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La Mia Certosa: Vita del Monumento Visconteo dalla nascita ai nostri giorni
La Mia Certosa: Vita del Monumento Visconteo dalla nascita ai nostri giorni
La Mia Certosa: Vita del Monumento Visconteo dalla nascita ai nostri giorni
E-book548 pagine6 ore

La Mia Certosa: Vita del Monumento Visconteo dalla nascita ai nostri giorni

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Info su questo ebook

Nel 1997 si sono compiuti cinque secoli da quando, nel 1497, fu consacrata la basilica. Sono trascorsi, altresì, 600 anni da quel 27 agosto 1396, quando venne posata la prima pietra di questo complesso monumentale. La ricorrenza, pertanto, di questi due recenti centenari mi pare circostanza propizia per parlare di questo mio scritto, sviluppatosi principalmente su ricerche ed indagini dirette, nonché conoscenze e contatti personali.

Non saprei quale altro monumento in terra pavese, nel limite di tempo che richiede la visita alla Certosa, susciti nel pellegrino tante e varie emozioni. Là, perduta quasi nel monotono verdeggiante piano lombardo, lontana da ogni rumore mondano, l’abbazia mi accoglie con tutta la genialità dell’arte, con gli effetti più vari ed armonici delle linee architettoniche, con gli accordi più vibranti e festosi di colore, con le finezze più delicate dello scalpello.

Nessuno, infatti, può sottrarsi a quel fascino che, distogliendomi, sia pur per qualche istante, dalle quotidiane e materiali preoccupazioni della vita, infonde in me quel senso di pace profonda e serena, risvegliando nell’animo un lontano e caro ricordo della mia prima età, facendomi provare, ancora una volta, quell’emozione che agita la mente allorquando, sopraffatta da molte attrattive, non può seguire e dominare il vario e rapido susseguirsi delle impressioni.

Infatti, è con un senso di ansietà che, varcata la soglia del tempio, mi aggiro per le navate dove si respira ancora il Medioevo, mi addentro tra le ricchezze del coro ligneo, passo a turbare la quiete dei chiostri e delle celle, quasi inseguendo qualcosa che mi sfugge continuamente, quella vita, quell’anima, di cui l’ambiente sembra vibrare ancora.

Questa meraviglia delle meraviglie viene ampiamente descritta, commentata, analizzata in questo mio scritto, frutto di anni di lavoro e di sacrificio.

Nel 1983, infatti, decisi di raggruppare gli scritti pubblicati periodicamente sul settimanale diocesano ‘Il Ticino’, in un volume. Dal 1980 collaboravo alla testata cattolica sul cui giornale i responsabili mi avevano dato la possibilità di scrivere e, conseguentemente, far sentire la mia voce. Anno dopo anno, da quel 1983, effettuai ulteriori studi, altre ricerche ed indagini conoscitive che portarono alle successive edizioni, in particolare a quella del 1995, realizzata a ricordo delle celebrazioni centenarie. Gli approfondimenti sono stati condotti consultando scritti, testi, giornali, analizzando luoghi ed aspetti ancora sconosciuti; parlando soprattutto direttamente con i personaggi che ‘vivono’ nel mio racconto storico.

Desidero dedicare lo scritto alle mie figlie Lucrezia e Vittoria.

Gli aggiornamenti sono stati sviluppati e condotti fino all’anno 2015, lasciando al lettore un doppio compito: la ricerca su ‘internet’ degli avvenimenti successivi a tale data, nonché la scelta delle migliori immagini della Certosa, che il variegato mondo web offre al ricercatore, senza nulla togliere a quanto, nella realtà, l’abbazia suscita ed infonde al cuore del visitatore.
 
Com’è ovvio soltanto a me si devono attribuire le responsabilità per gli errori che certamente si potranno trovare nello scritto. Per questo chiedo fin d’ora scusa a chi leggerà il testo.

Pavia, 1/11/2018

Alessandro Maria Campagnoli
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2018
ISBN9788829543755
La Mia Certosa: Vita del Monumento Visconteo dalla nascita ai nostri giorni

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    Anteprima del libro

    La Mia Certosa - Alessandro Maria Campagnoli

    Alessandro Maria Campagnoli

    La Mia Certosa

    Vita del monumento visconteo

    dalla nascita ai nostri giorni

    Prima edizione di 1000 copie – dicembre 1983

    Seconda edizione di 1000 copie, riveduta ed ampliata – settembre 1985

    Terza edizione di 1000 copie, riveduta ed aggiornata – gennaio 1990

    Quarta edizione di 1000 copie, con rifacimento del secolo XIV – luglio 1990

    Quinta edizione di 500 copie, con rifacimento totale del testo ed aggiunta di tavole a colori – ottobre 1991

    Ristampa di 500 copie della quinta edizione – dicembre 1991

    Sesta edizione di 1000 copie realizzata per celebrare i 600 anni di fondazione della Certosa – dicembre 1995

    Settima edizione di 1000 copie, ampliata, priva di tavole, riveduta nel formato e nella veste grafica – maggio 2005

    Ottava edizione di 2000 copie, con rifacimento del testo – giugno 2010

    Nona edizione in formato e-book con rielaborazione del testo, aggiunta di approfondimenti, eliminazione delle immagini fotografiche ed ampliamento della ‘Bibliografia’ – luglio 2018

    Riproduzioni autorizzate, citando la fonte.

