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Dream. Offerta d'amore
Dream. Offerta d'amore
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E-book342 pagine5 ore

Dream. Offerta d'amore

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Info su questo ebook

Bestseller del New York Times

Lei pensa che lui sia un playboy arrogante.
Lui pensa che lei sia una fredda bacchettona.
Ma sta per farle una proposta che non potrà rifiutare.

Nicola Price aveva tutto: una carriera fantastica, il fidanzato perfetto, una collezione di scarpe esagerata e un appartamento in uno dei migliori quartieri di San Francisco. Ma quando rimane incinta e il suo stupido fidanzato la lascia di punto in bianco, il mondo perfetto di Nicola precipita. Senza rialzarsi. Oggi Nicola è la fiera madre single di una bambina di cinque anni e vive una gigantesca bugia. Può permettersi a malapena il suo appartamento, e tutti gli uomini con cui esce scappano quando scoprono che ha una figlia. Fatica a tirare avanti e ha paura, ed è ben lontana dalla posizione in cui si immaginava di essere a trentun'anni. La sua salvezza arriva sotto forma di uno scozzese alto, bello e ricco di nome Bram McGregor, il fratello maggiore del suo amico Linden. Bram ne sa qualcosa di orgoglio, così quando alcune circostanze tragiche fanno toccare il fondo a Nicola, le offre un appartamento dove stare in un palazzo di sua proprietà. È un'offerta fantastica, sempre che non sia un problema per lei vivere accanto a Bram, un uomo che, malgrado la sua generosità, sembra voler discutere con lei su tutto. Ma niente è gratis e mentre Nicola si rimette in sesto, scopre che l'enigmatico playboy potrebbe costarle più di quel che pensava. Potrebbe perdere il suo cuore. I fratelli McGregor portano solo problemi...
Karina Halle
È cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo. I suoi articoli di viaggio e alcune recensioni musicali sono apparsi in riviste come «Consequence of Sound», «Mxdwn», «GoNomad Travel Guides». È autrice di numerosi libri di successo. Dream. Patto d’amore è stato in classifica per diverse settimane sul «New York Times», il «Wall Street Journal» e «USA Today».
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2017
ISBN9788822705211
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    Anteprima del libro

    Dream. Offerta d'amore - Karina Halle

    Prologo

    Sei mesi prima

    Nicola

    «Vivi senza rimpianti».

    «Come dici, tesoro?».

    Alzai lentamente lo sguardo dal filo d’erba che stavo fissando da cinque minuti e vidi la figura alta di un uomo passare davanti ai riflettori, diretto verso di me. Sbattei le palpebre, poi tornai a guardare l’erba. Il suo volto era nell’ombra, ma sapevo bene chi fosse. Il suo accento scozzese mi rivelò tutto quello che dovevo sapere.

    Mi schiarii la gola e finii il bicchiere di vino che avevo in mano. I suoni vigorosi del matrimonio si stavano affievolendo, ed ero sorpresa che Bram McGregor fosse ancora qui. Era il testimone dello sposo, e io la damigella d’onore; non avrei mai detto che fosse il tipo da rimanere fino a tardi, persino al matrimonio del fratello. Aveva squadrato da cima a fondo ogni donna che gli camminasse vicino, me compresa, ed era sembrato annoiato a morte per tutta la durata della cerimonia.

    «Scusa», dissi schiarendomi di nuovo la gola. «Parlavo fra me e me».

    «Lo vedo», disse, sedendosi accanto a me sulla panchina di pietra, portando con sé un tenue odore di sigaro e sandalo.

    Eravamo al bordo del prato del Tiburon Yacht Club, dove si era svolto il ricevimento di nozze. Mi ero imbattuta per caso in questa panchina, da cui si vedevano le luci sulla baia di San Francisco brillare in lontananza. Ero pronta ad andare via, e volevo soltanto starmene un po’ da sola prima di tornarmene a casa per liberare la babysitter. Anche se la mia migliore amica si stava sposando con un uomo fantastico, il fratello di Bram, Linden – e non mi fraintendete, perché non potevo essere più felice per lei –, era un matrimonio, io ero single e mi sentivo sempre peggio minuto dopo minuto.

    «Quindi, vivi senza rimpianti», ripeté, chinandosi in avanti con noncuranza e intrecciando le dita. Se fossi stata sobria mi sarei vergognata di essere stata beccata a parlare fra me e me, ma in quel momento non me ne fregava niente. Quello che Bram pensava di me era l’ultimo dei miei problemi.

