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Guarire il disordine del mondo: Prosatori italiani tra otto e novecento
Guarire il disordine del mondo: Prosatori italiani tra otto e novecento
Guarire il disordine del mondo: Prosatori italiani tra otto e novecento
E-book427 pagine5 ore

Guarire il disordine del mondo: Prosatori italiani tra otto e novecento

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Il “filo rosso” che lega questi saggi, dedicati a romanzieri, saggisti, critici letterari italiani (Manzoni, De Sanctis, Pellico, Bini, Settembrini, Graf, Croce, Capuana, Serra, Alvaro, Buzzati, Morselli, Bufalino, Sciascia) è l’idea che «la scrittura rappresenti, in qualche modo, un espediente per cercare di dare forma al Caos, un modo di fare ordine, di arginare l’entropia che governa il mondo» (dalla Premessa). Guarire il disordine del mondo (con titolo che strizza l’occhio a Bufalino) indaga la scrittura come phàrmacon, nella sua duplice accezione greca di ‘rimedio’ e di ‘veleno’. E la prosa come «consapevole scelta stilistica e
formale, in quanto specchio di un pensiero che è sempre anche emozione».

«C’è ancora, per fortuna, chi crede che fare critica letteraria sia un atto di responsabilità. Maria Panetta è tra costoro, come dimostrano gli studi raccolti in questo volume, frutto di anni alacri e dedicati a un segmento di storia letteraria che coincide con quella “letteratura dell’Italia unita” cara a Contini ma che, per un buon tratto, ci riporta, non soltanto per motivi cronologici, alla “letteratura della nuova Italia” di crociana memoria»
(Giuseppe Traina, dalla Prefazione).
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2015
ISBN9788870006834
Guarire il disordine del mondo: Prosatori italiani tra otto e novecento

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    Anteprima del libro

    Guarire il disordine del mondo - Maria Panetta

    2012

    1. La Storia della letteratura italiana di De Sanctis: manuale, saggio o romanzo?

    Il primo ad aver parlato della Storia della letteratura italiana come di un romanzo sarebbe stato Giacomo Debenedetti: è quanto hanno sostenuto alcuni studiosi¹ in diretto riferimento alla sua Commemorazione del De Sanctis, pubblicata nel 1934². In realtà, pur avendo riletto questo intervento più volte, non vi ho trovato traccia alcuna di un’esplicita definizione della Storia come romanzo.

    Debenedetti, infatti, si limita a istituire un parallelo tra il manuale di De Sanctis e i Promessi Sposi, notando come le due opere siano accomunate dall’obiettivo di sviluppare «un mondo ideale in un mondo storico»³. Sostanzialmente, la felice formula dell’ideale calato nel reale, elaborata per Manzoni, viene piegata a illustrare la concezione filosofica sottesa alla Storia di De Sanctis, sempre alla ricerca di un’ideale perfezione artistica e spirituale e, in quest’anelito mai interamente soddisfatto, sempre costretto a misurarsi col limite della realtà. È come se il punto di vista da cui De Sanctis giudica fosse esterno alla storia e al reale, quasi aposterioristico; e una spia linguistica di questo atteggiamento mentale è da rilevare nella martellante ripetizione, nella scrittura della Storia, di stilemi quali: «manca a», «gli manca…», «ci è… ma non»⁴.

    Se definisce De Sanctis critico estetico e storico dell’ideale, Debenedetti, però, dichiara: «non mi lascerò certo sedurre a fare del De Sanctis un poeta»⁵ (e, in tale contesto, la parola poeta va intesa in senso ampio, nell’accezione che sarà, poi, crociana). Pertanto, quando prende in esame quegli autori che rappresentano i controideali emergenti nella Storia desanctisiana (affermando, ad esempio: «ecco, più o meno, i Don Rodrighi e gli Innominati e i Don Abbondi della Storia della letteratura italiana»), non sono persuasa del fatto che debba essere preso alla lettera. Debenedetti afferma, infatti, che la Storia è «una di quelle titaniche creature, figliate in un momento di sapere quasi magico, e sopravvissuto solo nell’atteggiamento inimitabile del gesto creatore»⁶; e commenta anche che De Sanctis «non riuscì a fare un libro di scuola. E nemmeno un libro che faccia scuola»⁷. Non sostiene, invece, in modo esplicito e inequivocabile, che questo libro appartenga al genere romanzesco⁸.

    Se, dunque, non è stato Debenedetti a definire la Storia un romanzo, resta aperto almeno un problema: se questa interpretazione possa avere un qualche fondamento.