    Autorizzazione dell’Agenzia del Demanio Filiale Lombardia Sede di Milano - Protocollo 1869 del 26/1/2010.

    Autorizzazione del Ministero dei beni e le attività culturali - Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Milano - Protocollo 1479 del 24/2/2010.

    La prefazione

    Nel 1997 si sono compiuti cinque secoli da quando, nel 1497, fu consacrata la basilica. Sono trascorsi, altresì, 600 anni da quel 27 agosto 1396, quando venne posata la prima pietra di questo complesso monumentale. La ricorrenza, pertanto, di questi due recenti centenari mi pare circostanza propizia per parlare di questo mio scritto, sviluppatosi principalmente su ricerche ed indagini dirette, nonché conoscenze e contatti personali.

    Non saprei quale altro monumento in terra pavese, nel limite di tempo che richiede la visita alla Certosa, susciti nel pellegrino tante e varie emozioni. Là, perduta quasi nel monotono verdeggiante piano lombardo, lontana da ogni rumore mondano, l’abbazia mi accoglie con tutta la genialità dell’arte, con gli effetti più vari ed armonici delle linee architettoniche, con gli accordi più vibranti e festosi di colore, con le finezze più delicate dello scalpello.

    Nessuno, infatti, può sottrarsi a quel fascino che, distogliendomi, sia pur per qualche istante, dalle quotidiane e materiali preoccupazioni della vita, infonde in me quel senso di pace profonda e serena, risvegliando nell’animo un lontano e caro ricordo della mia prima età, facendomi provare, ancora una volta, quell’emozione che agita la mente allorquando, sopraffatta da molte attrattive, non può seguire e dominare il vario e rapido susseguirsi delle impressioni.

    Infatti, è con un senso di ansietà che, varcata la soglia del tempio, mi aggiro per le navate dove si respira ancora il Medioevo, mi addentro tra le ricchezze del coro ligneo, passo a turbare la quiete dei chiostri e delle celle, quasi inseguendo qualcosa che mi sfugge continuamente, quella vita, quell’anima, di cui l’ambiente sembra vibrare ancora.

    La Certosa rimane l’armonico complesso di manifestazioni artistiche, che vivono tuttora nella luce e nell’ambiente loro destinato, obbediscono ancora all’intimo pensiero di chi le ha create. Io, nel visitarla, provo una profonda ed intima emozione, soggiogato dal suo organismo completo, serbante l’intima vibrazione di quelle volontà, di quelle aspirazioni, di quelle credenze, di quegli entusiasmi che l’hanno voluta e creata. Dinanzi a me trovo l’arte nella sua estrinsecazione più genuina, intesa come testimonianza di fede vera e sincera, come aspirazione infaticata verso un ben definito ideale.

    Questa meraviglia delle meraviglie viene ampiamente descritta, commentata, analizzata in questo mio scritto, frutto di anni di lavoro e di sacrificio.

    Nel 1983, infatti, decisi di raggruppare gli scritti pubblicati periodicamente sul settimanale diocesano ‘Il Ticino’, in un volume. Dal 1980 collaboravo alla testata cattolica sul cui giornale i responsabili mi avevano dato la possibilità di scrivere e, conseguentemente, far sentire la mia voce. Anno dopo anno, da quel 1983, effettuai ulteriori studi, altre ricerche ed indagini conoscitive che portarono alle successive edizioni, in particolare a quella del 1995, realizzata a ricordo delle celebrazioni centenarie. Gli approfondimenti sono stati condotti consultando scritti, testi, giornali, analizzando luoghi ed aspetti ancora sconosciuti; parlando soprattutto direttamente con i personaggi che ‘vivono’ nel mio racconto storico.

    Molti, infatti, sono i debiti di riconoscenza che mi legano a questi maestri ed anche a studiosi incontrati nelle circostanze più diverse: non posso ricordarli qui tutti, anche se il magistero di ciascuno è stato più profondo di quanto a prima vista potrebbe apparire.

    Rivolgo un ringraziamento a Padre Sisto Giacomini ed a Padre Edoardo Liconti (1932-1995), monaci cistercensi, che hanno contribuito in maniera rilevante alla realizzazione dell’opera con critiche stimolanti e validi suggerimenti, a Mons. Carlo Bordoni (1916-2006), direttore de ‘Il Ticino’ dal 1955 al 1989, per aver letto il testo; a Mons. Francesco Zanacchi (1925-2005), rettore del Collegio sant’Agostino di Pavia dal 1969 fino alla morte ed alla Professoressa Carmela Arecchi, ex insegnante di letteratura italiana e latina al Liceo Scientifico ’T. Taramelli’ di Pavia, per aver scritto le due introduzioni.

    Desidero dedicare lo scritto alle mie figlie Lucrezia e Vittoria.

    Gli aggiornamenti sono stati sviluppati e condotti fino all’anno 2015, lasciando al lettore un doppio compito: la ricerca su ‘internet’ degli avvenimenti successivi a tale data, nonché la scelta delle migliori immagini della Certosa, che il variegato mondo web offre al ricercatore, senza nulla togliere a quanto, nella realtà, l’abbazia suscita ed infonde al cuore del visitatore.

    Com’è ovvio soltanto a me si devono attribuire le responsabilità per gli errori che certamente si potranno trovare nello scritto. Per questo chiedo fin d’ora scusa a chi leggerà le pagine che seguono.

