senso del proprio esistere, di conseguenza un valore ontologico. Fu e resta la più apicale implicazione costitutiva della dimensione dell’essere, del percepirsi in grado di sentirsi vivi; è annuncio e compimento tragico di un vicenda dolente, di un’estinzione inevitabile. Inutile è perciò tentare di fermare un divenire che, pur opponendogli strenua resistenza, è suddito di una potenza inconoscibile che vuole che ogni inizio di strada abbia la sua conclusione, che ogni partenza conosca il suo traguardo.

    La celebre cacciata dal paradiso terrestre, effigiata da innumerevoli pittori (tra tutti e tra i primi il Masaccio) è emblema di questo dirigersi – contratto, affaticato, stremato il corpo, nella mala voglia di dover abbandonare una condizione di quiete – non verso l’ignoto. Piuttosto, alla volta del compiersi di una profezia, che a nulla vale cercare di dimenticare. Dopo le beatitudini dell’origine, dove tutt’al più la coppia originaria passeggiava meravigliata e forse accidiosa per tanta monotonia, al camminare venne riconosciuta un’amara sorte. Fu Eva a staccarsi dallo sposo, a camminare verso il melo, il quel passo verso il poco lontano già riscattandosi dalla sudditanza di colui al quale doveva almeno una costola. Si cammina, perché si deve sopravvivere, accettando una condanna di cui si è stati cagione; si cammina in ogni caso anche nel sonno, poiché dalla situazione paradisiaca, per definizione immobile (o deliziosamente deambulante, senza pena e fatica), poiché si è entrati nel tempo. Nell’esistenza, in quell’ex-sistere che richiama di per sé un essere gettati e sospinti sempre al di là del luogo dove si nacque e dunque il primo passo adempiuto oltre il suolo natio, secondo quanto la filosofia esistenzialistica del ’900 avrebbe riproposto.

    Nelle incalzanti torture degli esodi vitali, delle maledizioni paterne, degli esilii profetizzati, in ogni caso, gli antichi ed epici camminatori – poi riscoperti nel Romanticismo – nei lunghi tragitti dovettero pensare non solo a quel che desideravano raggiungere (ad una terra promessa o al lido del ritorno abbandonato decenni prima). Quanto andavano intraprendendo di passo in passo, scoprendo ad ogni piè sospinto che il mondo era dato, offerto, creato da potenze superumane, generava al contempo discorsi; era anche frutto delle parole nuove che il cammino induceva a coniare (queste tutte umane) indispensabili ad orientarsi in esso, anche perché fonte di scambi. Il viandante si avvide che creava, strada facendo, a sua volta linguaggio; che raccoglieva storie, che sottraeva a questo o a quell’artefice supremo la voce per ridire il mondo. Proprio in questi primitivi esercizi riflessivi e di vocaboli che la sedentarietà non aveva ispirato, allorché le traversate di deserti, praterie, selve dovettero farsi specchio di sé all’errante, qualcosa di importante dovette accadere e mutare nel pensiero degli uomini. Non nei villaggi, nelle città, nei fortilizi emblema di staticità e ripetizione quotidiana: piuttosto, nell’allontanarsi dai luoghi ritenuti fidati, dai luoghi protetti da sentinelle, adibiti alla riproduzione e allevamento della prole, riservati alle donne.

    Nell’esposizione all’ imprevedibilità della via, nel farsi largo negli intricati grovigli di liane, a qualcuno – nel cerebro di qualche ominide poco più che sapiens e non certamente all’unisono sul pianeta – dovette apparire un’idea mai prima affiorata ad una mente acerba. La metafora affiorò nel cervello di un oscuro senza nome ed Edipo se ne fece l’interprete più intelligente.

