Ár var alda: Un amore fuori dal tempo
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Anteprima del libro
Ár var alda - Paola Tassinari
© Edizioni SENSOINVERSO
Collana RomagnaScrive – PerleViola
www.edizionisensoinverso.it
Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)
ISBN 9788867931651
1° edizione – Marzo 2015
In copertina | Opera dell'autrice
© 2015 - Copyright | Tutti i diritti riservati
Sensoinverso - P.I. 02360700393
Paola Tassinari
ÁR VAR ALDA
Un amore fuori dal tempo
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
Capitolo 1
Giulia
Non c’è niente da fare, non sono in perfetta forma, il tempo è quello che è, un’estate strana, pochi soldi perché siamo in crisi nera, focolai di guerra dappertutto, lo spettro di una nuova peste e sono sola. Ho un bel dirmi che si sta meglio soli, la solitudine è pesante, il dover badare a me stessa
, lo faccio da una vita, comincia a pesarmi, rimpiango di non aver messo a frutto il mio corpo quando ero giovane, quando ero una lolita, ora avrei un gruzzolo, un appartamento decente in una zona dignitosa, mi basterebbe questo; niente lussi o viaggi e ristoranti megagalattici, in fin dei conti non mi piace più né la gente privilegiata né il multiculturale, senza essere razzista, come i conigli diventano aggressivi se si toglie loro lo spazio vitale, così pure io divento bellicosa; ho bisogno di luoghi semplici, isolati dove non ci sia competizione. In questo mondo c’è concorrenza per ogni cosa, non ne posso più, eppure è la vita che vince, sono io che mi devo adattare a come va il mondo e non viceversa. Il peggio è che non mi sento in forma, se mi sentissi un poco meglio, potrei organizzare qualcosina, che so un aperitivo in centro, da sola perché ho amiche e amici solo su Facebook, oppure andare al mare in bicicletta, ma anche un giro in collina non sarebbe male, ma non sono in perfetta forma, meglio non fare niente, non irritare il fato ostile. Mai andare contro le forze negative, lo si può fare da ventenni non alla mia età, in cui non si ha più l’esuberanza che è in grado di contrastare le forze avverse che oscillano nell’aria. Non sono in perfetta forma, me lo ripeto, mi infilo un dito nel naso, tiro fuori un moccolo, lo guardo, Joyce scrive due o tre pagine sulle ispezioni nasali di un protagonista del suo romanzo Ulisse
. Riguardo il mio moccolo, verdino un po’ trasparente, non mi dà nessun sollievo, ma se Joyce ne parla tanto, un motivo ci sarà; infatti trascorrere il tempo a guardare un moccolo o uscire e andare in un bel posto non c’è poi una differenza bestiale, il tempo scorre ugualmente, anzi guardando il moccolo, scorre più lentamente e quindi si vive qualche attimo in più. Ora dovrei andare dietro uno scoglio a fare la pipì, se volessi seguire il copione di Joyce, ma non c’è uno scoglio, c’è solo un albero giù nel giardino condominiale dove spesso orinano un paio di magrebini, hanno seccato tutta l’erba. Che fare scendo, mi accovaccio e la faccio lì ai piedi dell’albero? No, perché pensando all’Ulisse di Joyce, mi è venuta un’idea che mi toglie tutta l’apatia; farò un viaggio alla scoperta di luoghi e allo stesso tempo farò un’incursione dentro di me, nelle mie profondità. Le gesta dell’Ulisse di Omero le conoscete tutti, è un viaggio di ritorno ricco di avventure, Joyce ne è ispirato, ma nel suo incasinato e affascinante romanzo il grande viaggio è dentro la personalità dei protagonisti, questi ultimi sono degli antieroi, meschini e vigliacchi, leggendolo ci consoliamo dei nostri difetti. Non so se questo sia un bene, perché oggi confrontandoci con le persone note, quelle sui giornali e le TV, diamo un viatico alle nostre mancanze: Faccio un po’ schifo, ma che importa non sarò mai come Berlusconi.
