A un passo dal cuore
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Anteprima del libro
A un passo dal cuore - Daniela Santelli
A UN PASSO DAL CUORE
di Daniela Santelli
Prima edizione: giugno 2018
Tutti i diritti riservati 2018 ©BERTONI EDITORE
Via G. Rossa, zona ind. Santa Sabina, 06132 Perugia (PG)
Coordinamento editoriale: Jean-Luc Umberto Bertoni
Editing e impaginazione: Daniele Nizzi
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, se non autorizzata.
Daniela Santelli
A UN PASSO
DAL CUORE
A Rosa, Aldo e Nino (Tità),
gli angeli della mia infanzia.
Coloro che mi hanno insegnato ad amare...
I
Guardai l’orologio a forma di gatto appeso alla parete della mia camera e rimasi di sasso notando quanto fosse tardi. Nonostante mi svegliassi presto, riuscivo sempre a essere in perenne ritardo.
Sbuffai indispettita e, dopo aver afferrato la borsa e alcuni documenti, mi precipitai fuori casa.
Quella mattina avevo un’udienza e mentre scendevo le scale, mi resi conto di essere completamente scarica, priva di energia.
Grazie alla mia abilità al volante, facendo un pericolosissimo slalom tra le macchine che sembravano andare a rilento rispetto alla mia fretta, riuscii ad arrivare al tribunale giusto in tempo.
Una volta davanti alla scalinata che portava all’ingresso, cominciai a salire i gradini, a passo piuttosto svelto, stando comunque attentissima a come mettevo i piedi: come sempre, avevo i tacchi altissimi e non volevo correre il rischio di cadere, facendo così ridere di gusto i miei colleghi, ma soprattutto le mie colleghe. Sapevo che, se fosse successo un disastro simile, non avrebbero mai più smesso di darmi il tormento e avrebbero tirato fuori la storia della caduta ogni volta che se ne fosse presentata l’occasione.
Erano sì avvocati, ma per certi aspetti erano un po’ come i bambini delle elementari: non si facevano mai scappare le occasioni più ghiotte.
Ero quasi a metà della scalinata quando, persa in un preciso ragionamento su quello che avrei dovuto dire in aula, lo incontrai.
Anzi, volendo essere precisi, gli andai a sbattere contro, travolgendolo.
Sulle prime, rischiando di cadere davvero, e con la borsa e alcuni documenti sparpagliati un po’ ovunque, fui sul punto di prendermela con chi si era messo sul mio cammino, senza neanche tentare di evitarmi. Poi però lo vidi, notai il suo viso e, proprio come può succedere a un’adolescente alla sua prima cotta, il mio cuore cominciò a danzare, rosso d’emozione.
Anche lui mi stava fissando, le labbra leggermente aperte, in un’espressione di stupore e, ne fui certa, d’incredula meraviglia.
Scusa, ero distratta,
balbettai con un filo di voce, rendendomi conto che della donna sicura di sé e risoluta che ero sempre stata, non c’era più neppure l’ombra. Lo avevo già intravisto, in passato, e la sua bellezza aveva catturato subito la mia attenzione, tuttavia era sempre stata una presenza fugace, proprio come tutti quegli uomini che si notano camminando, ma che poi si dimenticano subito.
Sentii tutto il peso del suo sguardo e il viso diventare rossissimo, non tanto come il famigerato peperone, piuttosto come un tizzone di brace.
Lui, com’era logico aspettarsi, se ne accorse e con un sorriso difficile da interpretare, disse:
«È stato un piacere che tu mi sia venuta addosso» un altro sorriso, magnetico. «Sai, ti avevo vista qui in tribunale e non voglio perdere quest’occasione» e tendendomi la mano, si presentò: «Mi chiamo Stefano».
Da quelle poche parole capii che non era della mia città, il suo accento lo tradiva.