    Feci spallucce. «È il mio motto».

    Sbuffò, e subito gli lanciai un’occhiataccia.

    «Ehi», dissi, scaldandomi sempre di più, «quasi tutti hanno un motto».

    Gli angoli della bocca gli si sollevarono in un sorriso. Era un uomo attraente, questo dovevo concederglielo. Ma da quando il mio ex mi aveva fottuta dopo essere rimasta incinta, lasciandomi da sola a crescere nostra figlia, i donnaioli erano sulla mia lista nera, e Bram McGregor ne era di sicuro un esempio. Il che vuol dire che era il nemico numero uno, e nient’altro che un ricettacolo di calamità e la quintessenza dell’inaffidabilità.

    Mi ero riproposta di evitare i guai. E non avrei cominciato a inseguirli proprio adesso, solo a causa del suo accento scozzese, gli occhi grigi, le fossette sulle guance e il fisico scolpito. E, be’, altri terribili caratteristiche.

    «Io non ho nessun motto», mi informò, guardandomi negli occhi con un sorrisetto. «Ma conta se altri hanno un motto su di te?».

    Non volevo chiedergli cosa intendesse, eppure in qualche modo stavo abboccando all’amo.

    «La gente ha motti su di te?», chiesi.

    Il sorrisetto si fece più ampio. «Sì, le donne».

    «Capisco», dissi, cercando di pensare a qualcosa d’intelligente che gli facesse abbassare la cresta. «Una volta provato…».

    «Il risultato è assicurato», finì la frase. Alzò gli occhi al cielo buio e inclinò la testa, pensando. «Sennò ho sentito anche: una notte nel mio letto e le tue gambe saranno sempre larghe».

    Lo guardai disgustata. «È orribile».

    Fece spallucce. «Non lo scartare finché non provi, tesoro». Fece una pausa. «Immagino possa essere un motto per te».

    Guardò il bicchiere vuoto che avevo in mano, poi me, e sbatté le palpebre come se mi stesse vedendo per la prima volta stasera. Per un attimo fui grata a Stephanie per aver scelto il miglior abito da damigella di Anthropologie. Poi dovetti ricordarmi di nuovo che non me ne fregava niente di quello che lui pensava di me.

    «Che c’è?», chiesi, sentendomi la pelle pizzicare vedendo che mi fissava così a lungo.

    «Come mai sei qui fuori da sola e sobria?».

    Ruotai il bicchiere fra le dita. «Non sono sobria».

    «Immagino che tu non sia nemmeno sola», disse. «Posso prenderti qualcos’altro da bere?»

    «Offri tu?». Non so perché ero tanto sorpresa.

    Mi fissò a lungo, con le sopracciglia scure corrugate. Poi si rilassò, sorridendo lentamente. Mi ricordò un gatto che si stira dopo un sonnellino.

    «Non faccio mai pagare da bere alle belle donne».

    Anche se una (piccola) parte di me era eccitata per il fatto che mi avesse definita bella, soprattutto considerando la mia tormentata vita sentimentale negli ultimi tempi e il fatto che l’unica persona che mi avesse chiamato così fosse Ava (d’accordo, e Steph prima del matrimonio, una volta trasformata per magia con il trucco e l’acconciatura), non mi sarei fatta incantare da quelle parole melliflue.

    Lo guardai seria. «Credi davvero che mi farei abbindolare da una simile frase da rimorchio?».

    Si mise a ridere, con gli occhi brillanti nell’oscurità. «Frase da rimorchio? Il testimone non può pagare da bere alla damigella d’onore? Mi avevano detto che con te non ci si diverte, ma non ci credevo. Non con quel corpo».

    Rimasi di sasso. Diventai rossa come un peperone, e chissà come trovai le parole per rispondere. «Chi ti ha detto che con me non ci si diverte?».

    Il suo sorriso si era affievolito adesso, ma mi dava ancora l’impressione che si stesse divertendo da morire a giocare con me. «Non importa. Ti ho dato il beneficio del dubbio, ma immagino che dopotutto avessero ragione».