    Pavia, 1/11/2018

    Alessandro Maria Campagnoli

    La prima introduzione

    Molti, tra cui storici famosi, hanno scritto della Certosa, del suo fondatore, degli artisti che hanno dato il meglio di sé per farne un monumento incomparabile. Alessandro Campagnoli, che ha lavorato con puntiglioso impegno, ha il merito di aver trasfuso nelle sue pagine un’anima che le fa palpitare, che rende attuali gli avvenimenti descritti, vive le persone ricordate. Sembra cronaca di oggi. Il lettore sente quasi di essere coinvolto in prima persona, di essere in qualche modo attore di quanto gli è presentato. Con il libro ’La mia Certosa’ Campagnoli intende, ed il tentativo mi sembra pienamente riuscito, consentire a tutti di accostare e di gustare, con immediatezza, tesori di scienza, di arte, di religione. La Certosa è tale monastero, del resto, che non si finirà mai di scoprire e che non finirà mai di stupire. Chi poi all’ombra della Certosa vive, ed è il caso dell’amico Alessandro, non può non sentirne il fascino misterioso. D’inverno la nebbia le fa da cornice, d’estate il sole l’illumina e l’incendia. E la Certosa è bella così, come è stata pensata e dove è stata voluta. Immersa nella sconfinata distesa dei prati, lambita da acque un tempo limpidissime, rallegrata dall’armonioso canto degli uccelli, incantata nelle notti di luna. Se poi si riesce ad immaginare la vita che per secoli si è vissuta tra le sue mura robuste ed austere, allora l’incanto si fa pensosa commozione. Gian Galeazzo, che l’aveva desiderata, era consapevole, infatti, che la sua ’cappella’ sarebbe riuscita un capolavoro tale da rendere celebre nei secoli e nel mondo intero il nome suo e quello della sua casata.

    Pavia, dicembre 1983

    Francesco Zanacchi

    La seconda introduzione

    Dobbiamo ascoltare con attenzione l’autore del libro per comprendere adeguatamente il significato di questo scritto, il fine che egli cela mentre affettuosamente definisce ’mia’ la Certosa vicino alla quale egli è nato ed ha condotto finora la sua esistenza, cui dunque è affezionato come si tratti di una persona. Si coglie infatti un senso di trepidazione affettuosa nel suo scrivere non una guida turistica, che già ce ne sono molte; non una visione romanzata della vita alla Certosa, come avverte il sottotitolo, ma una consapevole ed adeguata indagine di tutto ciò, che dalla nascita del prezioso monumento ad oggi, fu ed è animazione di esso perché non lo si avverta come opera di marmo ma come ’secondo i desideri di Gian Galeazzo Visconti, un luogo di raccoglimento e di incontro con la Madonna e con Cristo’. E questa indagine è condotta con serio metodo di studio, con intelligente riferimento delle fonti storiche, con agile linguaggio che facilita il rapporto di qualsiasi lettore con questo scritto. Al tono medio- alto in cui si svolge la narrazione dà vigore l’animo del credente col quale il Campagnoli traccia le sue note senza mai dimenticare che sta parlando di un luogo sacro, di un monastero ricchissimo d’arte, ma anche ed essenzialmente di un luogo nato per il culto, sorto dal desiderio di rendere omaggio alla ’Gratiarum Mater’. Né manca in questo scritto la giusta attenzione da porgere alla presenza dei monaci cui è affidata la continuità di vita dell’abbazia, alla cui opera silenziosa ma costantemente presente e premurosa si deve lo sforzo più grande perché la Certosa non perda il suo intrinseco insieme di valori che vanno dall’arte al culto. Siamo dunque di fronte ad un’opera singolare il cui rigore dell’indagine storica si unisce al piacere di percorrere le mura del monumento, per lasciarsi conquistare dal pregio delle bellezze artistiche che esso ospita, ed all’affetto profondo e discreto con cui il Campagnoli ama la ’sua’ Certosa.

    Pavia, dicembre 1983

    Carmela Arecchi

    Il secolo XIV

    Si ritiene che il presunto motivo addotto da Gian Galeazzo Maria Visconti (1351-1402) per promuovere la realizzazione di un progetto grandioso come la Certosa delle Grazie, meglio conosciuta al mondo come Certosa di Pavia, sia legato alla promessa di esaudire un desiderio espresso dalla seconda moglie e cugina, Caterina (1362-1404), figlia di Regina della Scala e di Barnabò Visconti, la quale, l’8 gennaio 1390, consigliata dal monaco senese Padre Stefano Macone, allora priore della Certosa di Garegnano, monastero fondato dall’Arcivescovo Giovanni Visconti a pochi chilometri dall’erigendo Duomo, come riferisce il milanese Bernardino Corio, nella ‘Pars tertia’ della ‘Historia di Milano’ «votandose sotto forma di testamento, ordinò che in una villa dil Pavense, dove diverse fiade versava, se dovesse fabricare un monasterio de Certusini con duodeci frati, et in caso de parto morendo pregò il marito che volesse adimplire tale ordinatione, ricomandandogli la sua famiglia specialmente li fratelli e sue sorelle». Ciò è anche riferito dallo storico Bartolomeo Senese nella biografia del ‘beato’ Macone.

