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Contro l'arte romanica?: Saggio su un passato reinventato
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E-book641 pagine8 ore

Contro l'arte romanica?: Saggio su un passato reinventato

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Da qualche decennio l’arte romanica è alla moda. Ma la basilica di Ripoll o il Fondaco dei Turchi a Venezia sono veramente edifici romanici? Le statue lignee raffiguranti la Madonna e Cristo con il volto nero erano proprio così anticamente? In questo libro si mette in discussione il concetto stesso di romanico e di arte romanica, se ne indagano le origini, e soprattutto si contestualizza la sua genesi storiografica nel particolare contesto culturale della prima metà dell’Ottocento, quando in tutta Europa per la prima volta si scoprì, come d’improvviso, la produzione artistica anteriore all’avvento di quella maniera di costruire che Vasari definì come tedesca o portata dai Goti. Il libro analizza l’elaborazione storiografica e nazionalistica dell’idea di romanico, decostruendone invenzioni ed errori, ponendo l’accento su alcune questioni controverse come la popolarità degli artisti, il ruolo della donna nell’universo artistico misogino dell’epoca o la ricca policromia degli edifici. Ma nello stesso tempo svela la vera personalità del Medioevo romanico, dalla Francia all’Italia, dall’Inghilterra alla Catalogna, mettendo a confronto idee e modelli architettonici e figurativi, in un dialogo che probabilmente in quei secoli fu molto più vivace e vitale di quanto oggi pensiamo.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita27 mar 2021
ISBN9788816802766
Contro l'arte romanica?: Saggio su un passato reinventato
Autore

Xavier Barral i Altet

Xavie Barral i Altet è uno dei più eminenti storici dell’arte europei, professore emerito di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Rennes (Francia), già direttore del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna (MNAC) a Barcellona e della Missione storica francese a Göttingen (Germania), membro di accademie e istituzioni culturali internazionali. I suoi libri sono tradotti in numerose lingue. Oltre al presente libro, presso Jaca Book ha pubblicato Vetrate medievali in Europa (2003) e L’arte gotica (2009).

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    Anteprima del libro

    Contro l'arte romanica? - Xavier Barral i Altet

    PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

    di

    Serena Romano

    Il titolo echeggia – si direbbe – il proustiano Contre Sainte Beuve; e quel ‘contro’, che era la polemica di Marcel Proust nei confronti del mostro sacro della cultura ottocentesca francese, è ora l’attacco di Barral a un altro mostro, la vasta area di luoghi comuni e di stratificazioni di giudizio storico, da cui è nato il concetto di ‘romanico’: tanto familiare a tutti gli studi occidentali, quanto fangoso e ingannatore se lo si esamina più da vicino.

    Il libro gioca su registri multipli. Il primo, dominante in tutto il volume, è dunque storiografico, e va a discutere in modo radicale le origini del termine e i limiti del riferimento storico-cronologico che lo hanno generato. Nata nel decennio 1810-20, e attestata in una lettera di Charles de Gerville del 1818, questa nuova parola identificava allora un’area cronologica e geografica estremamente sfrangiata. Più che circoscrivere con esattezza un fenomeno, o un gruppo di fenomeni storici chiaramente caratterizzati e individuabili, ricavava la propria identità per via di opposizione. Romanico significava infatti non-romano, post-romano, come si direbbe oggi: la parola abbracciava così un insieme assai confuso e ibrido, nell’Europa colta a partire da un momento allo stesso tempo cruciale e vago, quello della perdita del nesso con il mondo antico e con il suo baricentro mediterraneo – qui il Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne avrà forse ancora qualcosa da dire – e ricostruita, o in via di ricostruzione, per il tramite di altri apporti.

    Romanico, dunque, era una vasta area, includente le fasi storiche nate dalle invasioni barbariche, e arrestata alle soglie della civilizzazione gotica, quella «delle cattedrali», delle guglie, delle pareti vetrate. Un tratto di storia lungo, certamente troppo lungo: percepito, tuttavia, anche per essere poi, di fatto, il bacino dell’altrettanto lungo processo storico, che nel seno dell’Europa feudale vede il graduale distinguersi delle cosiddette identità nazionali, o quanto meno dei gruppi linguistici e politici, letti come i legittimi padri delle nazioni moderne. Nelle coscienze nazionali impregnate dal romanticismo ottocentesco, tra costumi da paggi, baci con belle dame, giostre e tornei, questi secoli assumevano una loro identità, non più sottomessa alla condanna di decadentismo affibbiata da Vasari al concetto di ‘gotico’, né al suo giudizio di disvalore rispetto al Rinascimento.

    Era dunque una lettura della storia secondo un punto di vista: il quale comportava non solo valutazioni estetiche o proposte cronologiche, ma anche – o soprattutto – l’intervento sui monumenti protagonisti delle tesi storiografiche degli studiosi, la loro fisica manipolazione. Una volta attribuito loro valore storico, essi vengono spesso forzati nelle direzioni desiderate, omologati agli schemi di giudizio, resi usabili e funzionali ma travestiti e trasfigurati fino a inventare a più riprese e in mille diversi episodi, un presunto e talvolta fantastico Romanico. Nelle pagine del libro si percorrono i nodi più importanti di questa costruzione storica e ideologica: la questione dell’«oscurità» del Romanico, la sua presunta natura monocroma e in bianco e nero e poi l’idea del Romanico, arte di monasteri, contrapposta al gotico, arte di cattedrali, o quella del pellegrinaggio a Compostella: Barral ha riunito una vera messe di questi «errori storiografici», nei quali ognuno si ritroverà, credo, per esserci cascato almeno una volta o per aver sentito parlare in questo senso i comuni visitatori o gli studiosi più noti.

