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Il Mare in Valigia
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E-book278 pagine3 ore

Il Mare in Valigia

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Info su questo ebook

Come un'onda, la vita cambia e si muove. Fin dove l'amore può condizionarla? Fabrizia non lo sa, ma è pronta a scoprirlo, con i piedi affondati nella sabbia della sua spiaggia, di fronte al  suo mare.
Come un’onda, l’amore si trasforma.
La capitale di un’Italia dilaniata da lotte politiche e piena di eventi ed una città di provincia dove il mare parla, fanno da sfondo ad un amore tormentato da eventi, misteri, inganni e crudeli verità.
Affrontando tutto questo, in un viaggio che ripercorre gli anni di piombo e si spinge alla fine del millennio, per Marco e Fabrizia è tempo di affrontare il passato e il presente. Per ritrovare, insieme, il coraggio di ripartire.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2019
ISBN9788833463681
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    Anteprima del libro

    Il Mare in Valigia - Fulvia Frallicciardi Canova

    Epilogo

    Capitolo I

    Gaeta,

    14 ottobre 1993, pomeriggio

    Seduta lì sulla sabbia umida, con il salmastro che le si appiccicava alla pelle del viso, Fabrizia riusciva finalmente ad adattare il ritmo del respiro alle esigenze dei suoi pensieri e dei suoi polmoni.

    Era questa la differenza: quando respirava a Roma, il suo fiato seguiva i ritmi frenetici in maniera meccanica; qui no.

    Qui, sulla spiaggia, davanti ai suoi scogli, era lei a scegliere quanto e come respirare. Come respirarlo.

    Respirarlo, il mare.

    Scendeva sulla battigia e pian piano i nodi che le avevano stretto le membra e i pensieri si scioglievano, tutti quei grovigli mentali e fisici si districavano. Oltre ai muscoli, che da pesanti si facevano flessuosi, i pensieri smettevano di cozzare, di accavallarsi confusi gli uni contro gli altri e si disponevano in un ordine consequenziale inaspettato.

    Sto bene qui, si disse Fabrizia per l’ennesima volta.

    Si era sempre sentita una creatura marina, discendente dalla famiglia dei delfini, tanto da meravigliarsi della consistenza e del colore della sua pelle; se all’improvviso si fosse ritrovata coperta di piccole, setose squame di un bell’azzurro argentato, non si sarebbe meravigliata affatto, anzi. Da bambina raccontava ai suoi amichetti che quando si feriva non perdeva sangue rosso e denso come il loro, ma verde e trasparente come alghe smeraldo.

    Era sempre stato così: solo in riva al mare, solo respirandolo riusciva a stabilire il valore delle sue azioni e a discernere i sentimenti dalle sensazioni.

    Era il mare il suo unico, vero confidente. Solo da lui si aspettava le riposte.

    Ecco perché adesso era seduta sulla sabbia, davanti a quell’azzurro intenso e spumeggiante; le sue vecchie Nike, informi e senza lacci, appoggiate vicino a lei, con i calzettoni arrotolati all’interno, i piedi liberi di giocare con la sabbia fredda, il rumore – no, il suono delle onde e lo scricchiolio dei granellini, infinitesimali, che fluivano e si attaccavano alla sua pelle.

    Da quanto tempo era lì?

    Un’ora? Due? Dieci minuti?

    La libertà di non essere obbligati a interrogare l’orologio era impagabile.

    Il tempo si dilatava, scivolava via, non aveva importanza. Che lusso!

    Cominciava a sentire freddo ai piedi, ma non si decideva ad alzarsi. Il pullover informe la proteggeva come una coperta e la pigrizia delle sue membra la fece sorridere: nessun obbligo!

    Pensò all’inutilità delle ore perse nel traffico cittadino. Più di cinque mesi senza tornare qui, cinque mesi di fila a Roma: ma come aveva fatto? Dove aveva trovato la forza e l’ossigeno vitale per resistere?