    Vittore Branca addirittura considera l’opera desanctisiana

    il più bel romanzo storico italiano dopo i Promessi sposi: storia di una Lucia-Italia, bella, pura e celeste nel suo cerchio nativo, insidiata poi da don Rodrighi corruttori (principi, Spagna, Chiesa) ma salvata dai Cristofori e Federighi della nuova scienza e della nuova letteratura (da Galileo a Parini), e che approda infine alla pace dell’unità nazionale e giunge alle felici nozze col liberalismo cattolico, promosse dal Manzoni e benedette dalle "campane […] a distesa che annunziano l’entrata degli italiani a Roma" […] È il racconto […] tutto romantico e romanzesco, della caduta e della redenzione di una coscienza: della coscienza intellettuale e morale d’Italia, e del dramma spirituale della sua decadenza e del suo rinnovamento, attraverso contrastati progressi e alterne corruzioni⁹.

    In ogni caso – continuo a chiedermi –, ha veramente senso tale ipotesi di lettura?

    È ben noto che la Storia nacque come manuale scolastico: Croce ne ricostruì la genesi in un intervento ancora valido, successivamente raccolto nel volume Una famiglia di patrioti¹⁰. Da sottolineare solo che De Sanctis cominciò il lavoro nell’estate del 1868 e che, dalla corrispondenza epistolare con l’amico Marciano, risulta che fino alla metà del 1871 continuò a credere che l’opera fosse destinata agli studenti: a pochi mesi dalla fine del secondo e ultimo volume, però, egli confessò di essere, ormai, cosciente di non aver scritto un compendio per le scuole. Questa evoluzione sembra trovare riscontro nella Storia stessa: i primi tre capitoli appaiono, infatti, i meno costruiti e coerenti¹¹; i due sulla prosa e quello sul Trecento sembrano ispirati da un’intenzione prettamente informativa, propria di un manuale (laddove si parla di prosa, mi pare che De Sanctis sia generalmente più preciso nell’esposizione didattica e meno originale nell’interpretazione, il che potrebbe essere letto come una conferma della sua netta predilezione per la poesia); dal capitolo sulla Commedia, invece, si nota uno stacco e si susseguono una serie di vere e proprie monografie critiche, finché, negli ultimi due capitoli, il tono cambia e assume un prevalente taglio etico-politico.

    Anche ammesso che tale dinamica interna sia effettivamente riscontrabile e condivisibile, sono convinta del fatto che non si debba giudicare la Storia, in quanto manuale, facendo riferimento a parametri attuali, altrimenti essa parrà inevitabilmente un’opera parziale e poco scientifica: il lavoro di De Sanctis va, invece, contestualizzato ed esaminato alla luce delle esperienze storiografiche coeve e, soprattutto, precedenti.

    A tale proposito, risulta di grande utilità la consultazione della classica Storia delle storie letterarie di Giovanni Getto¹², attenta a valorizzare l’impianto estetico che è alla base dell’opera desanctisiana, seppur nella consapevolezza che la sua asistematicità e l’ambiguità delle sue oscillazioni terminologiche non consentano di considerarne l’autore propriamente un filosofo¹³. L’importanza del manuale desanctisiano consiste, invece, secondo Getto, nell’aver proposto un modello storiografico nuovo ed efficace, che riesce a conciliare insieme la preoccupazione di tracciare un’unitaria linea di svolgimento storico della letteratura e la coscienza del valore assoluto dell’arte¹⁴. L’opera si presenterebbe, dunque, come una «storia della cultura, della cultura letteraria, del fatto espressivo in cui si sensibilizza e si palesa la vita di un’intera civilt໹⁵.

    Affermando l’autonomia dell’arte in quanto arte e, contemporanea-

    mente, la sua dipendenza dalla vita spirituale tutta, De Sanctis tracciava, dunque, una storia letteraria in cui confluivano – giobertianamente – la civiltà e la cultura di una nazione; e – aggiungerei – accortamente glissava sul dilemma tra autonomia ed eteronomia dell’arte. Parlando dell’ideale desanctisiano di un armonioso connubio tra scrittore e cittadino¹⁶, Getto cerca di giustificare il ricorrente prevaricare, nella Storia, dell’ottica civile su quella estetica, giungendo alla conclusione che l’interpretazione etico-estetica della storia letteraria sia dovuta all’esperienza del De Sanctis critico militante che, naturalmente, giudica in base al proprio gusto e a quello del proprio tempo.

