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Il miele dell'angelo
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E-book313 pagine4 ore

Il miele dell'angelo

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Info su questo ebook

Giulia si sente perduta. Qualche giorno dopo la morte di sua madre, con la quale era legata da un rapporto straordinario, a causa di un incidente, suo figlio finisce in coma. Lei ha già sofferto di crisi depressive e i nuovi eventi la riportano a un passo dal baratro, tanto da spingerla quasi al suicidio ma per amore di suo marito, lei decide di tener duro e continuare. Passano i giorni e nonostante il bambino non si sia ancora svegliato e continui a peggiorare, lei è sempre più convinta che guarirà. Non sa nemmeno lei da cosa sia generata tale certezza, se non da qualche positiva sensazione che le è rimasta dopo aver fatto un sogno che non ricorda.
Così, grazie a quelle poche sensazioni e a quanto leggerà sulle pagine scritte da una giovane infermiera molti anni prima, lei capirà e imparerà cose che non poteva neppure lontanamente immaginare, conoscerà ciò che aveva vissuto sua madre prima di diventare tale, troverà la forza di cui ha bisogno per affrontare quei momenti, conoscerà la terribile storia di una ragazzina brutalmente assassinata oltre quattro decenni prima e soprattutto, scoprirà che oltre la morte c'è ben altro.
E che gli Angeli esistono davvero.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2016
ISBN9788869630798
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    Anteprima del libro

    Il miele dell'angelo - Oscar Di Qual

    Oscar Di Qual

    IL MIELE DELL’ANGELO

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869630798

    A Lucia, Flavio e Vanessa.

    Antefatto

    Il bambino aprì gli occhi e si sentì perduto.

    Uno sciame impazzito di pensieri ed emozioni s’infranse contro la barriera generata dalla sua incapacità a comprendere ciò che stava succedendo e quando tutto si cristallizzò nel puro e semplice terrore, si guardò intorno.

    Vide la nebbia, vide le ombre che si muovevano in essa e capì di essere solo.

    I suoi genitori non erano lì e nessuna di quelle figure che vagavano lente e indifferenti intorno a lui, l’avrebbe aiutato. Cercò di piangere ma non riuscì a farlo. Cercò di gridare ma la voce gli moriva in gola. Cercò con tutte le sue forze di tirarsi fuori da quel brutto sogno ma non servì a niente.

    Lì era e lì rimase.

    Blande iridescenze lattiginose fluttuavano nella bruma, appena sufficienti a impedire che il buio più assoluto dominasse sul nulla in cui era imprigionato e dopo aver atteso a lungo una salvezza che non faceva parte di quel momento, decise di muoversi. Se rimaneva in quel posto, sarebbe diventato anche lui come quelle forme oscure che si muovevano nella nebbia. Nient’altro che un’ombra.

    Il bambino camminò a lungo.

    Tempo e spazio si diluirono e si dispersero nei flutti della sua disperazione e infine, stremato, si fermò. Cercò conforto nel perfido abbraccio della rassegnazione e non si oppose più. Ormai aveva capito che quello era il suo posto. Aveva capito che non avrebbe più dormito nel comodo letto della sua stanzetta colorata e che i suoi genitori, avrebbero dovuto imparare a fare a meno di lui. E lui di loro. Ora apparteneva a quel luogo e qualcosa gli suggeriva che a quel punto, era giusto così. Non poteva essere altrimenti.

    Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare come fosse arrivato in quello strano, orrendo posto. I suoi ultimi ricordi di PRIMA erano legati alla sfera Bàkugan che papà gli aveva comprato. Quella rossa, che diventava un drago e che Mattia e Simone gli avrebbero invidiato di brutto. Quella che aveva così desiderato, per cui aveva tanto pianto e subito i rimproveri di sua mamma. Ricordò con dolorosa chiarezza la gioia provocata dalla confezione blisterata contenente la sfera nelle sue mani, in fila alla cassa del supermercato e il volto sorridente di suo padre chino su di lui ad allacciargli la cinghia del casco, poi più niente.

    Poi si era ritrovato lì, tra le ombre.

    In quel momento si accorse di non avere più paura o quantomeno, di non temere quelle figure vaganti che popolavano i vuoti nebbiosi in cui era finito. Loro non s’interessavano a lui e lui doveva fare altrettanto. Era ormai chiaro anche per lui che dove si trovava in quel momento, si era tutti soli.