; ho fatto un nome a caso, quello più eclatante, ma gli esempi sono tanti. Joyce l’ho letto a diciotto anni e non ci ho capito molto, ma l’ho amato, in fin dei conti l’amore non è conoscenza, nasce spontaneamente al di fuori della ragione… o no? In Joyce il grande viaggio è la storia di una sola giornata, un po’ poco in confronto a quello dell’Ulisse di Omero che dura dieci anni, ma non importa la durata, in fin dei conti Dante in una settimana si fece Inferno, Purgatorio e Paradiso, in pratica tutta la Terra sino al Cielo e più su. Leopold Bloom, l’Ulisse di Joyce, tradisce la moglie Molly (Penelope), da cui è tradito, Bloom è limitato, si adatta a qualsiasi compromesso possa portargli qualche vantaggio, anche vendendo le foto di sua moglie nuda. Il romanzo fu pubblicato nel 1922, quindi già allora c’era la crisi dell’uomo moderno, con uomo intendo umanità e quindi anche la donna, un uomo che non conosce se stesso, pieno di incertezze e di sconfitte, un uomo che rifiuta la patria, la famiglia, la chiesa in cui non crede più, consapevolmente solo o in mezzo al divertimentificio ancora più solo. Ecco a cosa mi ha portato la mia inquietudine, dall’idea iniziale di fare un piccolo viaggio a rimuginare sulla solitudine. La situazione è questa: ho qualche giorno di ferie, pochi soldi, sono sola e non sono in forma, ma il pensiero su Ulisse mi ha galvanizzata, posso viaggiare da sola, posso partire allo sbaraglio, senza meta, fermandomi dove mi va, certo ho una cifra irrisoria a disposizione, circa 300 euro, ma pure questa situazione dà un ulteriore brivido, parto senza sapere cosa fare, con poco denaro, non serve la carta di credito, ho già speso tutto per il mese prossimo e il conto è vuoto, ho solo 325 euro per l’esattezza e sono sola, se foro una ruota sono fritta. Domattina è domenica e parto, direzione Roma, prenderò la E45 a Pieve Sistina, ora preparo una borsa/sacco con un paio di panta, un paio di canotte, un paio di abitini in jersey che non si stropicciano e la biancheria, all’ultimo infilo dentro il bikini.
Capitolo 2
Marco
Sveglia senza sveglia, colazione con caffelatte e bombolone, quest’ultimo l’avevo nel frigo, era un po’ vecchiotto, l’ho scaldato nel forno, non nel microonde, altrimenti mi diventa di plastica. Controllo di aver chiuso tutto, salgo in auto, sono un po’ dispiaciuta perché ho fatto un po’ tardi, ho dormito sino alle nove e trenta, recupererò. Pochi chilometri e faccio benzina, 30 euro che se ne vanno. Certo che quello che abbiamo dentro di noi è ben strano, a me non piace guidare, eppure adesso mi piace, mi sento come i tipi della beat generation, ascolto la radio e scivolo sul nastro d’asfalto. Un cartellone attira la mia attenzione. -Ma guarda, a Sarsina c’è la sagra, è la festa di San Vicinio.- Decido di fermarmi, avrò fatto al massimo una quarantina di chilometri, ma ho fame, il bombolone quasi rancido mi è rimasto sullo stomaco e nelle sagre dei paesi di montagna di solito si mangia bene e si spende poco. La sagra è nella piazza principale, c’è anche la fiera dei pittori e l’orchestra beat/rock o forse metallara, sono bravi e fantasiosi, cantano e suonano con un sacchetto dell’immondizia nero sulla testa, sembrano degli adepti del Ku Klux Klan, solo che hanno il cappuccio nero anziché bianco, mi piacciono, sono in tema. San Vicinio in effetti è il fustigatore dei diavoli. Allo stand sono ben forniti e molto