    Il confronto su De Sanctis da parte dello storicismo novecentesco, in particolare nel secondo dopoguerra, divenne particolarmente serrato: ci si limita a ricordare le osservazioni di Natalino Sapegno riguardo alla posizione dialettica di De Sanctis, egualmente lontano dall’astratto contenutismo e dal puro formalismo¹⁷. In ogni caso, resta l’entusiastico giudizio formulato da René Wellek, che considera quella desanctisiana «la miglior storia della letteratura che sia mai stata scritta», proprio perché «unisce felicemente un vasto schema storico con una critica particolareggiata, unisce la teoria alla pratica, le generalizzazioni estetiche alle analisi dettagliate»: a suo parere, «De Sanctis è non solo uno storico, ma anche un critico, un giudice d’arte»¹⁸.

    Essenziale, comunque – come già sottolineato –, è l’analisi del rapporto della Storia con la coeva storiografia letteraria¹⁹: basterà ricordare i due interventi polemici che De Sanctis scrisse, nel 1865, contro il manuale di Cesare Cantù (minato da settarismo clericale e attento solo al contenuto), e nel 1869 contro le Lezioni di Luigi Settembrini che, se sono animate da vivo patriottismo, sincerità e buon gusto, a suo giudizio risultano, però, nella loro argomentazione critica, troppo sentenziose, e soprattutto dimostrano, alla fine, che «un pensiero così fatto non è un pensiero, ma è immagine e sentimento; non è scienza, ma è arte; è buon senso illuminato dall’impressione e guidato dal gusto»²⁰. A entrambi gli studiosi, comunque, De Sanctis rimprovera un limite moralistico che impedisce loro di fondare storicamente un giudizio critico:

    l’indipendenza dell’arte è il primo canone di tutte le estetiche […] il contenuto può essere immorale, o assurdo, o falso, o frivolo; ma, se in certi tempi e in certe circostanze ha operato potentemente nel cervello dell’artista ed è diventato una forma, quel contenuto è immortale²¹.

    In questo contesto di riflessioni assume, poi, un forte valore programmatico la famosa lettera desanctisiana a Beniamino Marciano, datata 7 luglio 1868:

    Una storia della letteratura presuppone una filosofia dell’arte, generalmente ammessa, una storia esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, passioni, costumi, caratteri, tendenze; una storia della lingua e delle forme; una storia della critica, e lavori parziali sulle diverse epoche o sui diversi scrittori. […] Una storia nazionale, che comprenda tutta la vita italiana nelle sue varie manifestazioni, è ancora un desiderio²².

    Anche le pagine su Settembrini, precedentemente menzionate, convergono non solo nel denunciare come in Italia sia ancora scarsa la produzione di lavori monografici e analitici propedeutici a una matura sintesi storiografica²³, ma soprattutto nel ribadire il legame tra la storia letteraria e la cultura nazionale.

    Tornando al problema dell’interpretazione della Storia come romanzo, ritengo che occorra preliminarmente discuterne la compatibilità con l’impianto e la funzione di un’opera che nasce con uno scopo dichiaratamente educativo e didattico (cioè che non ha in se stessa la sua ragion d’essere, ma si prefigge un fine extra-estetico) e che è progettualmente destinata a raccontare una storia non d’invenzione (né mista), bensì accaduta e reale. Problema, questo, antico quanto la cultura letteraria occidentale, se fu Aristotele a discutere nella Poetica dei rapporti tra storiografia e poesia (o racconto: cioè, mito). Ceserani, che pure nel proprio Raccontare la letteratura²⁴ ammette che la Storia desanctisiana possa «sembrare» un romanzo dell’Ottocento, si dice in disaccordo con la tesi, avanzata da più fronti negli ultimi anni, che si possa parlare di sapere come narrazione²⁵: ma a questo punto ci si addentra in problemi generali di teoria della letteratura e ci s’imbatte in complesse questioni che necessiterebbero ognuna di un’approfondita trattazione specifica, e alle quali, pertanto, non ci sembra il caso di accennare soltanto, in questa sede²⁶.

    Forse, invece, si potrebbe sottolineare come anche a un manuale per licei possa essere riconosciuto un certo valore estetico²⁷; come esso possa essere apprezzato per la vivacità della prosa e per il modo audace di costruire il discorso, atto a catturare l’interesse del lettore, avvalendosi, magari, di tecniche narrative come l’anticipazione sul futuro o l’allusione, e dell’effetto di suspence²⁸: in fondo, si tratterebbe di espedienti che mirano a coinvolgere lo studente-lettore e ad evitare che, sopraffatto dalla noia, interrompa la lettura. Del resto lo stesso De Sanctis, a proposito delle lettere di santa Caterina, denuncia il fatto che «le spesse ripetizioni, l’esposizione didattica, quell’incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono»²⁹. Nonostante ciò, la vigorosa vivacità della Storia non sempre riesce a compensare il tono ripetitivo e pesante di alcune pagine in cui la forzatura ideologica si fa più pressante.