    «È stato Linden?», chiesi, sentendomi nauseata. Linden mi piaceva molto, e anche se la sua opinione personale non m’importava davvero, non sopportavo l’idea di essere conosciuta per una caratteristica negativa, soprattutto se era una caratteristica di cui avevo paura. Un tempo ero divertente, lo giuro, ma quando la vita ti mette davanti alle difficoltà, il divertimento rientra nelle cose che svaniscono, insieme alle manicure, alle avventure di una notte e alle cene al ristorante.

    Bram non rispose, quindi ebbi la conferma che era stato suo fratello a dirglielo.

    «Non si capisce bene, stai arrossendo?», mi chiese, fissandomi da vicino. Il dolce odore di sigaro mi pervase di nuovo.

    «Non sono divertente», ammisi, indietreggiando da lui. Era una mossa inutile, ma dovevo comunque difendermi.

    «Ed è per questo che te ne stai qui da sola con un bicchiere di vino in mano?»

    «Solo perché non sono ubriaca persa e con le gambe larghe nel tuo letto non vuol dire che sia una all’antica».

    Oh porca miseria, all’antica? Adesso stavo parlando come mia nonna.

    «No», disse lentamente, avvicinandosi ancora di più. «Ma quello sì che sembra divertente, non ti pare?». Il suo respiro era caldo sulla mia guancia, e resistetti all’impulso di voltarmi per guardarlo. C’era qualcosa nei suoi occhi che li faceva assomigliare a raggi X, come se potesse vederti dentro. Sapevo già che si stava immaginando come fossi nuda sotto questo vestito. Ma non avevo bisogno che guardasse meglio di quanto non stesse già facendo, e che capisse che casino fossi davvero.

    «Mi piace quando ti imbarazzi», disse con voce più bassa, facendo risaltare ancora di più il suo accento a ogni sillaba. «Scommetto che sei così anche quando stai per venire. Colta alla sprovvista ed esposta».

    Ed eccomi di nuovo senza parole. Strabuzzai gli occhi e stavo quasi per dargli uno schiaffo e scappare, perché è questo che mi hanno insegnato a fare con i tipi come lui. Evitarli. Far sapere loro ciò che non avranno o meriteranno mai.

    Ma non lo feci. Perché nonostante tutto ciò a cui tengo, le sue parole ebbero un certo effetto sul mio cervello, scivolando poi fino al cuore e in mezzo alle gambe. Mi fecero venire voglia di stringere le cosce per trattenere il calore che stava crescendo, anche se non poteva andare da nessuna parte.

    Fece avviare un motore dentro di me a cui cercavo di non pensare.

    Deglutii a fatica e mantenni lo sguardo fisso sui cespugli davanti a me. Il matrimonio sembrava più distante, come se si stesse allontanando per lasciarci soli.

    Bram mi mise delicatamente due dita sotto al mento, facendomi ruotare lentamente il collo, così da costringermi a guardarlo. «Se ti dico di nuovo che sei bella», sussurrò, «arrossirai ancora? O ci crederai?».

    Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo! Sarei una stupida a lasciarmi abbindolare da un comportamento così subdolo, ma quanto ci volevo credere.

    Perlomeno non arrossii. Non ne ebbi il tempo.

    Prima ancora che me ne accorgessi, Bram si avvicinò di un millimetro e mi baciò. Le sue labbra erano morbide e umide, con un sapore intenso di tabacco e menta. Trattenni il respiro per un attimo, paralizzata e sorpresa com’ero, esattamente ciò che desiderava Bram. In un angolino del cervello una vocina mi diceva: «Il testimone e la damigella d’onore che limonano a un matrimonio, che novità!», e «È un giocatore, e sta giocando con te», mentre le mie labbra, spronate dall’alcol e da un desiderio profondo per qualcosa, risposero al bacio.

    Accadde tutto al rallentatore. La vocina nella mia testa diventò un brusio confuso, e non rimase altro che questo fuoco che bruciava vivo dentro di me. Mi prese il viso fra le mani, e le tenne così con dita forti e calde. Mi tenne ferma mentre con la lingua scivolava verso la mia, e le nostre bocche danzarono l’una con l’altra in modo perfetto. Se avessi potuto formulare un pensiero, sarebbe stato: «Baciare Bram McGregor non è affatto come mi ero immaginata». Era un bacio caldo, sensuale e, oserei dire, significativo.

    Proprio mentre mi rilassavo contro il suo corpo, però, desiderando di più dalle sue mani, e desiderando di infilare le mie sotto la sua giacca per sentire i suoi muscoli scolpiti, si ritrasse, con gli occhi chiusi e il fiato corto.