    I capitoli del libro sono molto variati, e vanno a toccare tutti gli ambiti tecnici della produzione medievale – architettura, pittura, scultura, mosaico, oreficeria, libri, tappezzerie, vetrate – e anche la loro memoria, con una generosa e utilissima rassegna di fonti; affronta tematiche trasversali, la facciata, il chiostro, il rapporto con l’antico, il problema capitale del ritratto di Cristo, e la questione dell’artista, quella del ruolo della donna: risulta, bisogna dirlo, veramente ampio, quasi enciclopedico. Ha un centro dominante in Francia: e questo, non solo perché il libro era originariamente destinato ad un pubblico francese, ma proprio in ragione della storia critica di questo problema e dei suoi sottocampi. Nello spostarsi tuttavia dello sguardo, dalla Francia, alla Catalogna, all’Italia, alle Isole Britanniche, alle regioni della Germania e dell’Est europeo, si segue appunto quello che Carlo Tosco, nel suo «Romanico» dell’Enciclopedia dell’arte medievale (1999), ha giustamente definito quale caratteristica portante dell’epoca romanica, dunque il policentrismo, la frammentarietà e il particolarismo delle espressioni artistiche, l’emergere di quelle ‘scuole regionali’ che furono presto uno degli interessi focali di chi cominciava a occuparsi del problema, e della sua definizione. Contemporaneamente all’affiorare del termine, si fondavano infatti le Sociétés des Antiquaires, a partire dalla prima e celebre dell’Ouest, e nascevano i periodici che cominciavano a pubblicare i censimenti del patrimonio monumentale, gli studi già specialistici, a cominciare dalla venerabile «Revue Normande». Lo studio delle forme architettoniche, indispensabile strumento per cominciare a costituire gruppi, scuole regionali, e più generali criteri di giudizio, si forgiava sui modelli ‘arborei’ degli studi botanici, così come succedeva anche negli studi di filologia della pittura e nella connoisseurship dei ‘primitivi’: da essi nasce e dura a tutt’oggi tutta una branca e un approccio metodologico della storia dell’arte in quanto disciplina autonoma e riconoscibile in rapporto alle altre discipline storiche. E se poi tante delle più diffuse categorie di giudizio appaiono oggi quali vere e proprie sabbie mobili (ricordo uno scritto recente e bello di Arturo Carlo Quintavalle proprio su questo punto: «I medioevi delle nazioni: art roman e art gothique in Occidente», prefazione a Medioevo: l’Europa delle cattedrali, Atti del convegno, Milano 2007) il loro valore di strumenti storici, seppure di durata limitata nel tempo e di inevitabile peribilità, non è per questo in nulla sminuito.

    L’impatto dello studio e della conservazione – in quanto strumenti di segno assolutamente positivo, naturalmente, ma inevitabilmente critici, quindi legati alla cultura della propria epoca e da essa orientati anche in modi inconsapevoli – sull’oggetto dello studio è ovviamente fortissimo. Nel panorama francese disegnato da Barral, nell’altro, catalano, che l’autore conosce nel dettaglio ed è legato specialmente al nome di Puig i Cadafalch, nei fitti riferimenti di ambito italiano, si precisa la storia del modo in cui, attraverso l’interazione del censimento del patrimonio monumentale, della sua documentazione, e del suo restauro, si attua quella che si deve chiamare una vera e propria redazione del territorio, dunque una selezione progressivamente operata con gli strumenti della conoscenza e quindi della scelta conservativa, fino a operare condanne e salvataggi, e a restituire alle epoche successive un’idea orientata dell’arte del passato. Arcisse de Caumont, che nel 1836 fonda la Société française d’archéologie; Prosper Mérimée, che percorre il territorio francese indagandolo, schedandolo, datandolo, e scegliendo poi i monumenti degni di restauro da quelli ‘minori’ che si lasceranno crollare; così come Séroux d’Agincourt, che nella sua Histoire de l’art racontée par les monuments scrive per la prima volta una storia dell’arte medievale e la illustra con disegni e incisioni commissionati a pittori e disegnatori – così aveva fatto quasi due secoli prima il cardinale Francesco Barberini – non hanno solo studiato il Medioevo europeo: l’hanno anche redazionato e ordinato, in una parola l’hanno creato, e il loro filtro non è eliminabile dalle conoscenze successive. La patina, il concetto brandiano che ha definito il fisico stratificarsi del tempo e degli interventi umani sull’opera d’arte, è anche un dato più astratto, cognitivo e mentale, che appartiene alla storia della ricezione, e che non si può pulire e consolidare con Paraloid, ma solo cercare di penetrare con strumenti critici e molta, molta onesta informazione e lavoro di ricerca.

    Questo libro sveglia, insomma, l’attenzione del lettore su tutta una serie di questioni che sono storiche e sono di metodo, e di storia della storia e di storia del metodo. Non appaia dunque riduttiva la mia sottolineatura della sua utilità anche quale strumento fortemente didattico, indirizzato a un livello di apprendimento cui si presta raramente attenzione, almeno nell’editoria italiana. Difficilmente gli studenti universitari italiani, come tutti gli studenti in genere, leggono i testi sacri che costruiscono la storiografia sull’argomento; essi si occupano soprattutto di avere uno sguardo d’insieme, il più possibile rapido ed efficace e possibilmente nella propria lingua, per compiere poi, su alcuni argomenti, ricerche invece approfondite. Il libro di Barral è una sintesi ampia (i due termini non sono in contraddizione) con punti di vista critici originali e uno sguardo costantemente europeo, della fortuna critica di un problema, ed è quindi un libro come non ce ne sono molti, direi anche come non ce ne sono altri negli scaffali delle librerie.

    Aprire i campi di studio specialistici a un pubblico più vasto è un problema che chiunque faccia ricerca inevitabilmente si pone, ad un certo punto della propria vita, e specialmente una volta passata l’ansia dell’autoaffermazione e diventati studiosi affermati e riconosciuti. La ricerca è ancora un luogo magico, in fondo una nicchia, nella quale hanno legittima importanza anche i dibattiti del genere di quelli del Pickwick Club: «… abbiamo ascoltato, con legittima soddisfazione e approvazione incondizionata, l’intervento di Samuel Pickwick… intitolato "Ipotesi sull’origine degli stagni di Hampstead, con alcune osservazioni sulla teoria dei tittlebats (pesciolini muniti di pinna dorsale spinata e viventi in acqua dolce e/o salata)"». Però arriva un momento in cui bisogna spiegare ad altri in quale modo le spine della pinna dorsale dei pesciolini facciano parte integrante e indispensabile della costruzione del sapere, e perché partecipino della natura umanistica dell’uomo, ieri, oggi, e speriamo domani. Aver citato il meraviglioso Pickwick di Dickens ci porta in ambito anglosassone, e pour cause, perché è forse solo in area anglofona che gli studiosi di maggior reputazione scientifica sono tradizionalmente anche i padri di una solida e generalizzata opera di divulgazione scientifica, coadiuvati da case editrici di livello mondiale che lanciano opere monumentali, allargate a campi vastissimi dello scibile umano, e pubblicano libri sapienti e leggibili allo stesso tempo. Il lettore colto, lo studente universitario, trovano nei volumi della Oxford o Cambridge University Press la base prima e la sintesi affidabilissima per i loro interessi e l’inizio delle loro successive ricerche. In Italia questo coraggio lo hanno avuto in pochi, e certo non è caratteristica della nostra cultura nazionale il desiderio di avvicinare il sapere elitario a fasce più ampie di fruizione, se non svendendolo e rendendolo televisivo. Insomma, i libri sono più facili e piacevoli da leggere quanto più il loro autore è studioso di vasta competenza, ed essendolo, non si preoccupa più del dettaglio pedante, ma cerca di comunicare un’idea e un punto di vista. Il libro di Barral appartiene a questa fortunata categoria. Resta da aggiungere che rispetto all’edizione francese, la traduzione italiana ha molte più fotografie, un’antologia di fonti tradotte spesso difficili da trovare pubblicate, e un corpus di disegni e piante, che integrano in molti punti gli apparati, rendendoli più utili al lettore italiano.

