Malanottata
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Con Malanottata Giuseppe Di Piazza ci regala un giallo mozzafiato che si snoda fra i vicoli inaccessibili della Palermo più segreta. Una città assediata dalla mafia, dove pulsano passioni e forze primordiali. Una città dove Leo Salinas, eterno indeciso nei sentimenti e giornalista di talento, rischia la vita, ma anche l’anima, ogni giorno.
Giuseppe Di Piazza
Palermitano, giornalista ed editorialista al Corriere della Sera, è responsabile del supplemento romano. Ha lavorato lungamente tra la Capitale e Milano, dove ha diretto i magazine Sette e Max e l’agenzia Agr-Cnr. Ha cominciato la sua carriera nel 1979 al quotidiano L’Ora di Palermo, occupandosi di mafia. È autore di tre romanzi, tra cui I quattro canti di Palermo pubblicato anche negli Stati Uniti. Ha fatto diverse mostre fotografi che.
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Anteprima del libro
Malanottata - Giuseppe Di Piazza
GIUSEPPE DI PIAZZA
MALANOTTATA
logo HarperCollins© 2018 Giuseppe Di Piazza
Published by arrangement with
S&P Literary - Agenzia letteraria Sosia & Pistoia
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti
o persone della vita reale è puramente casuale.
© 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5897-588-6
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Amareggiati dalle iniquità della giustizia di Stato, i siciliani
svilupparono un proprio senso della giustizia.
JOSEPH BONANNO, Uomo d’onore
Can’t hurt you now
Can’t hurt you now
Because the night belongs to lovers
Because the night belongs to lust
PATTI SMITH, Because the Night
Palermo, agosto 1984
«Non si può amare una puttana.»
«Che ne sai?»
«Lo so.»
«Il tuo è un pregiudizio.»
«Paghi e lei dice di amarti. Questa è una certezza, non un pregiudizio.»
«Veruska non era così.»
«Ma dài, fammi il piacere» dice Serena, alzando gli occhi al cielo.
«Lei amava» provo a difendermi.
«Sei patetico solo a pensarlo. Se poi ci credi pure, mi preoccupi.»
«Serena, devi imparare a essere meno categorica.»
«La categoria degli scemi esiste.»
«Mi stai dando dello scemo?»
«No, stai facendo tutto da solo. Noi donne possiamo portarvi dove vogliamo, anche sull’orlo dell’idiozia.»
«È questa l’idea che ti sei fatta di me? Un idiota da portare in giro? Per fortuna non sto con te.»
«Non sto dicendo questo.»
«E cosa allora?»
«Che siete esseri umani semplici, forse troppo semplici.»
«Noi maschi?»
«Direi.»
«E voi invece? Regine della complessità e del pensiero profondo?»
«Leo, ti faccio un esempio. Quando c’è l’eventualità, dico solo l’eventualità, di scopare, noi ci facciamo molte domande: è un bene? Un male? Ha senso? È una storia che avrà un futuro?»
«E noi?»
«Voi uomini vi fate una sola domanda: a che ora?»
Sorrido. Ha torto su Veruska, ma non su di noi. Un noi che include Fabrizio, cioè il mio migliore amico e coinquilino, il mio compagno di lavoro Filippo, e quasi tutti gli altri. Serena ricambia il mio sorriso sciogliendo il nodo che si è creato frase dopo frase. Poi va in cucina e torna con una pesca. Prende il Giornale di Sicilia e comincia a sfogliarlo.
Resto della mia opinione: non posso dimenticare gli sguardi perduti dei vedovi di Veruska. Cosa può muovere un cinquantenne verso il burrone di un amore sbagliato, per di più con un’entraîneuse? Che vite hanno avuto il mio quasi zio e il gallerista? Cos’è mancato loro? Per quanto ne so, niente. Hanno scelto loro di innamorarsi? No, non si sceglie mai. Avevano soltanto imboccato la strada più facile che si sono trovati davanti. Una strada all’apparenza sicura: soldi in cambio di sesso. Nessun coinvolgimento, tempi e modi definiti da un accordo che è vecchio come l’umanità. Poi però il disegno lineare di sesso mercenario è diventato per loro un quadro completamente astratto, un Pollock di sentimenti non governabili. Si sono innamorati, quasi contemporaneamente, di una ragazza cecoslovacca che andava pazza per Raffaella Carrà. Una ragazza che non metteva limiti alla propria vita, anzi: non li vedeva proprio. Forse perché l’intera prima parte della sua esistenza era stata solo un susseguirsi di limiti, quelli imposti dal socialismo reale, un’organizzazione del mondo e degli esseri umani che agli occhi di un’adolescente doveva apparire la cosa più irreale e incomprensibile mai inventata da potenti senza cuore. Per questo Veruska era approdata in Italia, per questo probabilmente quei due uomini si sono innamorati. Per questo è stato sparso sangue.