    Ora lo sapeva, si era semplicemente adeguata a quei ritmi forsennati, forzati, e come un automa era andata avanti, senza avere il tempo di riflettere. I pensieri più intimi e i sentimenti troppo ingombranti, che nelle ore stressanti di lavoro divenivano pesanti, li accantonava come vestiti smessi e li gettava alla rinfusa in una valigia che poi dopo, al mare, a Gaeta, avrebbe con calma messo in ordine.

    Ora aveva aperto quella valigia. Aveva riordinato le sensazioni, piegato per bene i sentimenti, buttato via i dolori che non le andavano più e cercato in fondo a tutto le gioie, quelle che quando ti servono non le trovi mai.

    Perciò sorrideva: aveva riacquistato il dominio delle sue sensazioni. Era pronta, pronta a decidere, pronta ad affrontarlo e, se fosse stato necessario, pronta a ricominciare un’altra vita.

    Capitolo II

    Roma,

    14 ottobre 1993, mattina

    Non l’avesse mai vista, quella mano su quella spalla.

    Perché mai era entrata nell’androne del palazzo proprio in quel momento di quella mattina, di quel giorno?

    Perché non era andata prima dal giornalaio o a prendersi un bel caffè? Perché non aveva attraversato la strada in maniera distratta e non era finita sotto a un autobus, di quelli grandi a due piani che lì in centro vanno come matti?

    Porsi queste domande era sciocco e fanciullesco, Fabrizia lo sapeva, ma soprattutto era inutile.

    Doveva succedere, doveva cambiare tutto.

    Quella mano… Un gesto voluto o una combinazione? Raziocinio, fato… Ma aveva importanza, poi?

    L’abbraccio di un uomo alla moglie: in quel gesto familiare, esclusivamente loro, Fabrizia aveva visto qualcosa di più forte di un amplesso.

    E lei? Cosa avrebbe dovuto fare, lei, in quel momento? Infilarsi in quell’abbraccio come fanno certi bambini con i genitori per rivendicare il loro ruolo affettivo?

    Ma lei quale ruolo poteva rivendicare? Non era una bambina e quelli non erano i suoi genitori. E poi non aveva mai pensato di doversi inserire fra loro due. Non ne aveva mai sentito il bisogno, certa com’era che l’intrusa, quella di troppo, quella arrivata dopo fosse l’altra, la cosiddetta moglie, e non lei.

    Accidenti, è mai possibile? Basta una mano, posata su una spalla, a far crollare la sicurezza di una vita intera.

    Una sciocchezza e lei, per la prima volta in quasi vent’anni, si era sentita l’altra.

    Non lo aveva pensato mai. Non in tutti quei giorni di Natale e Capodanno a brindare da sola, non nelle notti in cui la solitudine pesava come un macigno, non negli appuntamenti rinviati. Niente di tutto ciò aveva aperto la strada al dubbio come quella mano; perché, fino ad oggi, Fabrizia era stata sicura che la tenerezza, l’affetto vero, il sesso e l’amore fossero riservati a lei, a lei soltanto.

    Tacitamente, questo patto fatto a tre non le era mai sembrato da porre in discussione. Era nato così, per una serie di circostanze, ma era una certezza, una delle poche certezze in una vita piena di strane combinazioni, dove tutto era il contrario di tutto e solo i loro ruoli erano ben definiti: lui, lei, l’altra, e l’altra era Daniela, la moglie.

    Paradossalmente, era stata gelosa delle altre donne che lo avevano avvicinato in tutti quegli anni, ma mai della moglie.

    Perché, allora?

    Perché quel gesto appena visto, quel modo così familiare di avvicinarla a sé, l’aveva annientata. Era tutt’altro che innocuo: aveva un significato forte, importante, stava a dire che qualcosa li univa. E poi per lei quel gesto non c’era mai stato, o almeno ora non se lo ricordava.