    INTRODUZIONE

    L’arte romanica è alla moda. Lo è già da diversi decenni. Corrisponde ad un gusto per l’arte medievale, considerata come il riflesso di una religiosità essenziale e austera, che si è affermato fin dalla metà del Novecento. Da dove deriva tale infatuazione? A cosa rimanda? Qual è il grado di verosimiglianza o di verità che separa quel che noi riteniamo che sia l’arte romanica, quel che noi amiamo nell’arte romanica, dal modo in cui l’arte oggi definita romanica era percepita nel Medioevo dai suoi contemporanei? Ecco alcune questioni alle quali questo libro tenterà di rispondere.

    Nel corso del mio insegnamento universitario specificamente dedicato all’arte romanica, negli scambi con gli studenti, ho via via rimesso in discussione un certo numero di idee correnti sul Medioevo. A poco a poco evidenze archeologiche pubblicate qua e là mi hanno condotto a delle intuizioni, all’inizio talvolta imprudenti, poi confermate da una nuova, attenta indagine sui monumenti e sui documenti che li riguardano. La lenta giustapposizione di constatazioni puntuali ha poi contribuito a forgiare, nel corso degli anni, una serie di convinzioni che oso ora sottoporre ai lettori, anche non specialisti. Alcune questioni qui sollevate sembreranno andare da sé, benché non siano prese in considerazione né nei manuali di grande diffusione né nei dibattiti più specialistici. Altre affermazioni appariranno invece affrettate, provocatorie o iconoclaste. Esse sono in ogni caso frutto di una maturazione all’ombra della ricerca fondamentale. Per questo motivo, incoraggiato da alcuni colleghi amici, mi dedico oggi a questa impresa di decostruzione che potrà apparire a volte temeraria agli occhi di coloro che, come me, hanno dedicato la vita allo studio dei vari aspetti dell’arte medievale, di un dato monumento, delle modificazioni stilistiche della decorazione o della diffusione di un motivo. Nel fare ciò, metto però in discussione anche me stesso, nel criticare l’assenza di prospettiva generale che emerge da molte ricerche monografiche sull’arte romanica, le mie come quelle di altri. Tuttavia, senza studi monografici non vi sarebbe alcun avanzamento nelle conoscenze storico-artistiche. Senza osservazioni puntuali e senza ricerche circoscritte questo libro non avrebbe senso: è necessario soltanto che l’eccesso di specializzazione non faccia dimenticare allo storico dell’arte o all’archeologo, abituati entrambi a esaminare molto da vicino il loro oggetto di studio, che questo non è che una parte di un sistema sociale più vasto.

    L’evocazione dell’arte romanica genera nel grande pubblico un certo romanticismo fondato su idee diffuse a priori che si originano in un particolare contesto culturale, quello della società occidentale ed europea del XX e XXI secolo. Così s’immagina ancora di frequente che l’arte romanica sia unicamente un’arte religiosa, di chiese, idea che deriva soprattutto dalla mancanza di conoscenze di natura archeologica e artistica sull’ambiente laico urbano e civile dell’epoca. Se le chiese romaniche hanno attraversato i secoli, le dimore private o gli edifici militari o commerciali dello stesso periodo sono stati infatti sostituiti nel corso della loro storia, conservandosi solo in casi eccezionali. D’un tratto la produzione artistica medievale non è stata studiata che a partire dai monumenti religiosi. D’altronde la chiesa costituisce nelle città, e persino nei monasteri, soltanto un elemento – certo essenziale, ma non unico né esclusivo – tra tutti gli edifici che la circondano. Nel Medioevo, in città come nelle campagne, a ogni chiesa corrispondono centinaia di altri edifici¹.

    Analogamente si pretende ancora che l’arte romanica sia solo un’arte di monasteri, mentre essa almeno altrettanto, se non di più, era un’arte di cattedrali, malgrado queste ultime siano state spesso sostituite nelle sedi episcopali da costruzioni gotiche posteriori. D’altra parte molti pensano ancora che l’arte romanica si sia sviluppata essenzialmente lungo le strade che conducevano a San Giacomo di Compostella, mentre a mio parere l’importanza di questo pellegrinaggio è stata largamente sopravvalutata sulla base dell’esistenza di una guida che ne descrive gli itinerari, a scapito di quelli per Roma e Gerusalemme, i veri grandi pellegrinaggi del Medioevo. A queste idee, ampiamente diffuse, si aggiungono altre teorie che hanno condizionato la nostra visione dell’arte romanica. Così il prestigio dell’abbazia di Cluny e della sua storia ha contribuito a far credere all’esistenza di uno stile proprio di quest’ordine, mentre di fatto, a differenza dell’ordine cistercense, quasi nessuno dei priorati o delle dipendenze dell’abbazia-madre cluniacense ne ha ripreso il modello architettonico o lo stile della sua arte. Questo assunto su Cluny non è mai stato provato, non più di quello che l’arte romanica sia stata un’arte di artisti itineranti, poiché nessun esempio concreto, né alcun testo sono venuti a puntellare questa teoria. L’assenza di fonti confermanti le committenze artistiche e la perdita delle principali iscrizioni, spesso dipinte, hanno per molto tempo fatto credere a un’arte romanica anonima, e hanno indotto a ridimensionare la posizione dell’artista nella società medievale dell’epoca romanica².