    «Sei bellissima», disse schiarendosi la gola. Aprì gli occhi, fissandomi da sotto quelle lunghe ciglia, per cui ucciderei. «Ma sei ancora rossa. A dire il vero, sembri un po’ più che imbarazzata». Inarcò un sopracciglio, rimanendo a pochi centimetri dal mio viso. «Ti ho eccitata?».

    Porca miseria, quella sì che era sfacciataggine! So che Linden era sempre stato piuttosto sconcio e di sicuro molto schietto con Steph, ma non era niente in confronto a Bram.

    Schiusi le labbra mentre cercavo di pensare a qualcosa da dire. Passandomi il pollice sul labbro inferiore, continuò a parlare: «Che bella bocca. Cos’altro ci sai fare?».

    Alla fine sbattei le palpebre, rendendomi conto della sua volgarità. Feci una smorfia e portai la testa all’indietro.

    Bram aggrottò la fronte. «Ah, non ti scaldare tanto», disse, mentre con la mano cominciò a toccarmi il braccio. «È tutta la sera che ti guardo, sai».

    «Be’, non è difficile vista la nostra vicinanza con gli sposi», risposi con la gola improvvisamente secca, come se baciarlo mi avesse tolto qualcosa. Immagino che perlomeno mi avesse tolto la sanità mentale.

    «Non ti viene naturale accettare un complimento», osservò.

    Sì, di questo ne ero consapevole. Non ero né brutta né tantomeno scialba, nient’affatto, ma l’essere madre – ed essere stata scaricata dal mio ex – avevano annichilito la mia autostima. Un tempo entravo in una stanza e sapevo di calamitare l’attenzione di tutti, o almeno credevo in quello che avevo da offrire, ma ormai non provavo più quella sicurezza da molto tempo.

    Persino le attenzioni di Bram, uno scozzese ricco e senz’altro un buon partito, non mi aiutavano. Forse perché ero a conoscenza della sua fama di dongiovanni e, anche se non stava bevendo, sentivo il sapore di scotch sulle sue labbra.

    Oh, quelle cavolo di labbra. Distolsi rapidamente lo sguardo, cercando di dimenticare la loro morbidezza e il loro dolce e accattivante sapore.

    «Hai creduto almeno a una parola di quel surfista?».

    Quale surfista? Ci misi qualche secondo a capire di chi stesse parlando.

    «Aaron?», chiesi. «È l’ex di Stephanie».

    Si strinse nelle spalle con indifferenza. «È una donna sposata adesso, sono sicuro che ora lui sia disponibile. Ci ha provato con te per tutta la sera».

    Me ne ero accorta anch’io, anche se lo faceva in modo così discreto e noncurante che non mi aveva dato fastidio. «Allora è proprio vero che mi guardavi».

    Sorrise dolcemente. «La donna più bella del matrimonio». Fece una pausa. «A parte la sposa, ovvio, ma questo sono obbligato a dirlo». Mi mise una mano dietro la testa, e cercai di non sobbalzare al pensiero che mi spettinasse l’acconciatura. «Credo che Stephanie e Linden se ne siano andati. Che ne dici se ce ne andiamo anche noi? È ancora presto».

    Stava succedendo tutto così in fretta. Sebbene le sue parole sciogliessero le corde annodate strette dentro di me, quelle corde mi mantenevano sana e rispettabile, e per quanto la sua voce profonda mi facesse venire la pelle d’oca, avevo delle responsabilità, e non includevano l’avventura di una notte con Bram McGregor. Anche se quella vocina, quella a cui piaceva da matti divertirsi e che veniva quasi sempre soffocata, mi stava dando dei pizzicotti da dentro, chiedendomi di vivere una buona volta, non potevo. E poi, non sarebbe stata nulla più di un’avventura, non con i tipi come lui.

    Si chinò in avanti, e molto delicatamente mi sfiorò le labbra con le sue, infuocandomi le vene. «Andiamo», mormorò. «Lo so che da qualche parte dentro di te c’è una ragazza selvaggia. Lo vedo. Lasciala libera. Lascia che ti aiuti».

    Oh Dio. Magari potesse.

    «Non posso», dissi a voce bassa. «Devo tornare a casa».