    Adesso il bambino si sentiva triste, confuso come non mai e stanco oltre ogni limite ma nello stesso tempo, un vago ma crescente senso di pace lo portava a tranquillizzarsi sempre di più. Forse doveva solo abituarsi a stare in quel posto e se fosse passato abbastanza tempo, se lui nel frattempo non avesse perso la testa, presto o tardi la faccenda si sarebbe risolta.

    Sì, doveva solo stare calmo, aspettare e magari, per ingannare il tempo, passeggiare un po’ come quelli intorno a lui, pensando ai suoi genitori, ai nonni, agli amici e cercando di ricordare cosa fosse successo.

    Presa questa decisione, s’incamminò lentamente nella foschia, sforzandosi di pensare ma più il tempo trascorreva, più questo gli riusciva difficile. Era come se la nebbia avesse trovato il modo di entrare anche nella sua testa, densa, ostinata e inesorabile, decisa a spegnere anche l’ultima scintilla di coscienza, a far morire definitivamente il poco che ancora rimaneva in lui. Una furiosa scarica di terrore scosse il bambino. Gli permise di sottrarsi al torpore malato in cui stava sprofondando e questo, fece sì che lui potesse udire qualcosa.

    Una sensazione. Una voce senza suono.

    Un richiamo.

    Doveva andare. Senza perdere altro tempo.

    Con decisione, riprese a muoversi nella nebbia, verso la direzione che gli era stata indicata.

    Camminò ancora a lungo e con il passare del tempo, crebbe in lui la spaventosa certezza che non sarebbe arrivato da nessuna parte. Il richiamo non si era ripetuto e nell’oscura sterilità di quel luogo, era impossibile capire se stava procedendo nella giusta direzione. Il desiderio di fermarsi e arrendersi cresceva passo dopo passo, ma il bambino tenne duro. Lo stavano cercando, non poteva fermarsi adesso.

    Così continuò a vagare faticosamente e dolorosamente nella foschia fino a quando, ciò che restava di energie e speranze si esaurì completamente. Allora si arrese e si fermò.

    Aveva perso e doveva rassegnarsi a questo.

    Il bambino si sentiva talmente esausto che ormai la cosa non lo spaventava e anzi, lo rendeva quasi felice. Lo alleggeriva di qualcosa che andava ben oltre le sue possibilità.

    Di una responsabilità troppo grossa.

    Non aveva nemmeno sette anni, come potevano pretendere che lui riuscisse da solo a tirarsi fuori da quel brutto pasticcio?

    Nel vuoto nebbioso del suo nuovo universo, osservò le ombre vaganti e pensò che se loro non andavano via da quel posto, voleva dire che stava bene così, che forse ci si doveva solo abituare. Che sarebbe stato bello lasciarsi andare e non pensare più a niente. Pensò che se i suoi genitori ci tenevano davvero a lui, l’avrebbero trovato loro. Lui si sentiva troppo stanco e avrebbe aspettato, magari muovendosi lentamente nella nebbia, come tutti gli altri.

    Formulò qualche altro pensiero rabbioso e confuso e poi, udì il fruscio.

    Alzò lo sguardo e tutto si dissolse in emozione e meraviglia. Non poteva crederci!

    Sicuro di essersi sbagliato, attese qualche momento e quando la gigantesca sagoma dotata di ali e lunga coda sfrecciò di nuovo appena sopra la coltre di nebbia, il bambino levò le braccia a quel cielo che non poteva vedere e rise.

    Non si era sbagliato.

    Era il drago. Era venuto proprio per lui, per cercarlo.

    Per guidarlo.

    Non perse altro tempo.

    Ignorando paure e stanchezza, il bambino riprese il cammino, corroborato dalla forza di nuovi pensieri.

    Forse dove stava andando, avrebbe visto anche il gigante e anche se sapeva di non aver niente da temere perché era buono, la cosa lo intimoriva abbastanza. Non capitava tutti i giorni di vederne uno con i propri occhi.

    Accompagnato dai regolari passaggi del drago, il bambino camminò ancora per lungo tempo, affrontando e superando faticosamente nuovi momenti di grande difficoltà, come quando il mettere insieme un passo dietro l’altro, era divenuto poco meno che impossibile. Quando la stessa nebbia sembrava lottare per trattenerlo, addensandosi spietatamente intorno alle sue gambe, densa e consistente come fango.