    Queste radicate convinzioni sono state ampiamente diffuse in un certo numero di opere pubblicate su un’arte che da decenni risponde a un gusto privilegiato del pubblico. In effetti, mentre questo periodo della storia dell’arte è conosciuto e studiato solo da centocinquant’anni, nessuno oggi ne ignora l’esistenza. Solo di recente l’interesse per l’arte romanica è però divenuto un vero e proprio fenomeno di moda, di società, come testimoniano i viaggi organizzati, turistici, verso monumenti romanici piuttosto che verso chiese gotiche o posteriori. Questa infatuazione è d’altra parte cresciuta a seguito del Concilio Vaticano II (1962-65), che ha affermato la volontà di spogliare la liturgia e di denudare gli edifici religiosi, cosa che ha contribuito ad alleggerirli di tutto il fasto accumulatosi nei secoli – uno slancio che non ha fatto che rafforzare l’idea erronea secondo la quale le chiese romaniche fossero un tempo sobrie e vuote, prive di ogni decorazione.

    All’inizio del Novecento, un certo numero di artisti, attirati da quel che allora si chiamava «primitivismo» e dall’arte dell’Africa o dell’Oceania, hanno trovato nella produzione figurativa romanica alcuni caratteri creativi fondamentali e ne sono stati sedotti. A Barcellona, ad esempio, nel corso dei primi anni del secolo, Picasso scoprì l’arte romanica soprattutto grazie ai frontali d’altare dipinti, mentre Joan Miró, quando era ancora bambino, si recava al museo per ammirare le pitture murali romaniche catalane. Più tardi, lo stesso Miró farà ampio uso di questi modelli, soprattutto per il particolare appiattimento delle immagini, la forte semplificazione e riduzione delle forme e dei colori, ma anche per il loro disegno energico e la frontalità delle loro rappresentazioni. Gli artisti e gli intellettuali delle avanguardie, da Picasso a Braque e Apollinaire, e prima di loro Gauguin, ed anche Vlaminck, Miró, Matisse, Derain, fino a Klee, Brancusi o Léger, amarono profondamente l’arte romanica e il suo mistero nello stesso modo con cui scoprirono le arti, dette primitive, degli altri continenti, e provarono a decifrare la pittura preistorica delle caverne³.

    Entrando in un edificio romanico è opportuno oggi chiedersi cosa vi resti di originale, in modo da distinguerlo da quel che è l’opera degli architetti dell’età moderna, in particolare dal momento in cui il gusto per il Medioevo si è imposto, nel corso del XIX secolo, come elemento costitutivo di una nazione, di un passato collettivo. I cantieri di restauro hanno permesso di frequente di mettere in luce vestigia romaniche fino a quel momento ricoperte da costruzioni successive, ma l’interesse un po’ eccessivo per questo periodo dell’arte medievale ha molto spesso causato danni alla conservazione delle creazioni posteriori: per ritrovare lo stato originario di un edificio romanico, o quanto meno di quel che si immaginava fosse tale, si sono infatti semplicemente distrutte numerose opere più tarde, così come nei cantieri archeologici di un secolo fa si distruggevano gli strati medievali e quelli moderni alla ricerca dei livelli più vecchi, quelli antichi. Gli architetti restauratori-ricostruttori del XIX secolo sono stati i veri creatori dei monumenti che noi oggi vediamo, ricostruendo e restaurando gli edifici secondo la loro idea dell’arte romanica, il risultato dei loro studi e lo stato delle conoscenze del tempo.

    Anche i restauri effettuati in un certo momento storico, fondati su idee rivelatesi poi erronee, hanno causato ai monumenti gravi danni, persino irrimediabili. Ancora oggi, con il pretesto di ritrovare questa nudità architettonica romanica che tanto piace, si ha il diritto di distruggere l’arte barocca o quella del XIX secolo, anche se si tratta solamente di una volta stellata dipinta o di un gesso dal decoro vegetale? Sempre in nome del gusto per la presunta austerità romanica, numerosi restauri uniformano le pietre dei muri e mettono in risalto le giunture di malta, riprendendole al fine di accentuare la regolarità e la sobrietà della costruzione. Ora, se informano sul modo di lavorare dei muratori dell’epoca, tali giunture non sono state mai concepite per essere visibili: appartengono a un muro destinato ad essere ricoperto di intonaci e pitture che si rifacevano ogni volta che il loro stato si deteriorava. Ansiosi di omogeneità, i restauratori hanno per lungo tempo cancellato le tracce visibili delle differenti campagne costruttive di un edificio, le testimonianze che sarebbe stato tuttavia necessario conservare della sua vita e della sua storia.

    Mentre gli eruditi, gli studiosi e gli artisti del XIX secolo avevano perfettamente compreso la policromia delle chiese medievali, il nostro gusto per questi temi ha iniziato a deformarsi alla metà del XX secolo: ci siamo messi ad amare ciò che nel Medioevo si sarebbe detestato, vale a dire una chiesa vuota, nuda, bianca o grigia, che ostentava una spiritualità austera, liberata da elementi che avrebbero potuto ingombrare lo spazio, priva di immagini, di tavole d’altare, di oreficerie. Questa idea è profondamente «antimedievale». Una chiesa nella quale la pietra e la malta fossero rimaste a vista sarebbe stata sempre considerata, e non solamente nel Medioevo ma in tutte le epoche, come incompleta; al contrario, ogni chiesa medievale doveva apparire sontuosa, e questa voluta impressione di ricchezza era ottenuta attraverso il colore. I nostri predecessori, nell’Ottocento, sapevano che il restauro di questi edifici passava necessariamente attraverso lo studio e la restituzione della policromia. Questo aspetto è stato in seguito dimenticato, al punto che ormai una chiesa romanica troppo colorata ancora turba.

    Una collana di opere sull’arte romanica ha conosciuto un grandissimo successo e curiosamente si è imposta nel mondo editoriale europeo da più di cinquant’anni, giocando sul doppio registro del turismo e dell’erudizione, ma anche riprendendo l’idea del clero ottocentesco di servirsi dell’arte romanica per far comprendere meglio il cattolicesimo⁴. La collezione «La Nuit des Temps», edita da Zodiaque nell’abbazia borgognona della Pierre-qui-Vire, ha il merito di aver contribuito a far conoscere a un largo pubblico l’arte e l’architettura religiosa romaniche, ma ha anche soddisfatto, attraverso le sue numerose tavole in bianco e nero, lo spirito degli innamorati del Medioevo con immagini di chiese spoglie e di un mondo che rifiuta il colore. Questa notevole iniziativa, apparsa dopo la Seconda guerra mondiale, comprende oggi più di un centinaio di volumi dedicati alla scoperta e allo studio dell’arte romanica delle regioni della Francia, oltre che di altri paesi come il Belgio, l’Italia, la Penisola Iberica, la Germania, le Isole Britanniche o il mondo scandinavo⁵. Illustrati da riproduzioni in héliogravure, a lungo questi volumi hanno mostrato in bianco e nero le vestigia di policromia e le pitture murali. Lo stesso procedimento di riproduzione è stato scelto ai suoi inizi dalla collana «L’Univers des formes» di Gallimard, soprattutto nelle edizioni degli anni 1940-60, cosa che ha ampiamente contribuito a diffondere un’immagine falsata di un’arte, in questo caso quella romanica, priva di colore.