    A cosa serviva, perché lo aveva fatto? Marco non era un ipocrita: doveva essercene un motivo. Non si trattava di buona educazione o di abitudine, perché questi sentimenti potevano esserci e lei li rispettava. No, era diverso. Era un’altra cosa, una cosa più grande, un segnale: lo stava perdendo.

    Frena, Fabrizia, stai esagerando, intervenne la sua vocina interiore. Troppe domande, una dietro l’altra e senza un interlocutore. Rischi di farti venire un ictus! Magari una spiegazione logica c’è.

    La vocina era quasi riuscita a convincerla…

    Marco si girò verso di lei lentamente, in maniera quasi impercettibile. Fabrizia lo intuì più che vederlo, perché il suo sguardo era ancora attratto da quel gesto, quei pochi secondi che sembrano aver fermato il tempo.

    Era uno sguardo che doveva bruciare, perché Marco si guardò la mano, seguì il filo invisibile che da lì lo portò agli occhi di Fabrizia e si sorprese nel vederla.

    Lei lo guardò giusto un attimo. Non voleva incontrare i suoi occhi: quelli li conosceva bene. Era quel gesto che voleva imprimersi nella memoria. Quel gesto che stava mettendo in discussione tutte le sue assurde certezze. E si domandò perché quelle certezze ora le apparissero assurde.

    Sentì come un’eco ovattata la voce di lei, in sottofondo. Non riuscì a distinguere le parole: stava parlando con Alfredo, l’usciere, untuoso e deferente al limite della sopportazione.

    Manca solo che sbavi e si inchini, pensò Fabrizia, ingiustamente, perché il povero Alfredo non c’entrava nulla con le sue angosce.

    Daniela continuava a parlare, ignara di tutto. Possibile che non si fosse accorta di niente? Che non avvertisse la tensione che stava crescendo nell’aria, che non sentisse il battito del cuore di Fabrizia, che a lei pareva assurdamente amplificato?

    Ignara di tutto, ma quando mai! Ignava, piuttosto. Lei sa alla perfezione come stanno le cose, ma le va bene così, le è sempre andata bene così…

    Erano anni, ormai, che Marco e Fabrizia stavano insieme. Erano una vera coppia: Daniela lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e si accontentava di essere la moglie ufficiale. Questa era stata la sua forza illusoria, la sua ipocrita sicurezza. Fabrizia ne aveva sempre sorriso, quasi compatendola, ma ora quel gesto ribaltava tutto, forse dimostrava che aveva avuto sempre ragione lei.

    Marco continuava a guardarla oltre le spalle di Daniela. Sapeva esattamente cosa Fabrizia stava pensando; tutto si poteva dire di quest’uomo e tutto dicevano i suoi avversari politici, ma non che fosse stupido. Tutt’altro.

    Era consapevole di quanto fosse stato destabilizzante, per lei, averlo colto in quell’atteggiamento. Avrebbe voluto spostare la mano, ma era come se non fosse la sua, come se pensasse che era quello il gesto che li avrebbe portati a una decisione.

    Anche a lui pesava quella sorta d’ambiguità, neanche per lui erano stati facili quegli anni. E ora, forse, era arrivato il momento di chiarire definitivamente i loro rispettivi ruoli.

    «Ci siamo, è giunta l’ora?» gli chiese Fabrizia con lo sguardo, quando riuscì a puntarlo nei suoi occhi. Lui vacillò appena, o forse fu solo una sua suggestione.

    Fu non più di un attimo: un battito di ciglia e Marco fu di nuovo se stesso, lo sguardo privo di ombre, diretto e fermo come quello di un leader.

    Sicuro, deciso, calmo, il politico nuovo: non più ambiguo o diplomatico al limite dell’incomprensione, bensì serio e responsabile.

    «Stai tranquilla» le dissero quegli occhi, «è un gesto, solo un gesto insignificante. Ecco, vedi? È finito.» Tolse la mano e si voltò verso di lei, salutandola.

    Anche Daniela si voltò, la guardò, la riconobbe.