    Non bisogna, infine, dimenticare il fatto che ogni opera di storiografia appartiene a una tipologia di discorso retorico e letterario che non può, per sua natura, prescindere da una struttura narrativa e argomentativa di certo rispettosa delle regole imprescindibili di consequenzialità e linearità, ma non refrattaria all’impiego di schemi di complicazione e risoluzione simili a quelli romanzeschi.

    La possibilità di leggere la Storia come un romanzo troverebbe valide prove a sostegno nello stile della prosa desanctisiana³⁰. La lettura, ad esempio, del saggio di Mario Casu su Il De Sanctis scrittore³¹ può fornire utili spunti d’analisi al riguardo: non è difficile rilevare la presenza di particolari artifici narrativi che potrebbero infondere in chi legge la sensazione di trovarsi proprio di fronte a un romanzo. Direi che ciò si possa riscontrare soprattutto nei primi capitoli della Storia, e in modo particolare nei primi tre³², forse perché composti prima che De Sanctis fosse pressato dall’assillo di dover concludere e ridimensionare la propria opera per esigenze editoriali; o forse perché, nelle pagine iniziali, non era stato ancora concepito quel saldo e serrato impianto strutturale rilevabile, invece, a partire dalla trattazione del Trecento. Insomma, all’inizio del lavoro il critico sarebbe stato più libero di esprimere e di esprimersi.

    In primo luogo, è da notare come i titoli dei due capitoli iniziali (I Siciliani; I Toscani) alludano quasi a una pluralità di concrete presenze umane, e come l’aggettivazione e l’uso della similitudine giochino un ruolo fondamentale nella suggestione narrativa della Storia. Caratteristico di De Sanctis è, poi, l’espediente di personificare i concetti (ad esempio, al riguardo della nascita della lingua poetica siciliana³³, oppure quando parla di forma, in relazione a Iacopone da Todi³⁴), conferendo un carattere di concretezza e vivacità anche a elementi astratti e generici, e di animare ciò che va esponendo, tanto che probabilmente si può estendere a lui stesso la sua osservazione che Guinizzelli, come Platone, amava le proprie idee quasi fossero persone vive³⁵. E appunto in tale occasione De Sanctis dimostra la propria capacità di drammatizzare l’esposizione critica laddove, definendo l’amore platonico come una sorta di «parentela tra il contemplante e il contemplato», conclude il periodo con un incisivo: «io ti contemplo e ti fo mia»³⁶.

    Si può agevolmente notare, poi, come, in situazioni narrative simili, De Sanctis adotti anche forme espressive assimilabili: sempre Casu sostiene che ciò non avviene per una «necessità di definizione logica, ma per una esigenza sostanzialmente creativa»³⁷. Anche di fronte a pagine come quelle sulla poetica d’amore comune, nel Duecento, a rimatori siciliani e toscani – nelle quali prendono vita due astrazioni, Madonna e Messere, che divengono veri e propri personaggi –, si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un testo narrativo che, quanto a espressività, va ben oltre un semplice riassunto con finalità didascaliche³⁸.

    La rievocazione storica, in De Sanctis, segue il gusto romantico, attuandosi attraverso precise suggestioni lessicali, un periodare dal ritmo serrato e, a volte, mediante artifici mimetici, ossia vere e proprie inserzioni, di brani di opere che il critico sta commentando, nel tessuto del suo argomentare, al fine di ricostruire l’atmosfera e il tono dell’opera evocata e quasi di adeguare la propria prosa a quella in esame: ad esempio, la reiterata incastonatura d’immagini narrative tratte dal Novellino e atte a descrivere l’ambiente culturale federiciano (proprio all’inizio della Storia³⁹), oppure il brano su Cavalcanti in cui De Sanctis cita Filippo Villani, incorporando un periodo della sua Vita di Guido Cavalcanti senza corredarlo di alcuna indicazione interpuntiva di inizio e fine⁴⁰.

    In entrambi i casi, confrontando la citazione desanctisiana con quella del manuale di Nannucci⁴¹ (una delle fonti principali della Storia), si può comprendere come procede la scrittura e in che modo è costruita la pagina di De Sanctis, che tende a sfoltire dati e notizie erudite per accogliervi quasi soltanto la suggestione narrativa delle opere citate, il che conferisce una patina arcaizzante al suo linguaggio, incidendo, talvolta, anche sul ritmo del suo periodare.