    Sorrise contro la mia bocca. Fu una sensazione meravigliosa. «Portami a casa con te. Prometto di comportarmi bene». Mi baciò teneramente, un bacio lungo, prima di ritrarsi piano piano, dolorosamente. «A dire il vero, prometto di comportarmi male», disse in un sussurro. «Ma so che ti piacerà».

    Mi presi un attimo per distanziarmi da lui di un centimetro. «Non capisci. Devo andare a pagare la babysitter. Tra poco se ne vorrà tornare a casa».

    Non mi aspettavo di lasciarlo così di sasso, solo perché avevo immaginato che sapesse che avevo una figlia. Ma dal modo in cui mi guardò, era chiaro che non ne fosse a conoscenza.

    «Babysitter?», disse schiarendosi la gola. «Hai un figlio?».

    Annuii, sentendo le mie difese ricostruirsi pezzo dopo pezzo, come tirare di nuovo su un muro che era momentaneamente crollato. «Sì, Ava. Ha cinque anni».

    «Non lo sapevo», rispose sbattendo le palpebre. Perché gli uomini davano sempre di matto quando scoprivano che ero una madre? Uno potrebbe pensare che in quest’era progressista gli uomini siano un po’ più aperti al riguardo. E poi avevo trentun anni, non ero più un’adolescente.

    Non riuscii a evitare di rivolgergli un sorrisetto acido. «Ci sono un sacco di cose che non sai di me». Ora che ci penso, immagino di averlo incontrato solo un paio di volte prima di allora, e sempre a feste o in situazioni simili, quando al massimo mi stringeva la mano o mi faceva un cenno con la testa e basta. Non credo di averci mai parlato fino a quella sera.

    Guardò l’orologio che aveva al polso, qualcosa che notai solo in quel momento. L’argento scintillava nelle luci dei lampioni. «Be’, immagino faresti bene a tornare a casa, Cenerentola».

    «È quasi mezzanotte?», chiesi, sentendomi in imbarazzo per tutto. Mi alzai in piedi, doloranti per i sandali Ross Atwood che Steph mi aveva regalato per il matrimonio. Erano sexy, ma non di certo comodi.

    Si alzò in piedi accanto a me, e persino con i tacchi, che aggiungevano dieci centimetri al mio metro e settanta di altezza, era comunque molto più alto di me. Cercavo di non ammirare quanto fosse diabolicamente attraente con lo smoking, quanto fossi vicina a quelli che sapevo dovevano essere i suoi muscoli scultorei. Tutte le cose che prima ignoravo di lui adesso sono tutto ciò che vedo, lampeggianti come un neon con su scritto: «E andiamo, una notte soltanto!».

    «Aye», disse con il suo accento scozzese. «Ti chiamo un taxi?».

    Scossi la testa. «No, uso Uber».

    Mi fissò per qualche secondo come se stesse pensando, poi annuì. «Peccato non poterti convincere a lasciarti andare, anche solo per una sera».

    Gli lanciai un’occhiata, stringendo le dita intorno al bicchiere di vino vuoto. «Lasciarsi andare non sempre è possibile per una madre single».

    «Giusto. Almeno lascia che ti riaccompagni al ricevimento». Mi porse il braccio e, dopo un attimo di esitazione, lo accettai. Devo dire che era bello essere accompagnata fuori del giardino e nella zona ricevimento come se fosse il mio accompagnatore per la serata.

    Ma non appena fummo vicini alla gente, lasciò andare il braccio e mi fece un rapido sorriso. «Fai attenzione, tesoro».

    E con quelle parole sparì.

    Rimasi a guardare mentre si confondeva con la folla e si dirigeva al bar. La festa era ancora in corso, anche se aveva ragione: Stephanie e Linden dovevano essersene andati perché non li vedevo da nessuna parte. Vedevo invece i genitori degli sposi, Aaron, Kayla, Penny, James e altri amici in comune. Stavano ballando, divertendosi come matti e ubriachi fradici, mentre sullo sfondo le barche del porticciolo ondeggiavano appena fra le onde.

    A volte essere Cenerentola faceva schifo.

    Con un sospiro, presi il cellulare e chiamai un taxi con Uber. Era sabato sera, per cui l’autista sarebbe arrivato fra quindici minuti. M’incamminai verso i cancelli dello yacht club, e mi misi a sedere su una panchina accanto a un’àncora di marmo, giusto per dar riposo ai piedi. Cercai di tenere gli occhi sulla strada per vedere se il mio passaggio stesse arrivando, ma quando sentii una forte risatina, dovetti girarmi per guardare chi fosse.