    Il farsi strada nel pensiero

    Per comprendere questo evento di portata a dir poco unica – che esce dal mito per farsi consuetudine neuronale – nella genealogia del pensiero e del linguaggio, e cioè il fatidico anello di congiunzione tra l’esperienza e la sua trasfigurazione in altro senso, è indispensabile ricondursi però alla più generale tòpos del viaggio. Prima soltanto a piedi, poi per mare, poi domando una possibile cavalcatura ribelle, poi, ancora inventandone di sempre più tecnologicamente sofisticate. La strada, la sua funzione millenaria, nel suo rapporto carnale con coloro che per primi tracciarono le geografie oltre che dell’abitare dell’andare, fu questo il nesso mancante. Soltanto così ci è dato identificare ciò che, a livello evolutivo, stabilì una connessione filo e ontogenetica tra il vissuto emotivo dell’ erranza, costituitiva al bipede evoluto (per cercare il cibo, fuggire a nemici e cataclismi, esplorare nuovi territori di caccia e terre da coltivare o altri pascoli…) ed una, pur elementare, rappresentazione dell’esistenza come cammino. Il travaglio del camminante iniziò così ad assomigliare al doloroso scorrere in inesorabile discesa della vita. In quell’insight tra un fare materiale, quotidiano, banale e il suo significato astratto elementare, eppure già metafisico, se non trascendente si dovette annidare il segreto originario della comparsa del ragionamento avulso dal dato immediatamente sensibile. Necessario al costituirsi della noesi filosofica, alla formulazione della congettura narrativa, matematica e scientifica. Alle infinite storie antiche – di cui abbiamo detto – che ebbero ed hanno per protagonista la relazione uomo-strada (segno inequivocabile di una sua presenza), si intrecciarono le prime storie sulla cosmologia del mondo. In latitudini diverse del pianeta i narratori, aedi camminanti, ricchi di esperienza, coraggio, propensione al rischio e alla solitudine, filosofi in nuce, oltre a raccontare le loro leggende, compresero che quel che andavano cantando poteva assomigliare a quanto andavano vivendo. Il viaggiare venne assimilato all’esistenza, al tratto tra la partenza e il ritorno; la peripezia (d’isola in isola o d’oasi in oasi) all’inquietudine inestinguibile dell’animo; l’odissea, non soltanto ad un travagliato rimpatrio d’eroe, bensì alla malasorte di tutti gli "oi deiloi brotoi"(dei miseri mortali, per la tragedia greca), che non fa sconti a nessuno.

    Nella poetica del viaggio d’Oriente o d’Occidente, nelle sue diverse accezioni, possiamo dunque rintracciare questo saltus mnestico, il neurone della metaforizzazione del concreto, che ispirò allegorie, parabole, aforismi, moniti.

    È immediata, di conseguenza, per noi post-moderni, abbondantemente educati all’uso delle metafore, la comprensione della gamma simbolica della pedestrità. Di quanto ci consente, oltre che di incedere dal luogo in cui ci si trovi, verso quanto non sia ancora visibile; di rintracciare gli altri motivi archetipici (poi filosofici) del non ancora; della possibilità, del raggiungimento, o viceversa dell’allontanarsi, di ciò all’indirizzo del quale, pur nella assenza di certezze, occorre fiduciosamente tendere andandogli incontro, accettando l’ad-ventura dell’impresa che tanto assomiglierà all’avventura di vivere.

    Lo spazio lasciato alle spalle genera tempo

    Tali ulteriori motivi, che appartengono all’esercizio del camminare, ne accendono altri: in quanto, già in illo tempore, dovettero sollecitare nei nostri antenati le prime congetture sulla correlazione tra il moto e il tempo. Tra il muoversi nello spazio (sopra e sotto, di lato e intorno, a destra e a manca, diritto o di sbiesso…), accorciando distanze e avvicinandosi a luoghi, e il divenire come scansione temporale. Il trait d’union, che andiamo perseguendo, fu forse proprio anche questo: nell’istante in cui inizia il cammino, tra la dimensione dello spazio e quella del tempo, si stabilisce sempre una relazione significativa. Al variare dell’uno, del passo, varia anche l’altro: la durata, il minuto, l’ora. Entrambe divengono correlazioni misurabili. E se il tempo passa pur nella staticità, sorte umana è anticiparlo; tentare di sconfiggerlo ora rallentando, ora accelerando l’incedere. Inoltre, camminando, i luoghi mutano; varia pure la percezione temporale che di essi abbiamo in ragione della fretta o della calma.

    I giorni (dall’alba al tramonto) o gli anni (dall’inverno all’autunno) divennero in tal modo un metro di misura per comprendere sia quanta strada si fosse lasciata alle spalle, sia quante albe o lune fossero necessarie a tale adempimento. In funzione del ritorno alle proprie dimore, dell’annuncio ai propri simili delle coordinate (spazio-temporali) necessarie all’impresa del partire, nell’auspicio di un buon rientro. Probabilmente, non dovette essere difficile stabilire, di cammino in cammino, un’ulteriore connessione tra il morire e il rinascere del sole; tra il susseguirsi delle stagioni, delle semine, dei raccolti o tra la visione di una terra divenuta arida e desolata e il riapparire, di nuovo, dei fiori e degli stormi migratori, con la sorte della umana specie, di ogni specie organica.

    L’ineluttabilità del camminare come stato costitutivo, e conquista di questo superiore genere animale, finalizzato alla sopravvivenza, alla fecondazione, al rimescolio delle etnie, alla sottrazione del suolo ai propri simili, si trascinava con sé l’inevitabilità di accettare che ci fosse un tempo-cammino verso la morte e che, come già in alcune credenze primitive, dopo l’evento naturale, prevedibile, del morire, potesse esserci, presumibilmente, un

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