    Il pavese Stefano Breventano, vissuto nel secolo XVI, narra come il Conte di Virtù, titolo nobiliare acquisito dal Visconti nel 1360 in séguito al matrimonio con la figlia del Re di Francia Giovanni II, Isabella di Valois (1348-1372), la quale porta in dote la Contea di Vertus, solesse ripetere che «voleva havere un palagio per sua habitatione, un giardino per suo diporto, e una cappella per sua divotione».

    Probabilmente sui resti di una rocca edificata in precedenza da suo padre Matteo I Visconti, Galeazzo II (1320-1378), in soli cinque anni, dal 1360 al 1365, fa costruire il castello di Pavia, il ‘palagio’ che risulta essere una delle più belle dimore del Trecento lombardo, uno dei migliori esempi di architettura civile e militare del secolo XIV.

    «Per i lavori sono costretti a provvedervi i comuni dipendenti ponendo a disposizione del Signore manovali ed artieri. Dicesi che l’opera compita costi 400.000 scudi circa» (Le cento città d’Italia).

    «Esso sorge nella zona più alta e salubre della città, a settentrione, non lungi dalla basilica di san Pietro in Ciel d’Oro, a contatto della cittadella, come a rafforzare la difesa da nord altrettanto solidamente quanto il Ticino difendeva la città da mezzodì» (Pietro Vaccari).

    Nella sua forma compiuta il castello ha una struttura quadrata con quattro robustissimi torrioni agli angoli; l’aspetto è imponente come una fortezza, ma con due ordini di ampie finestre binate esterne e, nell’interno, lunghi porticati sorretti da colonne di marmo, sulle quali poggiano logge arcuate tipiche di uno stile di meravigliosa eleganza, essendo il maniero concepito essenzialmente come «un palagio in cui gli fosse dato di raccogliere i tesori dell’arte e far pompa di grandezza» (Carlo Magenta).

    Nelle ‘Epistoles seniles’ così scrive Francesco Petrarca, ospite illustre dei Visconti negli anni 1365/68, a Giovanni Boccaccio: «avresti veduto nella più alta parte della terra il grandioso palazzo che con arte mirabile e spesa immensa fece erigere Galeazzo II Visconti, uomo che gli altri vince in molte cose e se stesso nella magnificenza delle costruzioni; e credo che col tuo fine discernimento lo avresti giudicato più nobile tra quante sono opere moderne».

    Nel castello, definito dal poeta «augustissimus» per la sua grandiosità e la ricchezza di rifiniture, lavoreranno per diverso tempo artisti e pittori, tra i quali meritano citazione Michele da Besozzo (Varese) e Vincenzo Foppa da Brescia, diventando in tal modo una sede di meravigliosa e fastosa bellezza. Qui, il poeta dell’introspezione, il Petrarca, classifica i circa 1.000 importanti volumi della biblioteca, che andranno dispersi ed in parte trasferiti in Francia con la sconfitta di Ludovico il Moro (anno 1500).

    Il maniero continua ad essere, dopo la morte di Galeazzo II (padre di Gian Galeazzo Visconti), la sede permanente della corte ducale; vi tiene adunanza il Consiglio segreto ed il Consiglio di giustizia. Nonostante la sua caratteristica di edificio fortificato, percettibile nelle merlature che corrono lungo le mura e nell’ampio e profondo fossato con i ponti levatoi, il castello nasce come residenza preferita dei Signori di Milano ed espressione della loro grande aspirazione di gloria e potenza.

    L’edificio, la cui progettazione si deve a Bernardo da Venezia, è ben descritto dalla delicata penna di Mons. Cesare Angelini (1866-1976): «massiccio quadrato all’esterno, dentro è più mosso, più armoniosamente vario. Vasto è il cortile e adatto a giostre, a tornei, ad altri giochi da prìncipi; le scale ampie, comode, da poterle salire a cavallo; le sale vaghe, con cieli frescati, dove ancora intravedi la mano di Vincenzo Foppa, eleganti quadrifore verso il cortile interno da parere ricami, vento fiorito, aureole intorno al capo di immaginarie dame. Se gli edifici sono il mobilio di una città, questo castello è il più bel mobile di Pavia».

    «Sopra un torrione del castello Gian Galeazzo Visconti nel 1381 fa collocare un meraviglioso orologio, il quale non solo col suono della campana notava le ore ed i giorni festivi, ma indicava anche il moto dei pianeti nel firmamento, secondo l’astrologia dell’epoca. L’orologio, prodigio per quei tempi, tutto di rame ed ottone, era attribuito a Giovanni Dondi da Padova, filosofo ed astronomo» (Le cento città d’Italia).

    Gli ultimi restauri riportano all’antico splendore le finestre del loggiato. I merli a filo di muro, con il cunicolo per il displuvio dell’acqua piovana, sembrano espressione di un classico gusto tardo-gotico caratteristico dell’epoca del Visconti.

    Dal 1950 il castello ospita i musei civici, i quali custodiscono oltre 45.000 opere d’arte, tra sculture, disegni, dipinti, medaglie, monete, stampe, libri. Si può ammirare questo materiale di grande importanza nel corso della visita, articolata tra il settore archeologico e romanico, tra la pinacoteca e la biblioteca, tra la sezione del Risorgimento e quella etnografica intitolata all’esploratore Luigi Robecchi Brichetti.