    Lì, in lontananza, c’era Bram con il braccio intorno a una biondina pelle e ossa che avevo visto prima. Penso una cugina alla lontana di Steph. Sembrava troppo giovane, troppo ubriaca, e troppo pazza di Bram.

    Sfortunatamente, anche lui sembrava piuttosto preso. Quando il tacco le s’impigliò nell’erba e stava quasi per cascare, lui la afferrò a volo e la attirò a sé. Lei rise e lo baciò, e lui non esitò a rispondere al bacio, premendo il suo agile corpo e il suo vestito attillato contro di lei. Con la mano scese fino all’inguine, e strinse quella che doveva essere una signora erezione.

    Le rivolse un sogghigno, quello stupido sogghigno lascivo, e la portò verso l’area giardino da dove eravamo appenato tornati, sparendo dietro i cespugli di rose. Le sue risatine risuonavano nell’aria e non potei fare a meno di immaginarmi Bram che le strappava i vestiti di dosso, la faceva chinare sulla panchina e si sbottonava i pantaloni.

    Guardai i cespugli per qualche secondo, vedendo un frusciare di foglie, sentendomi male al pensiero ma allo stesso tempo stranamente eccitata.

    Potevo esserci io.

    Ma non era andata così. E quando cominciai a sentire i loro gemiti affannati, distolsi l’attenzione. Accidenti, aveva fatto presto a trovarsene un’altra dopo aver capito che non avrebbe avuto fortuna con me.

    Quando arrivò il mio passaggio, tutti i miei sentimenti si erano condensati in uno stato di vergogna e rabbia. Che gran coglione! Avevo avuto una fortuna sfacciata a non aver gettato la cautela – o le mutandine – al vento e non essere andata a letto con quel viscido stronzo di uno scozzese. Avevo ragione sin dall’inizio. Era fonte di guai, pericoli, e dovevo stare lontana da quelli come lui. Solo adesso desideravo non aver risposto al suo bacio, figuriamoci aver scambiato due parole con lui.

    Mentre sul mio taxi Uber attraversavo il Golden Gate Bridge, ripensai al mio motto. Vivere senza rimpianti? Stavo senz’altro rimpiangendo di avergli permesso anche solo di pensare che avrebbe potuto dormire con me quella sera.

    Avevo anche un altro motto: se mi freghi una volta, colpa mia. Ma non mi fregherai di nuovo. Il mio orgoglio non mi farà mai e poi mai abbindolare da qualcuno.

    Se Bram McGregor non era sulla mia lista nera prima, lo era sicuramente adesso.

    Capitolo 1

    Nicola

    «Nicole Price, sei licenziata», dice il mio capo con la sua migliore espressione alla Donald Trump. Solo che non sta sorridendo come se fosse uno scherzo, e ha un riporto così orrendo da far impallidire persino quello del signor Trump.

    E poi, sono sicura che abbia detto in realtà: «Nicola, ci dispiace veramente, ma siamo costretti a dividere le nostre strade». Ma che differenza ci sarà mai se alla fine vogliono dire la stessa cosa. In un secondo ho perso il mio lavoro. Il mio stipendio. La mia stabilità.

    Il mio futuro.

    È un mistero come mai non crolli come fa Ava quando non trova il suo pupazzo preferito, Snuffy. O che non sparga neanche una lacrima. Invece rimango lì seduta come un’idiota, un fallimento allo stato puro, immobile e a bocca aperta, mentre il mio capo, Ross (adesso ex capo, immagino), blatera di come sia dispiaciuto e di come avrebbe voluto tenermi ma la compagnia si sta ridimensionando e stanno chiudendo uno dei negozi e bla, bla, bla.

    Ma niente di tutto questo ha importanza, perché so che fra una settimana sarei arrivata a tre mesi di lavoro per loro. Fra una settimana, avrei concluso il mio periodo di prova e avuto una copertura assicurativa. Avrei ricevuto un aumento. Avrei raggiunto una tranquillità interiore e una carriera nel campo in cui mi ero battuta con tutta me stessa.

    E adesso sono arrabbiata perché mi rendo conto che questi stronzi sapevano che non mi avrebbero mai offerto un posto fisso, volevano solo che qualche coglione lavorasse per loro a poco prezzo. Era questo il loro piano sin dall’inizio: illudermi con false promesse e poi rispedirmi sul marciapiede prima che la cosa diventasse seria.