    Quando lo slancio generato dall’euforia e dalla speranza era andato lentamente ma inesorabilmente scemando, lasciandolo di nuovo a fare i conti con una stanchezza infinita e con il tremendo desiderio di fermarsi definitivamente e così, di lasciare che tutto andasse come doveva andare.

    In quei lunghi momenti, più di una volta, il bambino smise di camminare, così stremato da desiderare più di ogni altra cosa di arrendersi e di perdersi definitivamente nella nebbia, in modo da potersi finalmente riposare ma il drago non gli permise di fare ciò. Il drago aveva un compito preciso.

    Il drago volò sopra la sua testa, in cerchi concentrici sempre più stretti e veloci. Volò instancabile e senza parlare, gli parlò. Il drago non lo lasciò andare, rimase tutto il tempo con lui e infine, lo condusse alla meta.

    Il bambino vide il castello oltre le nebbie, lo riconobbe subito e sorrise.

    Non vi era mai stato ma lo conosceva bene.

    Avvicinandosi, osservò gli ultimi volteggi della creatura tra le torri del maniero e poi, la sua attenzione fu attratta da quello che vedeva vicino al portone d’ingresso, oltre il ponte levatoio.

    C’era qualcuno.

    Sì, vedeva qualcuno, però non capiva bene. Non era il gigante e non erano i suoi genitori. Non conosceva quelle persone ma chiaramente, erano lì per lui. Lo stavano aspettando, per aiutarlo. Felice, si mosse nella direzione del ponte levatoio ma riuscì a fare solo pochi passi.

    Il suo cammino finì in quel momento.

    Si sentì portare altrove da una forza inaudita e chiuse gli occhi. Per un istante lo sfiorò l’idea di essere stato portato in cielo dal drago ma quando realizzò di essersi fermato, quando trovò il coraggio di riaprire gli occhi, capì che le cose non stavano così.

    Il castello, la nebbia, le ombre e chi lo stava aspettando oltre il ponte levatoio, non esistevano più.

    Spariti.

    Intorno a lui, nient’altro che tenebre.

    Cos’altro era successo? Dov’era finito?

    Disperato, tentò inutilmente di sfogarsi con il pianto. Ormai era quasi arrivato, l’avevano trovato per riportarlo a casa e adesso si era di nuovo perduto. Forse definitivamente.

    In quell’oscurità, chi avrebbe potuto trovarlo?

    Di nuovo in preda al terrore, rimase fermo nel buio a cercare di capire cosa sarebbe successo da quel momento in poi e dopo qualche istante, senza nessun preavviso, i ricordi tornarono con forza e rapidità straordinaria, facendosi strada nell’intrico della sua angoscia. Nitide immagini di ciò che era stato PRIMA riempirono la sua testa. Frammenti di una vita che gli era appartenuta ed era finita chissà dove. Il bambino ricordò i suoi genitori, i loro abbracci e i rimproveri. I baci dei nonni e le fiabe. I suoi giocattoli, le corse nel parco e la sua casa. Le feste di compleanno, i regali di Natale, i compagni di scuola e la maestra. Ricordò il luna park, il mare e la piscina. Ricordò ogni cosa e infine, ricordò anche il motivo per cui non si trovava casa con i suoi genitori.

    In quell’istante, vide la luce.

    La luce lo chiamò e lui non ebbe più paura.

    Ecco dove doveva andare. Il richiamo era caldo e spietato, dolce e feroce.

    Sì, finalmente sarebbe stato al sicuro.

    Cominciò a muoversi in quella direzione e mentre camminava, si rese conto di una cosa davvero strana. Ormai aveva capito che era salvo, che non aveva più niente da temere. Questo avrebbe dovuto renderlo felice invece, via via che si avvicinava al punto in cui finiva l’oscurità, sentiva crescere in lui una tristezza infinita.

    Doveva raggiungere quella luce, ma nello stesso tempo, per qualche motivo che non era in grado di comprendere, non desiderava farlo. Pensò di cambiare direzione e tornare indietro per cercare di ritrovare il castello, ma la forza che lo stava richiamando verso la fonte luminosa non era più opponibile. Continuò.

    Ormai era quasi arrivato.

    Uno straordinario senso di pace e serenità dissolse in lui la tristezza. Cancellò ogni dubbio. Adesso si sentiva felice di poter andare. Ancora pochi passi e sarebbe stato finalmente libero. Ormai era fatta.

    Si apprestò a entrare nella luce ma non riuscì a farlo.

    Dietro di lui, qualcuno lo fermò.