organizzati, i prezzi assai modici, ordino cappelletti al ragù e i crostini con un quartino di vino e una bottiglietta di acqua, mi assegnano il tavolo, mi porteranno loro il cibo. I cappelletti sono molto buoni, piccoli e con molto ragù, i crostini sono uno al pomodoro, uno ai fegatini e uno ai funghi porcini: di quest’ultimo me ne sarei mangiato volentieri un altro, il vino è passabile, forse è Sangiovese. Alle mie spalle c’è la tavolata dei pittori rumorosi, saranno una cinquantina e qualcuno pure esigente, non è mai sazio, eppure i sarsinati sono stati generosi con loro, gli hanno offerto lo spazio per esporre e li sfamano pure. Sono indecisa se andare al bar a prendere un caffè o prendere un gelato, opto per l’ice-cream, la scelta è infelice, dopo una leccata mi cade a terra, sono assai delusa, non ho più il gelato e devo pulire l’asfalto dal sorbetto, che si liquefa in piccoli rivoli, torno dentro al bar per chiedere qualche tovagliolo di carta, esco… un affascinante uomo sui quarant’anni in jeans e maglietta bianca ha pulito il tutto e mi sta guardando sorridendo.
La ringrazio, ma non doveva, davvero, sono in imbarazzo, non avrei lasciato sporco, ero entrata al bar per chiedere della carta.
Ti ho vista con gli occhioni sgranati, guardavi a terra il gelato, delusa come una bambina a cui portano via la caramella, prima ancora ti ho osservata sola al tavolo con quel quartino di vino, mi hai ricordato la bevitrice d’assenzio di Edgar Degas, la stessa disperata solitudine. Il gelato caduto è stato una manna per me, ho la scusa per presentarmi, ciao mi chiamo Marco.
Mi porge la mano, gliela stringo.
Ciao, io sono Giulia, ma davvero ho l’aria desolata della bevitrice d’assenzio? Per fortuna che mi hai paragonato alla versione di Degas e non a quella di Picasso, altrimenti ti avrei girato le spalle.
Nel famoso quadro di Degas sono rappresentati una prostituta e un barbone. La donna ha davanti a sé un bicchiere pieno di assenzio, un liquore verdastro, aromatizzato con menta e anice, oggi proibito, ma molto comune intorno alla metà dell’Ottocento. Inizialmente usato come farmaco per ridurre la febbre ai soldati impegnati in battaglia, l’assenzio divenne tanto popolare fra i parigini che molti caffè istituirono l’ora verde, una specie di movida o di aperitivo, come è di moda oggi. L’assenzio divenne l’emblema di tanti personaggi famosi: Baudelaire, Verlaine, Picasso, Dostoevskij, Rimbaud, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Gauguin, Zola e Oscar Wilde ne andavano pazzi, soprattutto per i suoi effetti allucinogeni. La prostituta di Degas e l’uomo hanno lo sguardo perso nel vuoto, la donna mi assomiglia nei tratti del volto, è pervasa da un senso di sconfitta totale, di rassegnazione, chissà quanti l’hanno calpestata, togliendole anche l’ultima briciola di autostima. L’uomo pure è uno sconfitto, ma sembra fregarsene, sembra non soffrirne.
Non avrei mai potuto paragonarti alla bevitrice di Picasso, tu non hai le unghie per difenderti, si capisce dal tuo sguardo che non sei capace di ferire.
La bevitrice d’assenzio di Pablo Picasso è sì sola al tavolo col liquore, ma ha le dita come artigli, il volto spigoloso e cattivo, gli occhi a fessura, le labbra taglienti, con i capelli neri stretti in un cocuzzolo da megera, fate conto di vedere Crudelia De Mon. La solitudine questa se l’è meritata, mentre la bevitrice di Degas è stata la vita a