Cinque mesi prima
Lilli rabbrividì. «Tu mi farai morire.»
«Va bene, chiudo la finestra.»
«Sto gelando» aggiunse strizzando gli occhi.
«Guarda che tra poco è primavera.»
«Sei cattivo.»
«Ci sono diciassette gradi…» le feci notare indicando il termometro a mercurio appeso accanto alla litografia di Arroyo che raffigurava un poliziotto di Franco mentre arrestava un operaio comunista ritratto alla maniera dei cubisti.
Cicova guardava me e Lilli seduti sul divano con un interesse eccessivo per un gatto. Neanche fossimo scatolette di cibo.
«Allora scaldami» mi chiese Lilli.
«Certo, amore» e la abbracciai con poca forza e molto calore. «Sono le otto e mezzo, li aspettiamo oppure comincio a cucinare?»
Lei mi strinse e rispose sussurrando quattro parole: «Pasta ca muddica atturrata».
Le sue labbra si posarono un secondo dopo sulla mia bocca, che si stava schiudendo per pronunciare qualcosa. Non ricordo se volessi dirle: vado di corsa, amore mio. Oppure semplicemente: sì. Le sorrisi, mi alzai, controllai che la finestra fosse chiusa, le porsi del Corvo rosso e, seguito da Cicova con la coda dritta quasi fosse uno scudiero, andai ad affrontare i fornelli.
Alle nove tornarono a casa il mio amico Fabrizio e la sua fidanzata milanese, Serena. Era bella in modo irritante, periodicamente viveva a casa nostra perché stava raccogliendo materiale per una tesi sul Barocco siciliano. Passava le giornate tra gli stucchi di Serpotta e i musei. Ogni tanto trovava il tempo per amare il mio amico e provocare me.
Fabrizio si preparava a ereditare l’azienda di famiglia. Quindi studiava cose lontanissime dai suoi interessi: gestione aziendale, bilanci, contabilità. Salutò sbrigativamente, Serena fece una piroetta e rise. «Ciao, giornalista» disse lei, senza rivolgere uno sguardo a Lilli. La cena malgrado questo fu festosa.
Un po’ meno il risveglio.
Il Grillo accanto al mio letto squillò senza grazia mentre ancora dalle persiane non filtrava altra luce all’infuori della luminescenza gialla del lampione all’angolo.
«Chi è?» risposi con voce da narcotizzato, accendendo il lumetto.
«Occhi di sonno, arruspigghiati. Saro sono. Il capo ti vuole.»
«Che è successo?»
La radiosveglia diceva sei e diciassette. La voce del portiere-centralinista e, quando aveva tempo, anche addetto alla sicurezza, era impastata di catarro e sigarette. Potevo sentire il tanfo di tabacco vecchio anche attraverso la cornetta.
«Trovarono una sfregiata» disse lui.
«E non potevi chiamare Di Natale?»
«È in ferie matrimoniali da oggi. Il capo dice che forse è una cosa grossa. Ci devi andare di corsa.»
Guardai Lilli accanto a me, raggomitolata sotto le coperte. Fece un rumore di lieve protesta. Poi si coprì fino alle orecchie.
«Va bene. Dammi l’indirizzo.»
«Viale delle Magnolie.»
«Numero?»
«Occhi di sonno, un lu saccio. Dicono che è all’angolo con via Lombardia.»
Lo appuntai nella mente.
«Si sa chi è la ragazza?»
«No, bello mio.»
«Vabbè, grazie Saro. E ringraziami pure a Di Natale, quando lo vedi.»
«Non fare così.»
«Vorrà dire che mi sposerò anch’io.»
«Minchia malagiornata…» concluse il portiere con una punta di rassegnazione.
Mi sfilai dal letto facendo meno rumore possibile.
Dormivo troppo poco: avevano ragione a chiamarmi Occhi di sonno. Arrivavo al giornale con lo sguardo impastato, non solo la voce. Le notti erano tracce evidenti sul mio viso allora poco più che ventenne, segnato da occhiaie degne dei migliori attori francesi del tempo. Mi chiamavo Leo Salinas, tra i miei antenati ce n’era uno a cui avevano intitolato la strada accanto a quella dov’ero nato. Ma il fatto di essere parente di una via nel centro nuovo di Palermo non mi serviva a niente, e soprattutto non fregava niente a nessuno: cominciavo a lavorare ogni mattino alle sette. Come tutti. Con gli occhi che erano uova à la coque. Alle due del pomeriggio il nostro quotidiano, stampato nei sotterranei di una palazzina in centro, a pochi passi dall’unico grattacielo di Palermo, era già appeso fuori dalle edicole, venduto insieme alle cassette di cachi e di finocchi ai semafori di una città assediata dal traffico e, soprattutto, dai traffici.