    Degni di nota sono pure i maestosi affreschi epocali, come quello che apre il capitolo VI sul giubileo di Bonifacio VIII, in cui il critico, con grande abilità scenografica, riesce a concentrare in poche righe una serie di personaggi o di categorie sociali, trasmettendo al lettore un suggestivo senso di coralità. A volte si serve di richiami a opere d’arte figurativa, per delineare meglio un quadro storico tramite notazioni visive che lo trasformano quasi in spettacolo⁴²; talora, invece, riesce a descrivere con un effetto di resa pittorica⁴³ persino alcune categorie estetiche astratte (ad esempio, nella pagina sul gotico e sul grottesco).

    In genere, la lucidità di giudizio che De Sanctis costantemente persegue si esprime spesso in chiarezza immaginativa di visione, cioè – desanc-

    tisianamente – in forza di rappresentazione e di descrizione⁴⁴. In una breve notazione su Folcacchiero da Siena, ad esempio, egli sembra individuare, per contrasto, le caratteristiche precipue dello scrivere storia; nell’esaminare la canzone Tutto lo mondo vive sanza guerra, così conclude: Folcacchiero «narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore»⁴⁵. Allo scrittore di storia è, dunque, richiesto soprattutto un certo vigore figurativo: per poter conquistare la partecipazione commossa del lettore.

    Nella Storia sono singolari anche certe clausole narrative che vengono spesso a suggellare e a sottolineare il ritmo interno del periodo che le precede⁴⁶, e soprattutto le fulminanti chiuse di molti capitoli; quegli stilemi tipici («e ci fu…»; «e fu…»; «ci è…») e quelle note epigrafi definitorie in cui si esprime, sì, la coscienza che il critico ha della propria funzione di giudice estetico⁴⁷, ma che forse potrebbero essere lette anche come una sorta di formule di facile memorizzazione atte ad aiutare lo studente a fissare certi concetti complessi con l’ausilio di antitesi, contrapposizioni, coppie oppositive⁴⁸.

    A volte è lo stesso De Sanctis che, personaggio tra i personaggi, invade la scena: parlando di Iacopone e della letteratura latina popolare a sfondo religioso, ad esempio, ricorda la processione e l’apparizione rituale dell’angelo durante la festa della Madonna a Morra, suo paese nativo⁴⁹. Tali interventi diretti del narratore sono da ricondurre, secondo certa critica, a una predisposizione di De Sanctis per la narrazione autobiografica, tanto che sempre Casu dimostra convincentemente l’evidente rapporto esistente fra i modi immaginativi della Storia e quelli della Giovinezza desanctisiana, fino a suggerire un’intima parentela tra il tema di Beatrice, apparso nel manuale alla fine del capitolo terzo e riaffiorante spesso in seguito per associazione fantastica con i motivi del nascere e del morire, e quello di Genoviefa, uno dei tre personaggi femminili più rilevanti dei Ricordi desanctisiani: a dimostrazione della reciprocità esistente tra l’esperienza di vita vissuta dal De Sanctis e le intuizioni spirituali e critiche derivate dalle sue letture poetiche.

    In generale, si può, comunque, rilevare che la modalità della visione ha, nella prosa desanctisiana, uno scopo preciso di chiarezza, per se stesso e per chi legge: di qui la sua plasticità, quel riassumere in un giudizio che è immagine il concetto cui è approdata la riflessione critica, cercando sempre l’aderenza delle parole alle cose⁵⁰. Si avverte netta l’esigenza di accostarsi direttamente al lettore con toni non severi o cattedratici, ma semplici e indulgenti: da ciò l’uso di locuzioni volutamente popolareggianti come la volgarizzazione «concilio di Torsi»⁵¹, ripresa dal Trucchi⁵²; oppure l’adozione di intonazioni tipiche del parlato, come in un dialogo coi discepoli⁵³, e il suo coinvolgerli nel discorso, apostrofandoli ogni tanto⁵⁴; certi modi familiari di alludere a grandi nomi («dice Erasmo», «nota Leib-

    nizio»); infine, i riferimenti al presente⁵⁵ e il ricorso a immagini di esperienza quotidiana⁵⁶, per affrontare l’argomento esposto in termini più efficaci, dal punto di vista didattico, stimolando l’interesse del lettore. La sua affermazione relativa ai Siciliani («migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all’effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene […] Sono piú vicini al sentimento popolare e alla natura»⁵⁷) non può essere, a mio avviso, considerata proprio una giustificazione dello stile parlato desanctisiano, in aderenza al canone romantico della spontaneità (come sostiene Casu), ma è certamente testimonianza forte dell’insofferenza polemica di De Sanctis nei confronti di ogni pretesa di normativa retorica.