    Il ‘giardino’ annesso al castello è l’immenso parco, che si estende per diversi Km² fino a Torre del Mangano.

    Esso è servito da nove porte d’accesso, è cinto da un muraglione alto circa m. 2,50 con fondamenta profonde più di m. 1 e dello spessore di cm. 40. Costituisce una realtà complessa poiché nella sua dimensione contempera ragioni utilitarie di sfruttamento domestico, tipiche dei ‘brolia’ (campi recinti suburbani), ‘clausa’ (sedimi coltivati e recinti, con annessa vigna o terreno coltivato a vigna), ‘viridaria’ (giardini urbani o suburbani nella forma di ‘hortus conclusus’ conventuale, con frutteto), con quelle di dominio e di assoggettamento di un vastissimo spazio naturale.

    Una realizzazione eccezionale come il ‘giardino’ non sfugge all’attenzione dei poeti contemporanei del Visconti e la sua fama si diffonde rapidamente in tutta Europa, fino a raggiungere l’Inghilterra. È probabile che lo scrittore inglese Geoffrey Chaucer si sia ispirato al parco visconteo per la descrizione del giardino del nobile cavaliere pavese de ‘I racconti di Canterbury’: «Dimorava una volta in Lombardia, un nobile Signore di Pavia che in gran magnificenza là viveva. ... Così come si addice a gran Signore e tra le varie cose in quel tenore si era riservato un grande parco, cinto da mura di non facil varco» (Racconto del mercante IV versetti 1245/1247 e 2027/2030).

    Significativa risulta la descrizione fatta nel 1570 da Stefano Breventano nel volume: ‘Istoria della antichità, nobiltà et delle cose notabili della città di Pavia’.

    Il parco «era un quadro di 448 pertiche, ripieno di quante sorti frutti si potessero imaginare, con bell’ordine disposti. Circondato da mura con le fosse e porte, con suoi ponti levatoi, in cui non si poteva entrare se non con licentia dei portinai. All’intorno, lungo le mura, che’l chiudevano, erano belissimi pergolati, con tutte le sorti d’uva, che si possono desiderare, e dette mura erano coperte di spalliere di nociuole. Nel mezo di questo raro giardino era una gran peschiera lunga da 300 passi, e larga 25 ... che vi si scorgeva fin ad ogni minimo pesciolino che vi fusse dentro .... Lontano dalla detta peschiera da 40 passi, ò d’intorno verso il mezodì, era un altro bel quadro di 18 passi per ogni lato, già tutto salicato di bianco marmo, entro à cui per quattro gradi si scendeva, pur dello istesso marmo, il qual si chiamava il bagno, per ciò ch’ivi per diporto, nel tempo del gran caldo venivano à lavarsi i duchi e le duchesse. Questo riceveva l’acqua dalla gran peschiera .... Potrei dire molte belle cose del parco, in cui erano già rinchiusi molti animali, come cervi, dainij e capriuoli i quali ascendevano al numero di 5.000 capi ... i quali animali ivi si nodrivano per le caccie de Signori; le lepri e i fagiani, poi, ch’ivi si vedevano, erano senza numero, pernici e quaglie erano spesse come le formiche, e s’andavano à pascolare ne i cortili de gli habitatori senza veruna tema, essendo à ciò avezze, e perché c’era pena la forca à chi havesse ucciso uno de quegli animali, ò quadrupedi, ò volatili, e per lo ricetto d’essi v’erano molti boschi e al tempo della state accioché quegli animali non distruggessero i seminati, erano rinchiusi entro ad alcuni steccati, per questo effetto fabricati .... Il circoito di questo raro giardino è di 15 miglia».

    L’ingresso al parco, a Torre del Mangano, è costituito da una porta, l’odierno ‘Torrione visconteo’, con coronamento di merli ghibellini, situata di fronte all’attuale chiesa parrocchiale dedicata a san Michele arcangelo.

    Il nome del paese è fatto risalire, dalla toponomastica, all’antica torre medievale di proprietà della famiglia Mangano, alla sommità della quale era installata una macchina da guerra usata per scagliare a distanza grossi proiettili di pietra.

    Ad esaudire i desideri del Visconti non manca dunque che la ‘cappella’; per questo decide di fondare la Certosa al margine settentrionale del parco, nell’intento di assicurare anche a Pavia il prestigio di un’imponente opera d’arte cristiana, come ha già fatto per Milano, avendo appoggiato, nel 1385, la realizzazione del Duomo, espressione collettiva e democratica di tutta una città.

    L’iniziativa di una costruzione così vasta e poderosa parte dall’Arcivescovo Antonio da Saluzzo, assecondato da Gian Galeazzo Visconti; ma sono i Milanesi a realizzarlo, con spirito di sacrificio, strenuo lavoro, fede, entusiasmo e volontà. Per questa consapevole partecipazione si deve affermare che il Duomo è voluto dall’intera città; rappresenta l’epopea di un popolo operoso e ricco di speranze.

    Più che dalla pietà cristiana, pare verosimile che il non tenero Gian Galeazzo, uomo di grandi ambizioni perseguite senza scrupoli morali, ma non alieno dall’ideale della grandezza civile e principesca, sia mosso dal proposito di consolidare la sua egemonia nel Nord Italia, assumendo in questo modo una funzione guida nelle vicende politiche del tempo.