    Questo libro vorrebbe affrontare senza pregiudizi tali questioni fondamentali per la comprensione dell’arte romanica. Se l’immagine che di questa ci si è fatta assomiglia ad una costruzione intellettuale basata su miti talvolta inventati, su conoscenze parziali e su convinzioni spesso estranee agli studi di storia dell’arte, non si possono dimenticare i progressi della ricerca, senza i quali non si sarebbero potute acquisire conoscenze sufficienti per affrontare le interpretazioni cronologiche, architettoniche, stilistiche o iconografiche: elementi tutti che costituiscono la sostanza del lavoro dello storico dell’arte.

    Ma, in fin dei conti, perché ancora oggi l’arte romanica è considerata la grande arte del Medioevo? In effetti, è in maniera arbitraria che gli eruditi del XIX secolo hanno scelto il termine «romanico» per definire un’epoca che allora si percepiva come erede dell’arte romana, come oscura dunque, ma degna di essere riabilitata. Quante novità o invenzioni architettoniche si possono realmente attribuire a questo periodo? L’arte romanica è proprio così innovatrice? Il gotico non corrisponderebbe forse meglio a questo concetto di novità?

    Nel rimettere in discussione un buon numero di idee preconcette incardinatesi nel nostro spirito da più un secolo e mezzo⁶, nel decostruire miti che il nostro immaginario ha elaborato nel corso del tempo, ci si pone contro l’arte romanica così come la percepiamo oggi per meglio scoprire ciò che essa rappresentò nell’XI e nel XII secolo⁷.

    NOTE

    ¹ In Francia, Alain Erlande-Brandenburg ha preso posizione contro le idee correnti sull’arte romanica in opere di carattere generale: La Cathédrale , Paris, Fayard, 1989; Quand les cathédrales étaient peintes , Paris, Gallimard «Découvertes», 1993; De pierre, d’or et de feu. La création artistique au Moyen Âge IV e -XIII e siècle , Paris, Fayard, 1999; Le Sacre de l’artiste. La création au Moyen Âge , XIV e -XV e siècle , Paris, Fayard, 2000; Ombres et lumières romanes , Luçon, Gisserot, 2003; L’Art roman. Un défi européen , Paris, Gallimard «Découvertes», 2005.

    ² Una visione meno monolitica dell’arte medievale e dei suoi metodi di approccio si trova nei quattro volumi Arti e storia nel Medioevo , a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Torino, Einaudi, 2002-2004, e nei numerosi interventi ai congressi annuali tenutisi a Parma fin dal 1998 ( I convegni di Parma , pubblicati a partire dal 2000 a cura di A.C. Quintavalle). V. anche Dictionnaire d’histoire de l’art du Moyen Âge occidental , a cura di P. Charron e J.-M. Guillouët, Paris, Bouquins, 2009. Un altro esempio del rinnovamento degli studi può individuarsi nei volumi già apparsi del Corpus della Pittura medievale a Roma: mi riferisco, in particolare, a M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini. 312-468, Milano, Jaca Book, 2006 (La pittura Medievale a Roma. 312 - 1431. Corpus 1); S. Romano, La pittura medievale a Roma. Riforma e tradizione. 1050-1198, Milano, Jaca Book, 2006 (La pittura Medievale a Roma. 312 - 1431. Corpus 4); M. Andaloro, La pittura medievale a Roma. 312-1431. Atlante. Percorsi visivi. I. Suburbio, Vaticano, Rione Monti, Milano, 2006 (Atlante percorsi visivi. 312-1431. La pittura Medievale a Roma 1).

    ³ Primitivism in 20th century art. Affinity of the Tribal and the Modern , catalogo della mostra (Museum of Modern Art, New York; Detroit Institute of Arts; Dallas Museum of Art), a cura di W. Rubin, New York, 1984; C. Harrison, F. Frascina, G. Perry, Primitivism, cubism, abstraction: the early 20th century , New Haven, Yale University Press, 1993; X. Barral i Altet, Joan Miró i l’art romànic català , in «Revista de Catalunya», 87, 1994, pp. 81-107; ; P. Parcerisas, Agnus Dei. L’art romànic i els artistes del segle XX , catalogo della mostra (Barcellona, MNAC ), 1995; Primitivism and twentieth-century art: a documentary history , a cura di J. Flam e M. Deutch, Berkeley, University of California Press, 2003; M. Castiñeiras, El llegat de l’art romànic: la visió de la modernitat , in M. Castiñeiras, J. Camps, El romànic a les col.leccions del MNAC , Barcelona 2008, pp. 205-213; La magie des images. L’Afrique, l’Océanie et l’art moderne , catalogo della mostra, Basel, Fondation Beyeler, 2009.

    ⁴ Si veda il lungo articolo che Dom Angelico Surchamp, fondatore e direttore delle edizioni Zodiaque, ha dedicato al mio libro, difendendo posizioni critiche spesso contrastanti con le mie: En pro del arte románico y su mensaje tan actual , in «Románico. Revista de arte», Amigos del Románico, 7, dic. 2008, pp. 48-60.

    ⁵ La collezione, edita presso l’abbazia de La Pierre-qui-Vire dal 1955 (il primo volume, dedicato alla Bourgogne romane , contiene alcuni fascicoli che erano già apparsi nella rivista «Zodiaque», nata nel 1950), è stata ripresa in altri paesi europei (ad esempio, dalle edizioni Encuentro in Spagna e Jaca Book in Italia). Su «Zodiaque» si vedano ora M. Collin, Le Edizioni Zodiaque. Un’avventura di cinquant’anni , in Benedetto. L’eredità artistica , a cura di R. Cassanelli e E. López-Tello García, Milano, Jaca Book, 2007, pp. 425-434; e soprattutto C. Lesec, Zodiaque est une grande chose, maintenant… , in «Revue de l’art», 157, 2007, pp. 39-46.

    ⁶ Régine Pernoud aveva tentato un’operazione analoga nel piccolo, molto utile lavoro, Pour en finir avec le Moyen Âge , Paris, Seuil, 1977; tr. it. Medioevo: un secolare pregiudizio , Milano, Bompiani, 1983. Si veda inoltre R. Pernoud, J. Gimpel, R. Delatouche, Le Moyen Âge pour quoi faire? , Paris, Stock, 1990; J. Le Goff, Pour un autre Moyen Âge , Paris, Gallimard, 1991 (coll. «Quarto», 1999), e J. Heers, Le Moyen Âge, une imposture , Paris, Librairie académique Perrin, 1992 («Vérités et légendes»).