Sì, dormivo davvero troppo poco. Non provai nemmeno a cercare abiti puliti; mi rimisi quelli della sera prima: una camicia jeans, i Wrangler blu notte, un maglione grigio di lana merino con lo scollo a V. All’ingresso trovai il mio giubbotto di panno blu, i Ray-Ban, le chiavi della Vespa. Il taccuino, le sigarette e il portafoglio erano nelle tasche del giubbotto. La mia divisa da giovane cronista era impeccabile.
Avviai la 125 GTR e, nella luce già bianca del mattino, puntai dritto verso i quartieri residenziali. In cerca di una sfregiata.
Due poliziotti accanto a un’Alfetta bicolore con il lampeggiatore acceso stavano discutendo a bassa voce. Ero il primo non in divisa ad arrivare sulla scena del crimine. Una scena apparentemente vuota. Sulla fiancata dell’auto c’era scritto Squadra Volante, seguito da un numero stampato grande quanto mezzo sportello: 113. Il primo poliziotto, il più anziano, smise di parlare e mi studiò da testa a piedi mentre mettevo la Vespa sul cavalletto. Si chiamava Ignazio Scardina, era sui quaranta, con una pancia che implorava di essere liberata dalle ristrettezze della divisa. Ci conoscevamo bene e non c’era mai stato fra noi un gran rapporto. L’attrazione, in amore come nel giornalismo, è figlia del caso: inutile insistere. La conferma la ebbi dopo un paio di secondi.
«E allora?» mi chiese brusco.
«Buongiorno anche a lei, agente Scardina.»
«Buongiorno ’sta minchia.»
«Mi può dire che cosa successe? Mi parlarono di una ragazza sfregiata. Io qui non vedo niente…»
«E infatti non c’è niente da vedere.»
«Nel senso che la notizia non è vera?»
L’altro agente, più o meno un mio coetaneo, intervenne d’istinto: «No, vera è. Doveva vederla, com’era ridotta…».
Scardina lo incenerì con lo sguardo.
«E ora dov’è la ragazza?»
«In ospedale.»
«Quale ospedale?»
«Un ospedale.»
«Amunì, per favore…»
Scardina decise di arrendersi, oppure voleva solo liberarsi di me. «È al Camilliano» disse prendendosi i baveri della divisa.
Riflettei: era come dire che si trovava a Caltanissetta. Il più grande e caotico ospedale siciliano era all’inizio degli anni Ottanta una città di medie dimensioni con soltanto una parvenza di governo legale, un luogo dove vigeva – in certi momenti – un’anarchia paramafiosa. Lì i boss spadroneggiavano intimorendo e, se necessario, uccidendo i medici. L’ospedale era stato per anni una specie di succursale del carcere dell’Ucciardone, però più confortevole, dove alcuni capimafia andavano a fare villeggiatura. Il nome esatto era: Pio Ospedale Camilliano e Fatebenefratelli. Ma nel periodo dello strapotere mafioso sarebbe stato più onesto definirlo Fatebenepicciotti. Avrebbe fatto il paio con il nome che i boss avevano dato al carcere, visti i non trascurabili agi di cui lì potevano godere: lo chiamavano affettuosamente, tra loro, Hotel Chardon, tanto per essere chiari.
«E io come faccio a trovare dentro al Camilliano la ragazza sfregiata? L’avete identificata?»
Per la seconda volta l’agente più giovane non riuscì a trattenersi: «Avoglia che l’abbiamo identificata! È Veruska!».
Pensai d’istinto alla top model. Avevo visto da poco un film su un fotografo londinese e avevo scoperto dell’esistenza di questa modella molto magra che si faceva ritrarre, tra gridolini e svenevolezze, dal protagonista.
«Ma chi, l’indossatrice?»
I due agenti scoppiarono a ridere insieme: davanti alla mia ingenuità Scardina aveva deciso di perdonare anche il secondo slancio di sincerità del suo collega. Per quella mattina non l’avrebbe preso a calci in culo, metaforicamente parlando, per l’aiuto che mi aveva dato.
«Ma che dici? Veramente non sai chi è Veruska?» mi chiese il giovane agente della volante.
«Non scherzo.»