    Se si esaminano, infine, le strutture sintattiche della prosa desanctisiana⁵⁸, ci si rende conto facilmente del fatto che i suoi principali obiettivi sono la chiarezza, l’incisività e la semplicità: nel periodare prevale, infatti, nettamente la successione di piccole proposizioni paratattiche, di contro a una generale avversione per l’uso delle congiunzioni ipotattiche, tanto che spesso l’autore sembra puntare sull’intuitiva sensibilità del lettore, invitato a completare il rapporto logico che sussiste tra le proposizioni. E sempre al lettore De Sanctis si rivolge direttamente tramite il fitto impiego di interrogative di corto respiro, caratterizzate da un’immediatezza di tipo colloquiale, che generano risposte egualmente semplici e lineari⁵⁹: esse producono un effetto di efficacia espressiva anche nei casi in cui le risposte concrete vengono sottintese e, con un salto logico, si passa a una nuova frase⁶⁰. Similmente talora si ricorre a frasi esclamative, di carattere emotivo, col predicato verbale all’infinito⁶¹. In particolare, la proposizione ellittica plurioggettiva costruita con «indi» conferisce il tono di un procedere spedito, sottolineato dall’accumulo dei sostantivi⁶². Anche la frequenza delle apposizioni giustapposte segmenta certi periodi lunghi: accompagnate da aggettivi, participi passati e complementi vari, le apposizioni vi acquistano, infatti, autonomia, assimilandosi alla categoria delle proposizioni ellittiche. Il ricorso insistente a sintagmi abbreviativi (quali infiniti, gerundi e participi) è un’ulteriore caratteristica della prosa analitica di De Sanctis, stilisticamente lontana dalla costruzione di quella classica: rare eccezioni si hanno solo in casi di accumulo di elementi analoghi (sempre infiniti, participi passati e gerundi) che vengono a contrastare con l’usuale ritmo del periodare lineare e rapido desanctisiano⁶³.

    La prosa di De Sanctis si conforma, insomma, al modello stilistico indicato nella Giovinezza: «non volevo lo stile a singhiozzi, ch’era spesso una mutilazione, ma non volevo neppure lo stile periodico, che portava spesso alla digressione o distrazione, al troppo e al vano»⁶⁴. Le pagine dedicate all’analisi della prosa di Machiavelli possono offrire una testimonianza di tale ideale: «asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose»⁶⁵. Lo stile desanctisiano si ricollega – come già accennato – alla concezione di una letteratura antiformalistica e antiretorica, profondamente seria nella propria forma e nelle proprie funzioni, che ha il compito di riscattare l’uomo e la società: da questo punto di vista, insomma, lo stile si correla alle cose, altra categoria fondamentale della Storia. Basterà ricordare il ben noto passo dei Ricordi in cui, per smentire Buffon (cioè, la sua famosa sentenza «lo stile è l’uomo»), De Sanctis ribatte che «lo stile è la cosa» e «ha il suo valore nelle cose espresse»⁶⁶: a suo parere, infatti, il grande scrittore oblia sé nelle cose. Nota fondamentale dello «stile vero» è, poi, «la chiarezza, cioè a dire la visione immediata della cosa, come in uno specchio»⁶⁷; poi vengono la semplicità e l’eleganza⁶⁸. I difetti peggiori, invece, sono «la mutilazione e la esagerazione», proprie degli scrittori «aridi o ampollosi»⁶⁹.

    Tornando alla questione della Storia come romanzo, ritengo opportuno ricordare come sulla centralità, individuata – come già detto – da Debenedetti, del problema dell’ideale nel compendio desanctisiano venga a convergere anche l’interpretazione continiana⁷⁰, secondo la quale, per De Sanctis, Manzoni sarebbe il fulcro e il punto d’arrivo dell’intera storia letteraria italiana. Con questa lettura sembra stridere, però, il finale della Storia della letteratura⁷¹, nella sua aperta e drammatica problematicità: secondo Guido Guglielmi⁷², proprio tale carattere di precarietà di un processo che resta irrisolto sarebbe prova sia dell’omologia tra l’opera di De Sanctis e il grande romanzo ottocentesco d’educazione, sia di quanto la famosa unità di reale e ideale vi resti insieme promessa e sospesa. Nel romanzo storico, infatti, le individualità e i personaggi «non sono mai al riparo dalla contingenza, o dal rischio di perdersi»⁷³, così come nella Storia la coscienza (e la letteratura) italiane: «in cammino è la verità, ma non c’è mai celebrazione e possesso della verità»⁷⁴. Eppure la Storia non si conclude «né in chiave di commedia o di adempimento, né in chiave di tragedia o di fallimento»⁷⁵, bensì in chiave «etica», con un forte appello alla storia da fare, alla «storia come compito»⁷⁶.