    Nell’oscurità, capì che erano state due persone e capì che erano proprio le due persone viste oltre il ponte levatoio.

    Lo avevano seguito.

    La donna vestita di bianco gli disse che doveva tornare indietro con loro e lui pensò che fosse una fata.

    Obbedì senza nessun timore.

    Il bambino che gli teneva la mano aveva gli occhi gialli e sorrideva sempre.

    1

    Era sicura di crollare in pochi secondi, invece non riesce a dormire.

    Subisce il lento trascorrere dei secondi, scanditi dai respiri profondi e regolari di suo marito, già profondamente addormentato al suo fianco e subisce il martellante logorio di pensieri dolorosi e nostalgici. Sente un rumore e pensa che sia stato suo figlio. Forse ha avuto un incubo e si è svegliato. Pensa che probabilmente abbiano sbagliato a portare anche lui, quel pomeriggio.

    Si alza dal letto e va a controllare ma il bambino sta dormendo tranquillamente, poi si ricorda del gatto che vive con loro da un paio di giorni e deduce che il rumore che ha sentito poco prima deve essere stato opera dell’animale. Copre le spalle del bambino con il piumino, gli bacia la fronte e dopo aver dato un’occhiata al gatto in cucina, torna nel suo letto.

    Pensieri e dolore hanno poca pazienza e con lei, non hanno ancora finito.

    Non si è mai sentita così stanca.

    Vorrebbe soltanto ricevere la grazia di un sonno ristoratore ma nella sua testa, qualcosa che sa imporsi e la vede in maniera diversa dalla sua, invece che farla dormire, la riporta con il pensiero a cinque giorni prima, al lavoro, quando aveva sentito lo squillo del suo cellulare parcheggiato nel cassetto della scrivania.

    In quel momento era impantanata e non aveva potuto rispondere subito e continua a domandarsi cosa sarebbe successo se invece l’avesse fatto.

    Magari sarebbe riuscita a fare qualcosa.

    Si era impantanata di brutto con un cliente, al telefono aziendale e suo malgrado, si stava sciroppando le tediose, interminabili lamentele del medesimo, profondamente insoddisfatto dei rendimenti annuali del fondo che lei gli aveva proposto e convinto a sottoscrivere tempo prima. Intanto che le rimostranze senza fine del tipo continuavano a mettere a dura prova la tenuta del suo sistema nervoso, lei aveva aperto il cassetto, letto sul display del telefonino il nome di chi la stava cercando e immediatamente l’allarme era partito. Qualcosa non stava girando per il verso giusto.

    Sua madre non la chiamava MAI, durante l’orario di lavoro.

    Un guizzo nello stomaco. Un brutto presentimento.

    Quando poi la suoneria del cellulare non si era zittita, come solitamente succede quando chi sta chiamando dall’altra parte riattacca, lei si era guadagnata una sicura nota disciplinare perché aveva praticamente sbattuto il telefono in faccia all’incazzato risparmiatore.

    Non aveva potuto fare altrimenti.

    Quello amava i monologhi e aveva fatto della lamentela una ragione di vita e lei doveva assolutamente rispondere al cellulare. Dopo aver premuto il tasto verde di risposta, non aveva sentito la voce di sua madre ma le deboli voci in sottofondo dei partecipanti a qualche programma televisivo del mattino e a quel punto, l’inquietudine si era istantaneamente evoluta in angoscia.

    Aveva così chiesto e ottenuto dal suo diretto superiore il permesso di uscire in anticipo e con l’auto, si era concentrata nell’impresa di attraversare il caotico pezzo di città che separava la filiale dalla casa di sua madre nel più breve tempo possibile. Durante il tragitto, lei aveva più volte tentato inutilmente a richiamare e altrettanto inutilmente aveva provato ad auto convincersi che forse sua madre aveva semplicemente messo la cornetta del telefono fuori posto, o era tranquillamente impegnata in una lunga conversazione con qualche amica, ma chi gestiva le operazioni nel suo stomaco, si era affrettato a farle sapere che la faccenda non era così semplice.