Persa in quello sguardo languido, sentii il viso diventarmi ancora più rosso: mi tornò in mente un giorno di un paio di mesi prima quando lo avevo incrociato, credendo che, nonostante i tacchi e la gonna mozzafiato, non mi avesse neppure notata.
In quel preciso istante fui felicissima di essermi sbagliata.
Lo guardai: il suo viso aveva adesso un nome. Un nome che non avrei mai dimenticato.
«Piacere, io sono Giulia» risposi cercando di tornare in me: la scarica elettrica che mi aveva scossa correva ancora tumultuosa nel mio corpo. Gli strinsi la mano e lui mi sorrise di nuovo, un sorriso pieno di luce, come una falce di luna bianchissima che rischiara la notte più buia.
Come tutti i sogni più belli, che finiscono all’alba, in quel preciso istante il mio cellulare cominciò a squillare. Pensai per un attimo d’ignorarlo ma si rivelò impossibile perché capii il motivo di quella chiamata: l’udienza sarebbe iniziata di lì a poco.
Con rammarico mi vidi costretta a dire:
«Stefano scusami ma devo proprio andare, sono in ritardo tremendo».
«Spero di rivederti presto» disse, al che fissai la mia mano ancora stretta nella sua e, con mezzo sorriso, risposi: «Però se non mi lasci, non me ne posso andare!».
Arrossendo impercettibilmente, mi lasciò libera, regalandomi, mentre mi voltavo per salutarlo, un sorriso dolce e sensuale. Un sorriso che non avrei mai e poi mai dimenticato.
Da quel giorno ci fu un continuo gioco di sguardi, di sorrisi. Parole non dette che si libravano tra di noi e mentre le settimane passavano, mi resi conto con un certo stupore, che Stefano si era ritagliato un posto speciale non solo nel mio cuore, ma anche nella mia mente. Stefano era diventato un pensiero fisso che mi dava il buongiorno ogni mattina, e mi augurava la buonanotte tutte le sere.
Stefano e lui soltanto, fattomi incontrare dal destino sulla scalinata del tribunale una mattina d’inizio dicembre, un giorno che credevo sarebbe stato simile a tanti altri, ma che invece sarebbe diventato uno dei più importanti della mia vita. Uno di quei giorni che rappresentano una svolta, un cambio di rotta. Che mi avrebbe fatto guardare alla vita in maniera diversa, nel bene e nel male.
E fu proprio l’arrivo del Natale che mi fece capire quanto fosse cambiata la mia percezione del mondo: in città s’iniziava a respirare aria natalizia, le luci colorate, i panettoni nelle vetrine. Il caos per le strade di chi era alla ricerca degli ultimi regali.
Non avevo mai amato particolarmente quella festa, specie da quando era venuta a mancare la mia cara nonna, alla quale ero molto legata, eppure sentivo qualcosa di diverso nell’aria. Vivevo in modo spontaneo e dolce i buoni sentimenti rappresentati dalla festività.
Dopo molti anni, mi resi conto di credere ancora nei miracoli e, come da bambina, mi chiesi cosa mi avrebbe portato Babbo Natale. Io adoravo Babbo Natale, e con lo stupore di quella bambina mai cresciuta lo attendevo ogni anno.
Ancora non potevo saperlo, ma avevo già ricevuto il mio regalo!
II
23 dicembre.
L’aria era pungente, fredda, tuttavia il sole che splendeva in cielo riusciva ad allontanare la sensazione di gelo dal corpo. Quella mattina mi attendeva la solita fila in banca e, non volendo restare da sola, decisi di telefonare a Sofia, una collega che era anche una delle mie più care amiche. Pensando a Sofia, provavo un sentimento d’affetto sincero come se fosse una sorella. Mora, con un sorriso bellissimo e una personalità prorompente, in più di un’occasione aveva dimostrato nei miei riguardi una pazienza pressoché infinita. Quando la chiamai, sapevo già che non mi avrebbe detto di no.