    De Sanctis, come è noto, adopera il termine romanzo con costanti connotazioni negative, spesso associandolo alla letteratura «in voga» e quindi condannandolo, nel proprio disprezzo per qualsiasi moda. Novella e romanzo vengono definiti perlopiù come generi di letteratura «profani» e «volgari»; e il secondo viene assimilato ora alla «pura leggenda» e al «mondo d’immaginazione», ora al «meraviglioso», al «trastullo di oziosi», poi ai «racconti piacevoli e licenziosi», alle «avventure», ai «disordini», all’«incanto», alle «oscenità letterarie», al «fantastico», al «voluttuoso», al «sentimentale», all’«arlecchinesco», alla «forza incoerente, cioè a dire indisciplinata», alla natura «subbiettiva»: dunque, a tutto ciò che è contrario alla categoria del serio. Ed è ben noto quale fondamentale importanza rivesta la serietà nel giudizio critico desanctisiano. Dunque, se la letteratura per De Sanctis deve veicolare e comunicare valori e contenuti virili (in contrapposizione alle categorie della frivolezza, del passatempo e dell’ozio), e se la cosiddetta letteratura amena è per lui (come già in Tiraboschi) un disvalore⁷⁷, ci si potrebbe chiedere, provocatoriamente: come poter assegnare alla sua opera critica l’etichetta di romanzo, senza avere la sensazione di snaturarla?

    Posto che, secondo De Sanctis, la letteratura s’indirizza solamente a due facoltà dell’uomo (intelletto e immaginazione) e mira a soddisfarne i bisogni mediante opere rispettivamente filosofiche e artistiche, nel suo corso sui generi (risalente al 1843-1844) egli ne distingue sei: sembra interessante notare come, dopo il genere lirico, De Sanctis ponga, in ordine storico e diacronico, quello narrativo (che ha «per iscopo il narrare»), nel quale inserisce anche il romanzo, e successivamente – ancora dopo quello drammatico – citi il genere didascalico, che nasce quando «la società giunge a pieno svolgimento: predominando la riflessione»⁷⁸.

    Sulla base di queste premesse, è ovvio che mai De Sanctis avrebbe classificato la propria Storia come romanzo, ma se volessimo, comunque, leggere la Storia come paradigma di un romanzo borghese (la vicenda di una famiglia di nobili origini, poi decaduta, che alla fine marcia eroicamente verso il riscatto), dovremmo domandarci quanto influisca, in questo schema, la filosofia hegeliana che si sente aleggiare in ogni sua pagina. Se, invece, volessimo parlare di romanzo a tesi, dovremmo tener presente – come ammette anche Ceserani – che «quello genetico e teleologico, in ogni caso, è il modello interpretativo più diffuso, quasi irrinunciabile, di ogni storia letteraria tradizionale, e di conseguenza il modello narrativo del romanzo di formazione e di educazione ne è l’intelaiatura quasi obbligatoria»⁷⁹, tanto più che il modello ideologico alla base della Storia, quello storicistico, ha proprio un impianto di tipo genetico e teleologico.

    L’operazione storiografica desanctisiana è in realtà etico-politica, più che narrativo-romanzesca, nel suo proporsi come obiettivo strategico la formazione scolastica superiore dei futuri gruppi dirigenti del nuovo stato unitario, da sensibilizzare sul problema della coscienza nazionale, in quegli anni primario anche rispetto all’educazione del gusto estetico di futuri critici o studiosi di letteratura. Per queste ragioni, la Storia è stata funzionalmente assimilata a un manuale di educazione nazionale e civica⁸⁰.

    A fronte di questi evidenti dati, permane il fascino e la suggestione che l’idea di una lettura in chiave romanzesca della Storia può effettivamente esercitare: a mio parere, un modo provocatorio per domandarsi se e come vada letta oggi.

    Un documento-monumento: modello basilare nella fondazione della nuova storiografia letteraria (e non solo) nazionale, nonché paradigma identitario risorgimentale⁸¹, da inserirsi in quel filone, tipicamente ottocentesco, di ricostruzione e racconto delle identità archetipiche dei nuovi stati-nazione⁸², che peraltro caratterizza la storiografia europea del tempo. Senza, però, mai dimenticare che forse proprio la parzialità⁸³ e il vivo senso d’umanità che emergono dalle molteplici contraddizioni⁸⁴ di quest’opera costituiscono, oggi, il maggior motivo di fascino per un qualsivoglia lettore⁸⁵.