    Assomiglia molto alla mia vita sentimentale, ora che ci penso.

    «C’è qualcosa che possiamo fare per te?», mi chiede, scrutandomi con preoccupazione, forse in cerca di un’imminente esplosione.

    Ava, si riconduce sempre tutto a mia figlia. Se non fosse per lei, probabilmente avrei semplicemente annuito. L’avrei presa con filosofia come cerco di fare con tutto ciò che la vita mi presenta, come mi è stato insegnato a fare sin da piccola. Non permettere mai a nessuno di vederti piangere, di vederti come nient’altro che una persona perfettamente appropriata. Incassa il colpo e vai avanti, il ritratto della calma.

    Ma la mia vita in questo momento non è calma, e non c’è niente di appropriato. L’affitto in quella topaia di appartamento è appena aumentato. La mia auto ha bisogno di un pezzo di ricambio che non mi posso permettere, così se ne sta lì ferma a collezionare la ruggine grazie all’eterna nebbia di San Francisco, e Ava negli ultimi tempi è stata poco bene. Niente di cui preoccuparsi, secondo il medico, è solo letargica alcuni giorni, ma mi preoccupo in continuazione per la mia bambina, e non sempre ci sono abbastanza soldi per andare dal dottore. Un dottore alquanto inutile, per giunta. Contavo di avere quella cavolo di assicurazione medica per lei, non per me.

    E quindi, come Bruce Banner quando si trasforma in Hulk – tranne la parte in cui si strappa la maglietta – scateno la mia ira sul mio ex capo. Per tre mesi sono stata sempre decorosa e rispettosa, correndo di qua e di là come una schiava oberata di lavoro, sempre col sorriso sulle labbra. Non far mai trasparire niente. Mantieni sempre la calma.

    Col cazzo.

    Non sono neanche sicura di ciò che devo dire. È come se scaricassi tutto il mio risentimento represso. Credo di avere anche una specie di blackout per un attimo. So solo che quando mi rendo conto di quello che sto facendo, mi sto alzando in piedi, con un dito accusatorio verso il mio ex capo, sputando un’oscenità dietro l’altra.

    «Se mi avesse appena fottuta, avrei potuto anche non dire niente. Ma così sta facendo del male a mia figlia. Come si permette di buttarmi fuori una settimana prima di avere un’assicurazione medica!», gli urlo. «Non ha un briciolo di cuore?».

    Ma dal modo in cui Ross solleva con calma il telefono e chiede alla sua assistente, Meredith, di entrare come se avessi bisogno di essere scortata fuori, capisco che non ha affatto un cuore.

    A Meredith non sono mai andata a genio, e l’ultima cosa di cui ho bisogno ora è vedere lei che gongola, così alzo i tacchi e me ne vado prima che possa accorgersi della mia faccia rossa e sconvolta. Prendo rapidamente la mia borsa dall’armadietto nella stanza del personale, grata per una volta del fatto che nei tre mesi in cui ho lavorato qui, non ho mai avuto una scrivania esclusiva. Sarebbe devastante doverla liberare.

    Non saluto neanche Priscilla, l’addetta agli acquisti con cui ero quasi diventata amica, o Tabby, l’addetta alla commercializzazione regionale, il cui lavoro speravo un giorno di avere io. È solo che mi vergogno troppo di dover raccontare che cosa è appena successo, e mi sento ancora peggio al pensiero che forse loro lo sapessero sin dall’inizio.

    Quando ho avuto il lavoro per la popolare catena di abbigliamento yoga, Rusk, avevo pensato di essere arrivata. Avevo passato fin troppo tempo a fare due passi avanti e uno indietro. Questa città non sempre ti rende le cose facili, quale che sia il tuo campo di lavoro. E la moda è senz’altro uno dei più competitivi.

    Sono andata all’università insieme a Steph, all’istituto di arte di San Francisco, ritrovandola dopo tantissimo tempo. Ero cresciuta vicino a Steph a Petaluma, una cittadina a nord di San Francisco, e ho fatto le elementari con lei finché i miei non divorziarono e io non mi trasferii nel quartiere di Pacific Heights di San Francisco per vivere con il nuovo marito schifosamente ricco di mia madre. Per farla breve, dopo aver frequentato il liceo

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