    ⁷ L’edizione francese del presente volume, pubblicata a Parigi nel 2006, non ha lasciato indifferenti. Si veda, a questo proposito, F. Dufay, L’art roman n’est pas ce que vous croyez , in «L’Histoire», 320, mai 2007, pp. 58-63; R.A. Maxwell, En quête de l’art roman , in «Perspective ( INHA )», 2007, 1, pp. 165-170; N. Reveyron, L’art roman , coll. «Idées Reçues», Paris, Le Cavalier bleu éd., 2008, p. 126; J.E. Ruiz Domènech, Teorías a debete , in «Culturas. La Vanguardia», Barcelona, 2 avril 2008, pp. 18-19, e l’articolo di Dom Surchamp citato più sopra. Un adattamento catalano è stato pubblicato in Catalogna, L’art romànic català a debat , (Llibres a l’abast, 405), Barcelona, Edicions 62, 2009, mentre una versione croata Protiv romanike? Esej o pronaùenoj proylosti è appena stata pubblicata a Zagabria da Institut za povijest umjetnosti (Zagreb, 2009).

    Capitolo primo

    INVENTARE L’ARTE ROMANICA: LA COSTRUZIONE DI UNA DISCIPLINA

    Terminologia, geografia e cronologia

    Una certa confusione regna ancora oggi tra le differenti espressioni abitualmente impiegate per definire i periodi della storia dell’arte romanica e medievale¹. «Medioevo» è dal punto di vista storico un’espressione arbitraria, e quasi peggiorativa, destinata a qualificare un periodo ritenuto transitorio tra l’arte dell’antichità e quella del Rinascimento, due momenti forti che a lungo hanno messo in ombra le creazioni intermedie. Tale espressione corrisponde alla visione romantica dell’arte e del mondo al momento della riscoperta, dopo un lungo periodo di oblio, delle opere realizzate tra il X e il XV secolo. In effetti dal Rinascimento all’Ottocento nessuno aveva mai pensato di interessarsi a quella che si è poi chiamata arte romanica o arte gotica, poiché non ci si curava che delle produzioni antiche o dall’antico derivate.

    Per definire gli ultimi momenti dell’antichità e il passaggio al primo alto Medioevo, si è imposta ad un certo punto la nozione di «tarda antichità», al fine di inquadrare il periodo corrispondente alla fine della romanità, epoca nella quale convivono cristiani e non cristiani². In effetti la formula «arte paleocristiana» pone troppo l’accento sulla componente cristiana della società del tempo. Analogamente si incontra oggi sempre più l’espressione «tarda antichità» invece di «basso impero», dalla connotazione troppo negativa³. Questo periodo si apre nel IV e si dilata fino al VII-VIII secolo, alle soglie dell’età carolingia. La medesima confusione regna nella terminologia impiegata per definire l’arte tra V e VIII secolo, specialmente in relazione agli avvenimenti storici. Si parla di «arte delle invasioni»⁴ o di «arte dei popoli barbari»⁵, o ancora di arte bizantina, arte tardoromana, arte franca o merovingia, di arte visigota o arte longobarda. Il problema è che i termini impiegati non corrispondono a criteri unitari.

    Per il periodo successivo, l’espressione «arte carolingia»⁶ rimanda a una nozione storico-politica piuttosto che artistica, definendo l’arte di un periodo in rapporto a un sovrano, una personalità o una dinastia, come se tutta l’arte dell’VIII-IX secolo possa coincidere con quella che si sviluppa al centro del potere politico, e spesso senza il giusto riferimento alla testimonianza delle fonti scritte⁷. Si può allora continuare ad utilizzare questa specifica definizione, legata a una determinata area geografica, per tutte le regioni d’Europa, quale che sia il loro contesto politico o sociale, e persino per quelle che non conoscevano in alcun modo la realtà politica carolingia? In generale, la confusione è causata dall’utilizzo di termini basati su parametri differenti – storici, geografici, sociali o politici, ad esempio – per definire un determinato periodo artistico.

    Tra arte carolingia e arte romanica la pluralità terminologica è altrettanto problematica⁸. A cosa corrisponde realmente, dal punto di vista storiografico, l’arte del X secolo? Questo secolo è stato a lungo ritenuto un periodo oscuro, di invasioni e di assenza di creazione, un’idea che oggi tende a modificarsi. Gli specialisti sono concordi nel collocare l’arte del X secolo tra l’arte carolingia e l’arte romanica dell’XI secolo, riflessione logica sul piano cronologico. Comunque le definizioni per qualificare quest’arte si sprecano. Dobbiamo dire «post-carolingio»? O preferire l’espressione «pieno Medioevo»⁹, che assume un significato diverso in ciascun paese, restando di fatto neutra¹⁰, benché in tedesco, ad esempio, includa l’arte romanica? O il termine «ottoniano»¹¹, utilizzato soprattutto per le regioni settentrionali, anche se rimane geograficamente limitativo e lascia intendere che l’arte di questi periodi non dipenda che da dinastie concrete? Alcuni storici dell’arte optano per «protoromanico»¹² o «preromanico»¹³, nella misura in cui in quest’epoca si elaborano le forme che diverranno quelle dell’arte romanica dell’XI-XII secolo. La nozione stessa di arte preromanica non esiste se non in rapporto a quella di arte romanica, e questo è forse un modo semplice di collocare tutto quanto è anteriore a quest’ultima, senza dover definire un quadro cronologico preciso. Infine, abbiamo motivo di credere che vi sia stato un cambiamento radicale intorno all’anno Mille? Si può parlare di un’architettura dell’anno Mille¹⁴ come si parla di «stile 1200»¹⁵ o della fioritura del 1400¹⁶? Tutto questo mette in luce le difficoltà che si incontrano nel definire un periodo, corrispondente alla seconda metà del X secolo, che non è mai stato studiato in sé, ma spesso in rapporto all’arte carolingia che lo precede e a quella romanica che lo segue.