    Bernardino Corio, biografo del priore Stefano Macone, lo definisce «prudentissimo ed astuto, pigro, timido nelle avversità ed audace nella prospera fortuna, simulato, vano ed infedele alle promesse».

    Non più benevolo il giudizio dello storico milanese Pietro Verri: «è ambizioso senza elevazione d’animo, superstizioso senza religione, mite senza principio di virtù».

    Il Conte comprende quanto possa giovare alla propria autorità il fascino dell’arte, ed il monastero con la basilica, nel suo pensiero, rappresentano un imponente sepolcro destinato non solo ad accogliere le tombe dei Visconti, ma soprattutto a consacrare la gloria e la potenza della famiglia.

    Suo padre Galeazzo II aveva lasciato segni di rilevante importanza a Pavia: il Castello Visconteo e ’lo Studium Generale di diritto canonico e civile, nonché di filosofia, di medicina e di arti liberali’ cioè l’Università istituita con decreto datato 13 aprile 1361 a firma dell’Imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1316-1378).

    Gian Galeazzo decide di innalzare un edificio di culto e lo affida ad un ordine monastico la cui presenza garantirà nei secoli a venire la prosecuzione e l’ultimazione dei lavori da lui intrapresi e patrocinati.

    Egli è altresì consapevole che la costruzione della Certosa, espressione di fede e di religione, culla dell’arte e del sapere, dimora dello spirito religioso e della preghiera, gli conferirebbe prestigio e forza in un’epoca segnata da lacerazioni sorte all’interno della cristianità. Tale sarebbe la ragione politica che spinge il principe a promuovere l’iniziativa.

    Gian Galeazzo Visconti è Signore di Siena e Pisa dal 1390 al 1392 e, successivamente, dal 1399 fino alla morte.

    Il 20 novembre 1394, pochi mesi dopo averne avuto autorizzazione dall’antipapa avignonese Clemente VII, annuncia pubblicamente alla comunità di Siena il suo proposito di innalzare il complesso monumentale da affidare all’Ordine certosino. Nella bolla pontificia, datata 11 luglio 1394, si fa riferimento sia al desiderio espresso dal Conte di Virtù di «cambiare le cose terrene con quelle celesti, e le cose transitorie con quelle eterne» sia alla richiesta di erigere «propre castrum papiense» (vicino alla città di Pavia) un monastero certosino con chiesa, abitazione e religiosi (Giacinto Romano). Il documento è indirizzato all’Arcivescovo di Milano.

    Questa in sintesi la bolla, scritta in latino: «Al venerabile fratello Arcivescovo di Milano. Zelanti di sinceri affetti verso il sacro Ordine certosino, volentieri diamo il nostro assenso ai pii desideri dei fedeli che particolarmente crediamo gioveranno al detto Ordine ed alla salvezza delle anime. Ci fu esposto a nome del diletto figlio, il nobil uomo Galeazzo, Conte di Virtù, che desiderando egli, con felice commercio, cambiare le cose terrene con quelle celesti, e le cose transitorie con quelle eterne, e nella misura delle proprie forze ingrandire il detto Ordine, di voler fondare e costruire per la salvezza della propria anima, un cenobio certosino presso la città di Pavia che ospiti un priore, 60 monaci-sacerdoti, con fratelli laici, la chiesa con campanile e campane, con cimitero ed abitazioni per altri inservienti necessari; per il futuro provvederà per gli altri monaci ed inservienti. Umilmente fummo supplicati che fosse a lui concessa licenza di costruire l’edificio come sopra detto e che il monastero, i monaci e i fratelli laici fruissero e godessero di tutti i singoli privilegi di tutti gli altri monasteri del detto Ordine, e che ci degnassimo con benignità apostolica di stabilire ed ordinare che i detti monaci siano tenuti a celebrare le sante Messe …» (Giacinto Romano).

    Clemente VII fa anche presente all’Arcivescovo di Milano che, pur non conoscendo di persona Gian Galeazzo Visconti, è però ben lieto di concedere al «detto Conte (il necessario benestare) di fondare e costruire il monastero in luogo adatto e decoroso» (Giacinto Romano).

    Giustamente Padre Stefano Macone nella sua lettera diretta alla Repubblica di Siena il 25 novembre 1394 dice: «che se la Certosa fosse stata realizzata secondo il disegno del suo (di Gian Galeazzo) magnifico cuore, non ci sarebbe stato al mondo che la uguagliava, almeno nell’Ordine Certosino» (Giacinto Romano).

    Una comunità religiosa con un priore e 60 monaci con altrettanti fratelli laici ed inservienti necessari per la vita; un’abbazia che potesse ospitarli; una chiesa con 40 altari per le celebrazioni liturgiche comportava una dotazione tale che il Visconti non era certo in grado di sostenere. Avremmo avuto una Certosa quattro o cinque volte più grande di quella che ora ammiriamo, o forse, per il voler strafare del Duca di Milano, non l’avremmo mai avuta.

    Misurate le proprie forze Gian Galeazzo Visconti pensa bene di portare a 24 i monaci, oltre il priore, numero che troviamo fissato in un documento del 15 aprile 1396 e che rimane definitivo.

    In questo momento storico particolarmente critico per la cristianità, che vede la presenza di due pontefici, la richiesta del Visconti a Clemente VII assume un significato d’alto contenuto politico.