    Arrivata nei pressi del condominio, non aveva perso altro tempo in cerca di un inesistente rettangolino d’asfalto libero su cui parcheggiare l’auto, ma si era limitata a lasciarla in seconda fila con le quattro frecce lampeggianti, catapultandosi poi nell’ingresso del vecchio stabile in cui lei stessa era entrata e uscita per i primi ventisette anni della sua vita. In quel momento la guardiola dei custodi era vuota senza attendere oltre, lei aveva preso l’ascensore. Avrebbe preferito salire con qualcuno, perché nei secondi impiegati per raggiungere il terzo piano, il Generale delle Armate Gastriche non aveva fatto rientrare l’allarme, anzi. Il Generale aveva progressivamente alzato il tono della voce e quando lei si era trovava a tu per tu con la porta chiusa dell’appartamento di sua madre, ormai urlava a squarciagola.

    Lunghi secondi a suonare inutilmente il campanello e poi si era avventata sulla maniglia. Questa aveva fatto quello che era nelle sue possibilità e aveva girato, ma la porta non si era aperta. Ovviamente, in quel momento comandava la serratura di sicurezza. Altri interminabili secondi perduti nel tentativo di convincere dita di legno e ballerine a recuperare dalla borsa le chiavi compatibili con la serratura in questione e poi, per riuscire a infilare la chiave nella toppa. Aveva aperto la porta, fatto un paio di passi nell’appartamento e chiamato. In fondo al corridoio aveva visto il persiano leccarsi tranquillamente una zampa e quando invece di sua madre le aveva risposto qualcuno che la sapeva lunga sulla preparazione del pesto ligure, le ultime, vane speranze che fosse soltanto un falso allarme, che non era successo niente di grave, si erano immediatamente disperse come foglie al vento. Ancora qualche istante in cui aveva preso atto di quanto fosse fondamentale l’uso della patata nella salsa in questione, poi era riuscita a convincere i suoi piedi riluttanti a portarla lungo il corridoio. Aveva lanciato una breve, inutile occhiata in cucina, ma questa era deserta. La cosa non l’aveva sorpresa, perché in quel frangente, il Generale indicava altrove. Se si fosse potuto vedere, il suo indice avrebbe puntato con decisione verso il salotto. In quel momento, quella era esattamente l’ultima cosa che avrebbe voluto fare nella sua vita, ma aveva proseguito comunque in quella direzione e ancora prima di superare con lo sguardo l’ostacolo costituito dallo stipite della porta del salotto e di vedere le gambe di sua madre per terra, aveva saputo che ormai era troppo tardi.

    2

    Dei momenti immediatamente successivi, adesso non le restano che poche immagini confuse. Il panico è una brutta bestia.

    Ricorda un manichino scomposto con le sembianze di sua madre disteso malamente sul pavimento e forse, di aver gridato. Occhi annebbiati in un volto grigio e spento, trasformato in qualcosa di sconosciuto dall’ultimo dolore e di aver scioccamente tentato di risolvere il problema con qualche schiaffetto su guance morte, di cera, pronunciando in maniera isterica e meccanica il sostantivo di cinque lettere pieno di emme, imparato a poco meno di un anno di vita. Ricorda di aver rimesso a posto la cornetta penzolante e di aver assurdamente notato la necessità per sua madre di recarsi quanto prima dal parrucchiere, perché si cominciava a vedere la ricrescita sotto il castano chiaro della tinta. Ricorda di essersi ritrovata sul ballatoio e di aver suonato i campanelli degli altri interni del piano. I volti straniti alle porte, le sue parole confuse e le mani sul volto di un’anziana vicina dopo essere entrata nell’appartamento di sua madre. La sua telefonata a Lorenzo e la difficoltà a mettere insieme una parola dopo l’altra. L’arrivo della barella e i paramedici chini sul corpo riverso in salotto, i loro volti concentrati e le domande che le avevano fatto su sua madre. La corsa in ambulanza, il suono violento della sirena e il pensiero della Panda parcheggiata male. La barella con sua madre che viene tirata giù dall’ambulanza e portata via di corsa. La sala d’aspetto, l’arrivo di Lorenzo e le parole del medico che sanciscono la perdita di chi l’ha messa al mondo. Ricorda la camera, il letto e i tubi. Le ore di veglia intrise di stanchezza e rassegnazione. Gli occhi spenti e semichiusi, il rumore alieno della respirazione assistita e le risposte difficili da trovare alle domande di Samuele. Ricorda l’odore dolciastro della morte imminente e l’ultimo respiro. Il petto spaventosamente immobile e la conferma del medico di turno. Le lacrime, le telefonate, le condoglianze e la penosa scelta della bara. Ricorda le strette di mano e i volti di parenti che non vedeva da anni, la messa, lo stupore per la gran quantità di persone presenti e la camminata in prima fila dietro il feretro. La discesa della bara nella fossa, il rumore della terra sul legno, la soffocante tristezza e lo sguardo serio di Samuele su di lei. Ricorda i saluti e i ringraziamenti ad amici, parenti e perfetti sconosciuti e il rientro a casa, poche ore prima.