    «Fabrizia, da quanto tempo! Come stai?» sorrise.

    Uno schifo, pensò. «Bene, grazie, e tu?» rispose invece.

    Chi se ne frega, voglio andare via!

    Tre o quattro convenevoli ancora, stupidaggini, «ti trovo benissimo» e la tentazione di una rispostaccia. Banalità al cubo. Daniela non attese neanche un suo tentativo di iniziare una conversazione: salutò, prese Marco sottobraccio e se ne andò.

    «Ciao, ciao, ci vediamo.»

    Fabrizia continuò a guardarli. Notò che Marco si era staccato dal braccio di Daniela e li vide andare verso l’auto di lei. Sapeva già che lui l’avrebbe salutata e che lei sarebbe salita in macchina per dirigersi verso la sua scuola, dove ormai da anni insegnava Storia dell’Arte, mentre lui sarebbe tornato sui suoi passi.

    L’andatura elegante, il portamento e la classe di Daniela erano innegabili. Aveva buon gusto, sobrio ma allo stesso tempo ben visibile, che si rifletteva sull’abbigliamento e sull’accostamento dei colori.

    Era una donna affascinante. Ormai Fabrizia la conosceva da anni: pur frequentandola ben poco, le provocava sempre sentimenti contrastanti.

    Smise di guardarli e si decise a salire in ufficio.

    Ma che bell’ascensore! Confortevole, caldo, quasi fetale, si trovò a pensare Fabrizia, che non ci aveva mai fatto caso. Eppure lo usava tutte le mattine.

    Sapeva che questo atteggiamento ironico e dissacrante era una delle sue vie di fuga quando la rabbia cominciava a montarle dentro.

    Stava fuggendo? Ebbene sì.

    Finalmente il suo ufficio: routine, lavoro, scartoffie…

    «Dov’è la mia penna? Non questa, l’altra!»

    Organizzare gli appuntamenti, telefonare, tornare per gradi a usare il cervello attraverso la normalità; risalire dal profondo di un’apnea, piano, per scongiurare l’embolia. Ecco, il respiro stava tornando al livello standard.

    Riuscire a sembrare quella di tutti i giorni, a ridere alle battute sceme di Andrea e a sostenere lo sguardo incuriosito e quasi paterno di Francesco, più difficile da ingannare.

    Laura, la sua amica nonché segretaria-tuttofare, si insinuò tra le due guardie del corpo di Marco e le fece l’occhiolino. «Hai visto la signora tu-mi-stufi? Ma come la sopporta?»

    «Laure’, lascia perdere che non è aria…»

    «Va bene, me ne vado. Solito caffè alle undici?»

    Fabrizia non fece in tempo a risponderle. Il rumore dell’ascensore, ora alle sue spalle, le bloccò il fiato; le porte si aprirono con un fruscio appena percettibile. Si sforzò di pensare ad altro.

    «Il numero dell’avvocato Brandini?»

    «Ah, eccolo.»

    Distraiti, Fabrizia, pensa a lavorare.

    L’ascensore si richiuse col medesimo fruscio. Passi di sottofondo, i suoi…

    «Accidenti, ma è sempre occupato!». Fabrizia sbatté giù la cornetta.

    Sopra a tutte le voci, una sola: la sua, quella del Grande Capo.

    «Fabrizia, puoi venire subito nel mio ufficio?»

    Neanche morta. «Certo, capo.»

    Aveva detto capo? E perché non presidente, onorevole, bastardo che non era altro?

    Che confusione oggi, chi caspita sei tu e chi accidenti sono io?

    Ora erano i suoi, di passi, ad essere attutiti dal tappeto marocchino. Bel viaggio, quello: il Marocco, i suoi odori, i colori.

    Ma sei scema? Che c’entra ora il Marocco? Concentrati, piuttosto.

    «Chiudi la porta». Squallidissimo, come nei film.

    Fabrizia lo guardò in faccia. Non gli faceva mica paura!