«Buongiorno Sofia, come stai?» le chiesi.
«Ciao Giulia» rispose la mia amica. «Tutto bene, tu?» il tono era di chi la sa molto lunga: probabilmente doveva aver già intuito che quella chiamata non era di semplice cortesia.
«Tutto ok» dissi. «Senti un po’, ti andrebbe di venire con me in banca? Non mi va di uscire da sola».
«Certo Giulia» fece lei. «Poi, magari, possiamo pranzare insieme in quel nuovo ristorante messicano» una risata compiaciuta. «Mi hanno detto che ci sono dei camerieri piuttosto carini!».
Le risposi che era un’ottima idea anche, e soprattutto, perché così avremmo potuto fare quattro chiacchiere in pace, lontane dal caos dello studio.
Sofia arrivò una mezz’ora dopo sotto casa mia. Un suo SMS mi informava che era sotto ad aspettarmi.
Mi affrettai a uscire e una volta in macchina, per i dieci minuti che servirono ad arrivare in banca, chiacchierammo di cose di poca importanza.
«Ti aspetto qui» disse lei mentre scendevo.
La ringraziai per essere venuta con me e le dissi che avrei cercato di fare il prima possibile.
Sofia annuì per iniziare poi a cercare una stazione radio che trasmettesse la musica che più le piaceva. Sempre musica italiana.
Mi servirono quasi venti minuti in banca e, una volta fuori, pensai a quanto tempo una persona sprecasse a fare la fila. Dal medico, in banca, all’ufficio postale. Code su code che si portavano via attimi di vita che non sarebbero mai più tornati.
Scossi la testa: pensieri cupi che poco si adattavano all’aria di Natale che si respirava ovunque.
Stavo per salire in macchina quando, d’istinto, alzai lo sguardo verso la strada e la voce di Sofia che m’incitava a sbrigarmi a entrare, per non far uscire tutta l’aria calda, sembrò arrivare da un posto lontanissimo: vidi Stefano e sentii il cuore scoppiarmi di gioia. Ecco il mio regalo di Natale! pensai.
Anche lui mi vide e dopo una decina di metri, accostò la macchina per poi scendere. Con il sorriso più luminoso che avessi mai visto, mi venne incontro.
«Ciao Giulia!» disse. «Che bella sorpresa!».
Lo salutai a mia volta, cercando di non fargli capire quanto fossi felice.
«Cosa ci fai da queste parti?».
«Sono stata in banca» risposi. «Allora deve essere un segno del destino: sai io abito qui vicino».
Stefano parlava, ma io riuscivo solo a guardare i suoi occhi, quasi vergognandomi di provare un’emozione così intensa. Lui bello, moro, alto, occhi scuri e gambe strepitose, le tipiche gambe dei calciatori, muscolose e sode che io amavo tanto.
Mi fissò un istante, come se stesse soppesando quello che stava per dire poi, chiese:
«Giulia mi lasci il tuo numero di telefono?».
Era così bello, così sensuale: come avrei potuto rifiutare?
Si accorse di non avere con sé una penna, allora mi chinai in macchina e chiesi a Sofia se ne avesse una.
Con il sorriso di una giovane volpe smaliziata, Sofia mi passò una comunissima penna Bic nera, facendomi l’occhiolino e, con le labbra, si congratulò con un gioioso e sincero Evviva!
Le sorrisi compiaciuta ed emozionata per poi riportare la mia attenzione su Stefano. Gli allungai la penna e sul retro di un biglietto da visita scrisse il mio numero di cellulare.
«Posso avere il tuo?» chiesi tutto d’un fiato: erano passati mesi dall’ultima volta che avevo chiesto il numero di telefono a un uomo.
Si frugò nel taschino interno della giacca e mi passò il suo biglietto da visita. C’erano il numero dello studio e quello del cellulare.