    Problemi di terminologia si presentano anche quando si cerca di definire il pieno periodo romanico. Prima dell’Ottocento la parola «romanico» non esisteva. I nostri predecessori, prima di allora, non si preoccupavano di distinguere un monumento romanico da un monumento gotico, di chiamarlo in un modo o in un altro, di fissare una terminologia per un certo periodo dell’arte medievale, o anche di classificare gli edifici medievali gli uni in rapporto agli altri. «Arte romanica» è una denominazione arbitraria, apparsa nel XIX secolo e da quel momento introdotta nel nostro vocabolario. È stato infatti Charles de Gerville, in una lettera del 1818, ad inventare l’espressione art roman (arte romanica), attribuendole peraltro una connotazione negativa: un’architettura pesante e grossolana, come ebbe a dire, «un opus romanum snaturato o successivamente degradato dai nostri rudi antenati». De Gerville sosteneva che quest’arte derivava da quella degli antichi romani¹⁷. Se è in effetti possibile constatare che l’arte romanica si richiama a elementi originatisi nell’antichità, questi ritorni verso l’arte del passato romano non sono tuttavia più numerosi nel periodo romanico di quanto lo siano in altri periodi della storia dell’arte. Questo fenomeno è stato ben analizzato da Erwin Panofsky nel suo studio sul Rinascimento e i suoi precedenti nell’arte occidentale, dove egli sviluppa l’idea che l’arte sia un eterno ritorno all’antichità, più o meno sensibile a seconda dei periodi¹⁸. Per sostituire l’espressione – convenzionalmente accettata – di «arte romanica», si è talora proposta quella di «arte feudale», che dal punto di vista storico collegherebbe forse di più la produzione artistica di quest’epoca alla struttura reale della società¹⁹.

    Da più di un secolo e mezzo si definisce «architettura romanica» un certo tipo di costruzione: un’architettura soprattutto religiosa, originariamente in muratura, con una copertura assai peculiare che oscilla tra le travature lignee e le volte a botte o a crociera, e che non include i costoloni ogivali, considerati un tratto specifico dell’architettura gotica²⁰. L’edificio è dotato di aperture, piuttosto strette nelle chiese voltate, che rendono ombroso l’interno. Ma questa formula pone un ulteriore problema di cronologia, legato all’esistenza di significative differenze tra l’arte dei diversi territori: ad esempio, quando intorno al 1150 nel nord si abbandona l’architettura detta romanica, questo tipo di costruzione fiorisce ancora per un cinquantennio nell’Europa del sud. L’espressione «arte romanica» resta dunque molto generica e astratta se non si tiene conto delle nozioni geografiche e delle varianti regionali.

    Gli storici dell’arte hanno sentito piuttosto presto l’esigenza di precisare e contestualizzare il termine «romanico». Così, all’inizio del Novecento, Josep Puig i Cadafalch propose di chiamare «premier art roman» (prima arte romanica) l’arte dell’inizio dell’XI secolo, caratterizzata da un apparecchio murario costituito da piccole pietre, da arcate decorative esterne cieche e da lesene, da piccole finestre a strombo semplice, e dalla grande rilevanza accordata ai primi tentativi di volta a botte nella navata maggiore delle chiese²¹. Secondo la sua teoria, il «premier art roman» si collocava all’inizio dell’arte romanica, con una certa unitarietà di caratteri nell’ambito del Mediterraneo e persino al di là di questo, dalla Moldavia alla Catalogna, passando per la Lombardia e la Provenza, per diramarsi verso il nord attraverso la valle del Rodano. Molto rapidamente Henri Focillon e poi Louis Grodecki suggerirono di limitare l’impiego di questa espressione all’architettura del Mezzogiorno, e di contrapporre alla «prima arte romanica meridionale» una «prima arte romanica settentrionale», due varianti di un medesimo stile, detto anche «lombardo» nel sud²² e «ottoniano» nel nord²³. Ma definizioni di questo tipo provocarono di necessità la creazione di altri termini per qualificare i monumenti più tardi dell’arte romanica. È apparsa allora timidamente la formula «seconda arte romanica», che non ha ancora trovato unanime accoglienza. Si è insistito sul concetto di «arte romanica centrale» (e anche di Medioevo centrale, ancora nel 2009 da parte di Umberto Eco nella collana Il Medioevo), che si sarebbe sviluppata nel corso della seconda metà dell’XI secolo e dell’inizio del XII, espressione che attribuisce un significato particolare a quella di «prima arte romanica». In seguito è comparsa la denominazione, molto fortunata, di «tarda arte romanica», che designa la fase in cui arte romanica e arte gotica si sovrappongono. Ma quale cronologia applicare a quest’ultima? Quando inizia la tarda arte romanica? A partire da quale momento e in relazione a quali criteri è da considerare tarda?

    Alcune date-cerniera possono, da sole, definire uno stile? Si è preteso di fare ciò generalizzando il gusto per le cifre tonde: arte dell’anno Mille, del 1100, 1200, 1300 o 1400, o ancora degli anni 1160, 1220, 1240 ecc. Tra tutte queste date, quelle che hanno riscosso maggior successo sono il Mille e il 1200. L’arte dell’anno Mille segna così il passaggio dall’arte preromanica a quella romanica²⁴; lo «stile 1200» è considerato una forma d’arte particolare, corrispondente a un momento dell’arte romanica tarda. Improntato al ritorno all’antichità, quest’ultimo si manifesta in tutta la Francia e in parte dell’Europa²⁵. Nello stesso tempo, questo tipo di classificazione conferma ampiamente i problemi terminologici. Lo «stile 1200» potrà infatti essere ancora romanico nel Mezzogiorno e pienamente gotico nel nord. Una sola cronologia rappresenta e include dunque due stili differenti, che coesistono e sono riuniti sotto un’unica definizione. Ugualmente si è proposto uno «stile 1100», che pare svilupparsi contemporaneamente a Moissac e nell’Italia del nord, ad esempio a Modena intorno all’opera di Wiligelmo²⁶. Seguendo questo principio sono apparse le formule «stile 1300» e «stile 1400», nate dalla volontà di marcare il passaggio da un secolo all’altro. Queste definizioni cronologiche costituiscono ad evidenza date-cerniera applicate artificialmente, ed entrano spesso in contraddizione metodologica con i termini storico-artistici utilizzati per qualificare un periodo (prima arte romanica, piena arte romanica, tarda arte romanica). Si interpretano generalmente, comunque, come l’inizio di un nuovo secolo.