    Attese la sua voce. La voce di quegli occhi, di quella mano. In tutti quegli anni Marco era cambiato, cresciuto, maturato, splendidamente invecchiato, ma la sua voce era rimasta immutata: calda e avvolgente come la prima volta che l’aveva udita.

    Quanti anni prima?

    Troppi.

    Marco, in piedi dietro alla sua scrivania, sembrava quasi insofferente. Nel suo ufficio era in una posizione inattaccabile: aveva riconquistato il suo territorio e con esso la sua sicurezza.

    «Allora, vuoi spiegarti? E parla! Che fai lì impalata? Che ti succede?»

    Fabrizia lo guardò meglio e capì.

    Capì di essere un problema: un piccolo problema, un fastidio, quasi un sassolino nella scarpa.

    Un nodo allo stomaco, una sensazione quasi fisica di un pugno che toglie il fiato, impedendo di parlare. Muta, continuava a guardarlo negli occhi chiedendogli qualcosa di più, ma Marco abbassò i suoi. Non poteva!

    O non voleva?

    Fu di nuovo un attimo, si riprese subito.

    «Allora, tutta questa scena? Questo mutismo? Per cosa, per quel gesto innocuo? Stai diventando paranoica?»

    Fastidio, pensò lei, sono diventata un fastidio.

    Marco guardava la posta e la suddivideva, quasi come a dirle di sbrigarsi, che lui non aveva tempo da perdere con quelle stupidaggini.

    Furono queste, le parole non dette, a colpire Fabrizia come uno schiaffo e a dare finalmente un impulso ai suoi muscoli.

    E la stanza di colpo si capovolse, ruotò su se stessa. Le pareti e la porta, prima alle sue spalle, ora le vennero rapidamente incontro, la porta si spalancò, volti stupiti le sfrecciarono accanto. Raggiunse il suo ufficio, prese la sua borsa, l’agenda, il cellulare e capì che stava correndo solo quando sentì il suo nome, gridato ormai in lontananza.

    Capì che era stata lei a girarsi e a scappare via, non tutto il suo mondo.

    Il telecomando del cancello dell’autoparco, come al solito, fece cilecca al primo impulso.

    «E dai!»

    Le chiavi, maledette, sempre in fondo alla borsa. «Ma lo fate apposta a nascondervi?»

    La macchina. «Ci sono, ce l’ho fatta: via, via di qui. Accidenti, che traffico!»

    Era a casa, dopo circa un’ora di guida folle. Sicuramente si era beccata qualche multa. Sudata, stravolta, ma a casa, perfettamente consapevole che però non bastava, ci voleva di più: più distanza, più silenzio, più ossigeno.

    Non era mai stata ferrata in matematica, ma questa operazione era fin troppo semplice. Fabrizia la risolse in un sorriso: più pace, più chilometri, più aria vitale uguale il mare, uguale Gaeta.

    L’unica cosa da fare ora, oltre a ignorare il suono ininterrotto del telefono, era andare via. Una doccia veloce, poche cose buttate in fretta nel borsone: un jeans, un libro, due camicie, l’agenda, quella relazione da rivedere – servirà, oppure ho perso anche il lavoro?

    Nel panico, questo pensiero le strappò un sorriso amaro. Finì di vestirsi con i suoi splendidi, sformati, comodi vecchi vestiti: quelli per Gaeta, come le vecchie Nike.

    Lo squillo petulante del telefono si fece lontano, ovattato, quando con le mandate rabbiose della serratura si chiuse la porta alle spalle.

    Finalmente in macchina, un sospiro di quelli che partono dal punto più profondo dei polmoni per svuotarti il petto e la mente la riportò ad agire con presenza di spirito.

    Ci sono!

    Guidare le era sempre piaciuto, una sorta di training autogeno. La strada era talmente familiare che Fabrizia avrebbe potuto inserire il pilota automatico: la sua Panda 4x4 aveva già capito e andava da sola.