    Ora vorrebbe solo riposare ma qualcosa le impedisce di farlo. Non riesce a staccare l’interruttore.

    È un qualcosa che le fa una gran paura e che sa già, farà una gran fatica a superare.

    Da un paio di giorni è ufficialmente orfana e anche se è sempre stata consapevole dell’inevitabilità di questo, le viene tremendamente difficile prenderne atto. No, non è così semplice. Non per lei. Pensa a chi ha perso in maniera ormai così spaventosamente definitiva e sente l’ormai familiare caldo formicolio delle lacrime che le corrono sulle guance.

    Nel buio della sua camera si rivede bambina, mentre gioca con le bambole sul tappeto del salotto, in attesa del rientro dei suoi genitori e poi, nonostante le lacrime, sorride. Le è tornato in mente l’ippopotamo platinato.

    Conserva ancora un nitido ricordo del donnone biondo che badava a lei quando i turni impedivano a sua madre e suo padre di rimanere a casa. Questa donna, dietro pagamento, andava a prenderla a scuola, le metteva qualcosa di più o meno commestibile in un piatto e mentre lei faceva i compiti o giocava, attendeva il momento di poter tornare a casa sua leggendo fotoromanzi o saltando convulsamente da un canale all’altro del televisore in cera di una soap opera, un film o quant’altro reputasse degno della sua attenzione. Della compagnia che le faceva quella donna, rammenta un complicatissimo gioco di carte che saltuariamente cercava di farle imparare, i furiosi sbadigli impreziositi da una cornice di denti cariati che le ricordavano l’illustrazione di un ippopotamo presente sul suo vecchio libro degli animali e le pestilenziali zaffate che la obbligavano a trattenere il respiro quando le capitava la sventura di entrare nel raggio d’azione dei miasmi velenosi che quella era in grado di emettere al posto del fiato. Ovviamente, lei non era contenta di passare i pomeriggi in quella maniera ma i suoi genitori le avevano spiegato che a causa del LAVORO, loro non potevano rimanere sempre a casa e nonostante i suoi sei o sette anni, lei aveva capito e si era quindi rassegnata. A quell’età non sapeva quasi niente di questo LAVORO che loro svolgevano in ospedale, ma ricorda bene che già allora, era consapevole del fatto che si occupavano di cose importanti e difficili. Le avevano spiegato che la mamma aiutava le persone malate e il papà riparava le cose pericolose e ai suoi occhi di bambina, questo li rendeva degli eroi. Più tardi aveva capito che erano infermiera ed elettricista e che si erano conosciuti proprio sul posto di lavoro, quando la ditta in cui lavorava suo padre aveva ottenuto l’appalto per la manutenzione degli impianti ospedalieri.

    Da ciò che le avevano raccontato, si erano subito innamorati, nel giro di poco più di un anno, sposati e poco dopo era nata lei, la bellezza di ormai trentasei addietro.

    Lei, che è miracolosamente sopravvissuta al micidiale alito dell’ippopotamo biondo ed è cresciuta coccolata e serena, nutrendosi in gran quantità dell’amore di chi non c’è più. È diventata adolescente, ha studiato e incassato le sue delusioni. Ha trovato un buon lavoro, ha conosciuto chi sta dormendo al suo fianco, con lo stesso ha messo su famiglia, si è indebitata per lunghi anni per acquistare una discreta casa e dopo un tentativo fallito, è diventata mamma.

    Come la stragrande maggioranza della popolazione contemporanea di questo paese, anche lei ha avuto i suoi alti e bassi e la morte di sua madre, seppur così dolorosa, dovrebbe essere da lei accettata e archiviata in tempi ragionevoli come uno degli eventi più naturali con cui deve confrontarsi una persona, ma purtroppo, è sicura che se mai sarà in grado di farlo, le sarà necessario molto, ma molto tempo. Si vergogna per un pensiero che le fa compagnia da quando sua madre ha esalato l’ultimo respiro. È una constatazione che non le piace per niente, ma che non può ignorare. Amava tantissimo suo padre, ma ora ha capito che si trattava di un amore

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