    De Sanctis avrebbe concluso: «ci senti l’uomo»⁸⁶.


    1 Cfr. ad esempio R. Mordenti, Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, in Letteratura italiana. Le Opere, vol. III, Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 573-665.

    2 Cfr. G. Debenedetti, Commemorazione del De Sanctis, in Id., Saggi critici. Nuova serie, Roma, Edizioni del Secolo, 1945, pp. 1-23.

    3 Ivi, p. 12.

    4 A tale proposito rinvio al giudizio di Croce, che rileva come queste siano mancanze «al lume di un pregiudizio critico, ma non reali privazioni e contradizioni poetiche in sé stesse»: cfr. B. Croce, Ariosto, Milano, Adelphi, 1991, p. 80.

    5 G. Debenedetti, Commemorazione…, op. cit., p. 19.

    6 Ivi, p. 23.

    7 Ivi, p. 21.

    8 Cfr. G. Guglielmi, Il finale della Storia della letteratura italiana, in Francesco De Sanctis un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale del centenario, Napoli-Firenze-Roma, 13-17 settembre 1984, a cura di A. Marinari, Bari, Laterza, 1985, pp. 595-609.

    9 Cfr. V. Branca, Realismo desanctisiano e tradizione narrativa, in De Sanctis e il realismo, Atti del Convegno tenuto a Napoli, 2-6 ottobre 1977, Napoli, Giannini, 1978, vol. I, pp. 1-19; cit. a p. 18.

    10 Cfr. B. Croce, Come fu scritta la Storia della letteratura italiana, in Id., Una famiglia di patrioti, Bari, Laterza, 19493, pp. 267-76. Cfr. al riguardo anche la scheda (n. 124) relativa all’edizione crociana del 1912 del manuale desanctisiano in M. Panetta, Croce editore, Edizione Nazionale delle Opere di B. Croce, Napoli, Bibliopolis, 2006, vol. I, pp. 309-18.

    11 Le precisazioni lessicali in nota ne evidenziano lo scopo didattico.

    12 Rinvio alla quarta edizione, Firenze, Sansoni, 1981 (I ed. 1942), soprattutto alle pp. 235-72.

    13 A tale proposito, cfr. R. Franchini, Fu De Sanctis un filosofo?, in Francesco De Sanctis un secolo dopo, op. cit., vol. I, pp. 197-215. Sebbene le lineari pagine della Storia su Campanella e la sintesi giovanile di Hegel compilata da De Sanctis siano indicative dell’interesse e della passione del critico per la filosofia, l’asistematicità desanctisiana farebbe propendere per l’ipotesi che egli non sia da considerare un filosofo: Franchini nega, al contrario, che non si possa filosofare fuori delle occasioni e «per fini, senza dubbio non ignobili, di illuminazione didascalica».

    14 Su questi temi, si rinvia ai classici studi di C. Muscetta, Francesco De Sanctis, in Letteratura italiana. I Minori, vol. IV, Milano, Marzorati, 1962, pp. 2701-38, e in particolare alla p. 2718: De Sanctis «accoglieva le linee essenziali della storiografia risorgimentale (Balbo, Gioberti) e democratica (Sismondi e Quinet), cioè i primi tentativi di una interpretazione unitaria della nostra storia»; di C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1980 (I ed. 1967), pp. 25-54; di M. Scotti, La legittimità e i limiti della storiografia letteraria ed artistica, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, Liviana, 1970, vol. I, pp. 140-52.

    15 Così G. Getto, op. cit., p. 259. Cfr. anche B. Croce, Prefazione alla traduzione inglese della Storia, ad opera di J. Redfern, New York, Harcourt, 1931, ristampata in Studi desanctisiani, a cura di C. Muscetta, Avellino, Tipografia Pergola, 1931, pp. 5-8 (cit. a p. 6): «fu, in primo luogo, una storia intima del popolo italiano». «Storia degli intellettuali italiani» la definisce, invece, G. Petronio nel suo In margine alla Storia, in Francesco De Sanctis un secolo dopo, op. cit., vol. II, pp. 463-78.

    16 L’unità della vita è unione d’ideale e reale, intendere e fare; di qui il valore della volontà: cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, II ed., Torino, Einaudi, 1962 (I ed. 1958), vol. I, p. 69. Cfr. anche M. Viscardi, Scrivere la storia, fare la Storia, in «Nuova informazione bibliografica», 4, ottobre-dicembre 2011, pp. 789-810.

    17 N. Sapegno, Introduzione alla Storia della letteratura italiana, ed. cit., pp. XI-XXIX, in particolare alle pp. XVI-XVII: «La duplice

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