«È una buttana di lusso. La più buttana di più lusso che c’è a Palermo» spiegò.
«Si vede che sei ragazzo e che a queste cose ancora non ci pensi» aggiunse Scardina, forse con una punta di invidia.
Mi indicarono il posto dov’era stata rinvenuta, io ringraziai.
«Ma non è qui vicino che trovarono la macchina di Mauro De Mauro?»
«Che c’entra?» chiese per risposta l’agente Scardina.
«No, niente. Coincidenze.»
De Mauro era un giornalista rapito quattordici anni prima e mai più ritrovato. Tutti noi giovani e meno giovani del mestiere sapevamo che era stato fatto scomparso dalla mafia. Un sequestro che divenne mistero sempre più fitto col passare degli anni. Si disse che era stato messo a tacere perché sapeva la verità sulla morte di Enrico Mattei, l’uomo che aveva dato la benzina agli italiani e che aveva ottenuto in cambio l’esplosione in volo del proprio aereo. Mistero nel mistero. Su cui De Mauro sapeva molto, tanto che un regista importante, Francesco Rosi, l’aveva coinvolto nella scrittura del suo film-verità, Il caso Mattei. Nel tempo, il caso si era allargato arrivando a comprendere anche De Mauro, la sua sparizione, il suo nulla-di-nulla certificato dal silenzio mafioso. Nessuno spiffero, nessuna mezza verità. Un mistero cominciato nel settembre del 1970, a pochi passi da dove in quel momento guardavo le magnolie, i portoni, le macchine parcheggiate e pure i due agenti, cercando tracce, segni, illuminazioni. Cioè, il solito niente palermitano.
Mi rivolsi a entrambi.
«L’avete vista?»
«Sì, era molto sfregiata, ridotta una schifìa» rispose il poliziotto giovane.
«Schifìa come?»
«Acido in faccia. Ma non era solo quello: devono averla presa a legnate assai. Era fuori conoscenza, buttata sul marciapiede. Lì, dove ci sono quelle macchie di sangue.»
Mi accorsi di due segni marroni vicino a un mucchio disordinato di foglie cadute dalle magnolie. Due chiazze, una molto grande e una piccolina, che sembravano la Sicilia e Ustica. Isole di dolore in un mare di cemento. Un bel posto, non c’è che dire. Le Grand tour de la mafie.
Dieci minuti dopo arrivò uno dei fotografi del giornale, Filippo Lombardo. Scese da una Guzzi V7 Special che cavalcava come Gary Cooper gli Appaloosa, tra Texas e New Mexico.
Filippo era stato a diciott’anni un campione di arti marziali, bello come un modello d’Accademia, con bicipiti e addominali che rasentavano la perfezione; il suo modo di fare aperto e spiritoso, tipico di una Palermo minore, quindi meno pessimista e meno amaro della Palermo maggiore, gli aveva garantito in quegli anni un continuo e spiegabilissimo successo con le ragazze. Grazie all’amore transitorio per la cugina di un cronista che lavorava per il mio giornale, e che lo aveva introdotto in redazione, era passato nel giro di un paio di mesi dalle arti marziali alla fotografia di cronaca, trasferendo la sua velocità e la sua precisione nel colpire l’avversario allo scatto e alla messa a fuoco. Era fulmineo, Filippo.
Si sfilò i Ray-Ban, mi diede una pacca sulle spalle e, dopo aver tirato fuori la Nikon dalla borsa di tela beige che aveva a tracolla, controllò che il rullino fosse ben teso girando la rotellina sullo châssis. Un gesto automatico che aveva imparato dal suo capo, una donna che di lì a poco sarebbe diventata, per il suo stupefacente lavoro sulla mattanza mafiosa, un mito del fotogiornalismo mondiale. Poi salutò scherzosamente i poliziotti: «Addio, sbirri!», senza ottenere in risposta neanche un mezzo sorriso. Quindi fece due colpi di flash. Lo costrinsi a documentare, oltre all’ingresso del palazzo, anche le macchie sul marciapiede; lui chiese perché e io gli spiegai che poi, al giornale, ci sarebbero servite. Non c’era molto altro da mostrare. Infine gli agenti si misero in posa accanto alla volante. Scardina bestemmiò accennando a un sorriso mentre Filippo fece gli ultimi due scatti. Routine.
Filippo tornò al giornale a lasciare il rullino, io andai al Camilliano. Erano da poco passate le otto. Palermo si svegliava con la mano destra già sul clacson.
Casa di Veruska, ore 18.45
Guardò l’orologio: era ancora presto. Fuori dalla finestra Palermo s’era trasformata in un lieve vento che