    Infatti, secondo gli storici Noël Valois e Giacinto Romano, il Principe di Milano, da abile stratega, non desidera affatto schierarsi a favore dell’uno o dell’altro Papa, non vuole patteggiare per lo schieramento di Roma o per quello francese, ma preferisce destreggiarsi tra le due parti, al fine di mantenere piena libertà d’azione. La sua strategia è finalizzata a svolgere un ruolo essenziale nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale. Nello stesso anno Padre Stefano Macone, che i Certosini considerano ‘beato’, assicura i monaci di san Bruno che «de proximo mense martii Illustrissimus Dom. Jo. Galeacius Vicecomes ordinaverit aedificari, iuxta Papiam, in suo viridario, monasterium solemnissimum» (nel prossimo mese di marzo l’illustrissimo Signore Gian Galeazzo Visconti ordinerà di costruire, vicino a Pavia, nel suo parco, un solenne monastero) (Bartolomeo Senese).

    Ai Certosini, tuttavia, già nel 1393, il Signore ha fatto donazione di vasti possedimenti la cui rendita di parecchie migliaia di fiorini costituisce un mezzo fondamentale per finanziare la costruzione del complesso monumentale, «quam solemnius et magis notabile poterimus» (quanto più solenne e pregevole ci sarà possibile) (Bartolomeo Senese).

    La Certosa sorge quindi sotto gli auspici di un sentimento d’arte forte e risoluto tale da assicurarle, per più di tre secoli, una continuità di tradizioni artistiche, che vanno dalle espressioni severe del Medioevo sino alle manifestazioni più libere e capricciose del Barocco.

    L’11 maggio 1395, dopo laboriose trattative e dopo aver incamerato 10.000 fiorini d’oro, l’Imperatore Venceslao IV di Lussemburgo (1361-1419), Re della Boemia, firma il diploma che concede a Gian Galeazzo Visconti il titolo ereditario di Vicario Imperiale, trasmissibile ai discendenti diretti in perpetuo.

    Quattro mesi dopo, il 5 settembre 1395, in piazza sant’Ambrogio, il Conte di Virtù è consacrato primo Duca di Milano.

    I Visconti sono Signori di Milano da più di un secolo, dai tempi dell’Arcivescovo Ottone (1207-1295), fondatore della potenza della dinastia, ma senza un’esplicita investitura, senza un riconoscimento imperiale a chiare lettere.

    Con la corona ducale Gian Galeazzo si allinea come pari rango tra i grandi feudatari dell’Impero, mentre il Principato Visconteo estende i suoi confini, in parte con la forza ma soprattutto con abili manovre politiche, a quasi tutto il Nord Italia. La data del 5 settembre 1395 segna quindi per il Visconti il raggiungimento di un significativo traguardo.

    In questo periodo un’intensa vita artistica e letteraria ruota attorno a Milano e la città lombarda sembra aver quasi l’ambizione di sostituirsi a Firenze come centro delle attività culturali.

    A favorire arte e letteratura è lo stesso Duca, consapevole del prestigio derivante dall’ospitare con munificenza poeti ed artisti, che, in un ambiente raffinato ed esclusivo, trovano la loro collocazione sociale ed i mezzi per vivere agiatamente.

    Alla Signoria ed ai principeschi intrattenimenti essi destinano dipinti, sculture, novelle e poesie, spesso incentrate sul sentimento d’amore.

    Da Milano, infatti, particolarmente aperta agli influssi della cultura del Nord Europa, transitano i dotti più famosi del vecchio continente.

    A più largo orizzonte si apre anche l’attività della corte ducale di Pavia, la quale, magnifica di splendore, accoglie signori e potenti: dal genovese Baldassarre Spinola a Francesco Gonzaga da Mantova; da Pandolfo Malatesta da Fano (Pesaro-Urbino) ad Antonio Conte di Montefeltro (Pesaro-Urbino).

    Nel giudizio dei contemporanei sembra che il Conte di Virtù rappresenti l’incarnazione di quel principe uno e domestico, non di barbara origine ma di schietta stirpe italiana, non tiranno di piccola terra ma signore di vasto territorio sottoposto ad unità di governo e tutore della giustizia per tutti.

    Nel campo delle arti figurative la città milanese occupa una posizione d’avanguardia in Italia, come maggior centro di diffusione del Gotico internazionale, del quale il Duomo, alla cui costruzione collaborano maestri italiani ma anche francesi e tedeschi, è l’espressione più significativa, divenendo, altresì, l’emblema, il simbolo di Milano.

    Il Gotico internazionale, gusto predominante nell’area culturale centro-europea, coinvolge tutte le manifestazioni artistiche. Esso, oltre all’antica tematica religiosa, si rivolge anche alla sfera mondana: agli edifici pubblici e civili, alle dimore private, agli arredi, alle vesti, agli ornamenti, in un generale raffinamento delle tecniche di lavorazione e delle abitudini di vita.

    Nelle fabbriche, come quella del Duomo, accanto a famosi architetti e scultori, lavorano duramente anche schiere di muratori, marmisti, mastri vetrai, intagliatori, orafi, consapevoli di contribuire con la loro opera all’incremento artistico ed al prestigio della propria città. Questo aspetto riguarda direttamente la vita che si svolge nel ‘laborerio’ certosino.