    Cosa mancava? Ah, sì! Una bella cassetta. La musica era indispensabile: Bruce, Battiato, Bob Dylan o Battisti? Le sue quattro B musicali, come li definiva Marco.

    Uno a caso.

    Battisti? Mah, perché no?

    Dal traffico più intenso e dalla confusione che si cominciava a intravedere di fronte alle scuole incrociate lungo il suo tragitto, Fabrizia intuì che doveva essere quasi l’una.

    L’ora di uscire da scuola… Non erano passati mica secoli da quando lei, a quell’ora, usciva dal liceo. Eppure sembrava tutto così lontano. Ci si metteva anche Battisti, accidenti a lui.

    «All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri, io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli…»

    Quello che non era riuscito a fare Marco, con il suo atteggiamento del cavolo, lo stava facendo la musica. Fabrizia, finalmente, crollò e pianse, cedette a lacrime silenziose e irrefrenabili. Non per il dolore, bensì per la nostalgia.

    Lucio Battisti…

    Fabrizia tornò indietro nel tempo. Mentre guidava, si asciugò il viso col dorso della mano, come fanno i bambini, e cominciò a ricordare come non faceva da tanto tempo.

    Lucio Battisti era stato il sottofondo musicale di tutte le loro giornate e lo sarebbe stato per anni.

    Tutti i coetanei di Fabrizia avevano qualche ricordo legato a una delle sue canzoni. Ormai la tecnologia permetteva di portarsi la musica in tasca, con delle cuffie collegate a piccoli aggeggi innovativi; ma loro no, loro avevano i dischi in vinile, il mangiadischi portatile rigorosamente giallo o arancione, e il porta 45 giri! Preziosi e delicati, quei dischi: se si graffiavano era un vero dramma.

    Ma lì, in quei cerchi concentrici neri e lucidi, Lucio c’era, accidenti se c’era, con la sua voce un po’ roca, i sospiri e i ritornelli.

    Era lì mentre andavano in gita, mentre si scambiavano i primi baci, quando giocavano a pallavolo sulla spiaggia. Facevano sega a scuola con Mi ritorni in mente, i pomeriggi studiavano con Emozioni e litigavano con Non è Francesca, poi facevano pace con Fiori rosa fiori di pesco e sul motorino a squarciagola volevano Annaaa!

    In quegli anni erano giovani, piuttosto incoscienti, forse illusi, ma soprattutto erano acerbi. Non sapevano niente del futuro, qualcosa del passato e poco del presente: quel presente che, loro malgrado, li stava catapultando verso anni bui, terribili.

    Fabrizia era un’adolescente e si stava avviando, inconsapevole e spensierata come la maggior parte dei suoi coetanei, verso quelli che poi i media avrebbero etichettato come Anni di piombo. Anni che avrebbero cambiato per sempre la sua vita, segnandola nel bene e nel male; anni di rabbia, di paure, di perdite, di distacchi dolorosi, ma anche di partecipazione e di coraggio.

    Anni in cui tutti loro, i giovani attivisti di questo o di quello schieramento politico, sarebbero stati usati. Ma questo forse lo avrebbero capito troppo tardi, quando non ci sarebbe stato ormai né il modo, né il tempo per rimediare.

    Era il 1970: in estate, la rivolta di Reggio Calabria, che con manifestazioni, scioperi e violenze era sfociata nella morte di un ferroviere, aveva fatto cadere il governo Rumor. L’attentato di piazza Fontana, coi suoi sedici morti e numerosi feriti, ancora teneva banco nell’opinione pubblica. Sui giornali e alla televisione si cominciava a parlare di eversione nera, servizi segreti, ingerenze internazionali. Gruppi di studenti, riuniti già dal ‘68, ora si ribellavano, manifestavano e cominciavano a organizzarsi anche in Italia.

    Era l’inizio della strategia della tensione.

    In più, l’America, impegnata in Vietnam in una guerra assurda

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