    Per di più, le diverse terminologie che definiscono gli stili o i periodi all’interno dell’arte romanica – o di quella gotica – differiscono spesso a seconda dei paesi²⁷: in Francia per qualificare fasi precise dell’arte gotica si impiegano formule come «premier art gothique» (prima arte gotica), «gothique rayonnant» (radiante), «flamboyant» (fiammeggiante) o «tardif» (tardo), mentre in Inghilterra gli stessi periodi corrispondono a «stile perpendicolare» o a «decorated style». In Germania invece l’espressione «Hochmittelalter» (pieno Medioevo) include spesso l’arte romanica nel suo insieme. Sarebbe pertanto auspicabile proporre, a livello europeo, dall’antichità al Novecento, per i diversi periodi nuove definizioni terminologiche, fondate su parametri comuni e facilmente accettabili dagli storici dell’arte, in modo da non scontrarsi con termini che non hanno lo stesso significato per tutti. In storia dell’arte un tale obiettivo si rivela però molto difficile da raggiungere per le abitudini acquisite nel corso degli anni e per la reticenza della maggior parte degli studiosi e degli specialisti a modificare il proprio modo abituale di pensare per unificarlo con quello degli altri. Ognuno spera che la generazione successiva porterà a termine questa operazione di omogeneizzazione terminologica. Se l’unificazione dei modi di praticare la ricerca, di esprimere il sapere, di confrontare i metodi non spaventa gli specialisti delle scienze pure, spaventa invece gli specialisti delle scienze umane. Come pervenire dunque a una riflessione seria sull’arte romanica, se è impossibile unificare le conoscenze e accordarsi su una terminologia comune?

    Le medesime confusioni e negligenze si ritrovano nelle definizioni o nella terminologia da applicare alle diverse tecniche artistiche: a seconda dei periodi, si parla indifferentemente di arti dei metalli, di arti minori o ancora di arti decorative, di arti applicate o industriali, per qualificare in fondo lo stesso ambito, quello dell’arte degli oggetti. Se alle differenze di denominazione e alle sfasature cronologiche già ricordate si aggiunge che ogni paese ha un proprio approccio alla ricerca, si converrà che l’omogeneizzazione del lessico specialistico è, nonostante gli sforzi fatti, un compito utopico. Si può citare ad esempio per la Francia l’Inventaire des monuments et richesses artistiques de la France, che ha pubblicato volumi di vocabolario per le diverse tecniche²⁸.

    È necessario prendere dunque distanza dalla definizione di «arte romanica», un’arte che troppo spesso siamo abituati a osservare solo in Francia o in Belgio, nel nord della Penisola Iberica, nel nord e nel centro dell’Italia, o nel sud della Germania, vale a dire un’arte per la quale ci riteniamo in grado di enunciare caratteri comuni e idee generali, che corrispondono nei fatti a realtà geopolitiche differenti. La decorazione di un timpano*, la forma delle porte o delle finestre, la volta a botte, gli archi a tutto sesto sono tutti elementi generalmente ritenuti caratteristici dell’arte romanica, che ci consentono d’altronde di distinguere formalmente, a colpo d’occhio, questo stile da un altro. Si deve tuttavia ammettere che la maggior parte delle caratteristiche che noi usiamo per differenziare il romanico dal gotico sono, benché poco precise, comode e abbastanza giuste, e possono continuare convenzionalmente a servire da riferimento, da base, per un’identificazione stilistica almeno di massima.

    Come si è già ricordato più sopra, terminologia, geografia e storia possono talvolta trovarsi riunite nella confusione delle classificazioni. È il caso in Germania dell’arte ottoniana, che classifica forme artistiche sotto una definizione storica riferita a una dinastica politica. Se si seguisse lo stesso criterio, si dovrebbe chiamare l’arte romanica di Venezia «arte dei dogi» o quella di Roma «arte dei papi»! Tutto ciò dipende unicamente dalle connotazioni che si intende attribuire a tali definizioni artistiche: è una questione di sottolineatura particolare all’interno di una denominazione che deve restare generale. Ma vi sono ancora altri problemi di cronologia che spiegano le difficoltà di trovare definizioni coerenti, applicabili ai diversi paesi europei, che tengano conto delle varianti artistiche regionali. L’arte non si sviluppa né allo stesso modo né con la medesima velocità in tutte le aree: come definire allora una tipologia, uno stile, una forma, un’iconografia che appare ad un certo momento in un certo luogo, ma solo in seguito in un’altra area geografica?

    In Francia, tra le teorie formulate in passato, ma ancora in auge, intorno allo studio dell’arte romanica, figura la definizione di «scuole regionali», che dagli inizi dell’Ottocento ha dato luogo a una geografica stilistica e ha messo l’accento su problemi di influenza e di diffusione delle forme artistiche²⁹. Già prima del 1840 l’archeologo normanno Arcisse de Caumont difendeva l’esistenza di «regioni monumentali» e tentava una classificazione dell’arte romanica per scuole, fondata da un lato sull’antica geografia delle province, dall’altro sull’aspetto esteriore delle chiese e della loro decorazione. Distingueva in particolare la scuola del nord della Francia con la Champagne e l’Orléanais, la scuola di Normandia e di Bretagna, la scuola del Poitou e dell’Angoumois, la scuola di Aquitania e di Alvernia, la scuola di Borgogna, la scuola di Provenza e infine la scuola delle province renane. Anche un altro archeologo dell’Ottocento, Jules Quicherat, dell’École des chartes, sosteneva la teoria dell’esistenza di scuole regionali, fondandola però innanzitutto sul sistema di copertura voltata degli edifici e sul confronto tra le costruzioni e le loro fonti documentarie. Viollet-le-Duc elaborò a sua volta un sistema che integrasse chiese romaniche e chiese gotiche. Nonostante i perfezionamenti apportati al metodo nel corso dei decenni, la maggior parte degli eminenti storici francesi dell’arte medievale che noi oggi ammiriamo (Anthyme Saint-Paul, Auguste Choisy, Camille Enlart, Jean-Auguste Brutails, Eugène Lefèvre-Pontalis, Émile Mâle) hanno provato a definire le scuole artistiche regionali proponendo, per l’architettura come per la scultura, l’anteriorità di alcune opere in relazione ad altre e in relazione a quelle delle regioni vicine. Questa problematica appare oggi superata sul piano teorico, senza che per questo ci si rifiuti di trovare un accordo su particolarità locali o regionali dell’arte romanica. Ciononostante, la teoria delle scuole regionali continua stranamente a dominare gli studi, come dimostra il successo della collezione di Zodiaque sull’arte romanica, suddivisa in volumi regionali che corrispondono alle attese dei viaggiatori e degli appassionati di un patrimonio geograficamente vicino al proprio luogo di origine o di vita. Conviene allora rimettere in discussione la validità delle frontiere politiche o amministrative moderne nella definizione di una geografia

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