    Nei documenti di quell’epoca si trova annotato che già all’inizio del 1396 iniziano i lavori nel parco. Nel cuore dell’estate si abbatte il bosco sulla zona scelta per la costruzione, si eseguono gli scavi per le fondamenta della chiesa, si apre un canale per favorire lo scolo delle acque sorgive nel vicino naviglio fra Milano e Pavia, si predispone l’area per i cantieri della fabbrica, si acquista una notevole quantità di materiale da costruzione.

    Parallelamente a Torre del Mangano si riatta un vecchio cascinale, un fortilizio d’epoca medievale chiamato ‘castello’, perché serva come sede provvisoria a sei Certosini (quattro monaci e due priori) già presenti sul luogo di lavoro.

    L’ospizio è a pianta quadrata e conserva una robusta e bassa torre con tracce di decorazioni a fresco sulla parte della sommità ed impronte alle finestre occluse; attorno al chiostro, che si apre all’interno dell’edificio, ci sono le camere occupate dai religiosi.

    Esso esiste ancora. Immerso tra case popolari, con ingresso verso settentrione, risulta, nel suo insieme, perfettamente conservato. Il pavimento è di mattoni rossi ed il soffitto è realizzato con robuste travi di rovere. All’interno esistono due tipici caminetti fregiati dall’inconfondibile monogramma ‘GRA- CAR’.

    Sempre nel 1396, all’inizio dell’anno, il principe, non appena ottiene dall’Imperatore del Sacro Romano Impero, Venceslao IV di Germania, che il territorio lombardo facente capo alle città di Pavia, Voghera, Vigevano, Valenza, Casale sant’Evasio, sia eretto a contea indipendente, trasmissibile all’erede della corona ducale, e dopo essersi assicurato il riconoscimento di ‘Comes papiae’ e di Conte di Anghiera, affretta le pratiche necessarie per tradurre in atto, senza ulteriori indugi, l’intenzione di erigere la Certosa.

    Così scrive Bernardino Corio nella ‘Pars quarta’ della ‘Historia di Milano’: «Vincislao Imperatore, oltre a la creatione dil Ducato di Milano, contato di Pavia e le dominatione de altre citade, concesse a Giovanne Galeazo novi privilegii constituendolo Conte di Angleria inscieme con le terre sopra il laco Verbano, dil quale contato sono soliti insignirse li primi geniti de duci de Milano avante che pervengano a la successione dil Ducato».

    Gian Galeazzo Visconti convoca nel castello di Pavia i vescovi di Novara (Pietro Filargo da Candia, futuro Papa Alessandro V), di Pavia (Guglielmo III Centuario), di Feltre e Belluno (Alberto da san Giorgio), di Vicenza (Giovanni Castiglioni) assieme alle autorità del Ducato per dichiarare formalmente il suo proposito di dare il via ai lavori di costruzione di un monastero e di una chiesa maestosa dedicata «divae Mariae quam sumptuosissimo opere sub nomine et tituolo Gratiae» (alla divina Maria, opera splendidissima dal nome e titolo di Grazia) (Bartolomeo Senese). Da qui ‘GRA- CAR’ cioè ‘Gratiarum Carthusia’ (Certosa delle Grazie).

    Con una donazione dell’aprile 1396 Gian Galeazzo concede ai Certosini i beni stabili dei territori di Magenta, Boffalora, Binasco, Graffignana, Selvanesco e Vigano, la cui rendita ascende a 2.500 fiorini d’oro.

    Bernardo da Venezia, apprezzato ed esperto intagliatore, scultore ed architetto, che sino al 1391 alterna la propria multiforme attività tra il Duomo di Milano e Pavia, godendo appieno della stima e della considerazione del Conte di Virtù, viene da questi nominato «generalis inzignierius laboreriorum Chatuxiae Papiae» (Luca Beltrami). Egli percepisce uno stipendio mensile di 12 fiorini d’oro ed ha già legato il proprio nome alla progettazione del Castello Visconteo ed alla limpida architettura della chiesa di santa Maria del Carmine a Pavia.

    In questa città, considerata dal Visconti capitale politica del Ducato, ‘il Carmine’, voluto fortemente dalla cittadinanza pavese per essere stata liberata dalla pestilenza del 1388, costituisce ancor oggi uno dei più insigni monumenti della città. «Lo stile gotico, che altrove sfoggia una gran varietà di forme, qui si contiene unendo il semplice al maestoso» (Carlo Magenta). L’interno è soffuso di una grave e mistica solennità, propizia al raccoglimento; le guglie e l’aerea torre campanaria imprimono una snellezza che non altera la maestosità delle linee; le deliziose terrecotte e gli archi armoniosi delle finestre sono di finissima arte lombarda.

    Cristoforo di Beltramo da Conigo (Milano) e Giacomo da Campione d’Italia sono nominati consiglieri e collaboratori di Bernardo da Venezia.

    I tre architetti fanno costruire un modellino della basilica in terracotta conservato alla Certosa fino al secolo XVI e poi andato perduto.

    Il progetto della chiesa, in un primo momento, si ispira a caratteristiche proprie della cattedrale milanese. Infatti, la planimetria, il rapporto tra navata maggiore e navate laterali, la forma dei piloni che accolgono volte ogivali, i contrafforti esterni sono espressioni tipiche del Duomo di Milano. Questo percorso non è, tuttavia, subito attuato.

    I lavori procedono con sempre maggior intensità: si passa da sette

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