«Domani mattina presto parto per Roma, torno dalla mia famiglia Giulia» mi fissò negli occhi come se volesse guardarmi l’anima. Poi continuò: «Oggi pomeriggio sarò in studio per sistemare un po’ di scartoffie, perché non passi a salutarmi?».
Era un uomo audace, sicuro di sé e questo me lo fece piacere ancora di più, tanto che avrei voluto rispondergli subito di sì. Anzi, avrei voluto dirgli che se avesse voluto, avremmo potuto anche andare in quel preciso istante nel suo studio, tuttavia mi ricordai non solo di essere insieme a Sofia, ma che non era mai un bene far capire così chiaramente a un uomo quanto piacesse a una donna.
Cercando quindi di fare un po’ la preziosa, risposi:
«Non lo so Stefano, non ti prometto nulla, vedremo» e sperai con tutta me stessa che non capisse che in realtà stavo bleffando in modo spudorato: non avrei rinunciato a quell’appuntamento per niente al mondo.
Una volta in macchina mi resi conto che la penna era rimasta a Stefano e nel farlo presente a Sofia lei mi rispose con un gesto della mano: non era la penna che le interessava.
«Mi spieghi quello che sta succedendo?» chiese curiosa: non avevo detto a nessuno dell’incontro fortuito con Stefano sulla scalinata del tribunale.
Soddisfatta e felice per quell’incontro così inaspettato, le raccontai tutto quanto e alla fine, vedendo il luccichio dei mie occhi, Sofia capì che ero innamorata di quello che, nonostante tutto, restava comunque uno sconosciuto.
«Amica mia, spero solo, che oltre a essere un ladro di penne quell’uomo sia anche una brava persona, perché se ti farà soffrire, se la dovrà vedere con me!» disse pragmatica lei: in passato avevo sofferto per amore e lei era sempre stata al mio fianco. Temeva che quella storia potesse farmi stare di nuovo male.
Guardando la mia amica negli occhi, la mia cara, protettiva Sofia, la rassicurai, dicendole che non solo sarei stata attenta, ma che sarebbe andato comunque tutto bene.
«Lo spero per te Giulia» fece lei mentre metteva in moto e, con un’inversione a U del tutto illecita, imboccò la strada che ci avrebbe portate al ristorante messicano.
Tequila e Sombrero, il ristorante messicano che aveva aperto in quello che una volta era stato uno dei pub più in vista della città ma che, per via della crisi economia in cui languiva l’Italia, aveva chiuso per i debiti sempre più cospicui, era forse il locale più in voga del momento. Si respirava aria di festa, quell’allegria tipica non solo del Messico, ma di tutti i paesi del Centro America.
Ci accomodammo a un tavolo e dopo aver letto con attenzione il menù, ordinammo una doppia porzione di Tacos e una di Tostadas. Oltre i sapori decisi e piccanti, quello che più apprezzavo della cucina messicana, erano i colori vivaci, ben intonati con l’atmosfera del locale.
Durante il pranzo, chiacchierammo del più e del meno, del lavoro, delle feste ormai prossime, dei regali. Del cenone di San Silvestro. Non toccai volutamente l’argomento Stefano: temevo che Sofia, in uno slancio di protezione estrema, cercasse di convincermi a non andare da lui.
Dal canto suo, Sofia decise di rispettare il mio silenzio e di questo le fui molto grata. In mille piccole occasioni dimostrava di essere davvero un’ottima amica.
Finito di mangiare e dopo aver pagato il conto, tornammo alla macchina e una volta salite, misi mano al cellulare.
Sofia mi guardò con la coda dell’occhio senza dire una parola.
Con il cuore che batteva all’impazzata, scrissi un SMS a Stefano:
A che ora posso venire da te?
La risposta arrivò subito: Anche adesso.
«Sofia mi puoi accompagnare da lui?».
Lei mi guardò per un istante, riportando poi la sua attenzione sulla strada.
«Giulia pensaci bene»