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dalle parti di Aldo: vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento
dalle parti di Aldo: vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento
dalle parti di Aldo: vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento
E-book425 pagine6 ore

dalle parti di Aldo: vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento

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Info su questo ebook

Il volume è un omaggio al mondo e ai protagonisti della grande tipografia italiana del Novecento, quella tipografia che con la prematura scomparsa di Alessandro Zanella si affida ormai ad uno sparuto nucleo di cavalieri senza macchia e senza paura: Enrico Tallone, Lucio Passerini, Alberto Casiraghy, Luciano Ragozzino. Ma nel libro si analizzano anche le vicende e le storie tipografiche di artefici di primo piano come Angelo Marinelli, Salvadore Landi, Pompeo Bettini e Leo Longanesi, incrociando le loro esperienze con la necessità di istituire anche in Italia delle scuole di tipografia. La private press italiana viene poi rievocata attraverso la figura centrale di Franco Riva e di colui che ne erediterà il torchio e la passione: Michele Ugo Buonafina; così come di Guido Costiglioni e Alessandro Corubolo. Largo spazio è ovviamente dedicato ad Alberto e Enrico Tallone, ma anche a Renzo Sommaruga, Mimmo Guelfi, Franco Sciardelli e Josef Weiss, senza dimenticare il grande tipografo napoletano Angelo Rossi con la sua stamperia dell’Arte Tipografica, e un purtroppo dimenticato tipografo e grafico abruzzese, il geniale Nicola D’Arcangelo.
In effetti quella di “archeologia della tipografia del Novecento” potrebbe essere un’ottima indicazione circa il contenuto di quest’ultimo ricco volume di Massimo Gatta, bibliotecario all’Università degli Studi del Molise nonchè prolifico autore. Il suo metodo di lavoro (di scavo, verrebbe da dire) si basa infatti spesso sul recupero di un testo introvabile (ma se poi l’hai trovato, ci avverte l’autore, allora la definizione è imprecisa…), sull’individuazione di un’edizioncina rarissima, sull’acquisto presso un antiquario di un opuscolo ignoto persino a SBN. E allora ecco dispiegarsi davanti agli occhi i paesaggi ignoti dell’opera dei piccoli e grandi tipografi creativi del Novecento.
LinguaItaliano
EditoreBiblohaus
Data di uscita15 gen 2014
ISBN9788895844824
dalle parti di Aldo: vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento

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    Anteprima del libro

    dalle parti di Aldo - Massimo Gatta

    isbn:978-88-95844-24-4

    dalle parti di aldo. aspetti, vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del novecento

    Indice dei contenuti

    Prefazione di Edoardo Barbieri

    un raro opuscolo sulla tipografia stampato a campobasso

    Sul correttore di bozze. Pompeo Bettini: dalla cassa del tipografo al Manifesto del Partito Comunista

    L’uomo tipografico. Uno sconosciuto libretto di Leo Longanesi: Tipografia

    Tipofilìa a Milano nel Novecento: Michele Ugo Buonafina

    Memorie dal sottosuolo. La felicità tipografica di Franco Riva

    A scuola di tipografia

    Il Voyage Typographique di Angelo Marinelli tra Umbria, Molise e Piemonte

    Quelle domeniche consacrate al torchio da mio marito, Franco Riva. Un incontro con Adriana Riva Citro

    Viaggio al termine del libro. I colophon di Franco Riva

    Un Drago al torchio. La Tarasca di Mimmo Guelfi

    Testi graficamente esposti. La civiltà tipografica di Renzo Sommaruga

    Un mestiere da fare con gioia. Franco Sciardelli, stampatoreU

    Due uomini e un poncho. Pablo Neruda cantore del torchio di Alberto Tallone

    Tipografia e gastronomia tra i campi d’aglio della Provenza

    Epicèdio tipografico

    In tipografia con Angioletti

    Un brindisi ai tipografi di Emilio De Marchi

    Officina Chimèrea di Castiglioni e Corubolo

    Un simpatico gatto-stampatore

    Tallone ovvero Il fiuto tattile dei formati

    Progetto, corpo, tipografia

    Dopo Parigi. I cataloghi di Alberto e Enrico Tallone Editori-Stampatori in Alpignano

    Questo è un libro". Guido Ceronetti e Alberto Tallone Stampatore-Editore (1981 – 2008)

    La tipo-grafia pubblicitaria in Italia nel periodo 1933-1953 e un suo dimenticato protagonista: Nicola D'Arcangelo

    Ardengo Soffici in tipografia

    Bernardino Ramazzini stampato da Alessandro Zanella

    Il Museo della Stampa di Fivizzano

    Tipografia e filologia

    Che tempo fa in…tipografia? Buon tempo. Le Edizioni del Buon Tempo di Lucio Passerini

    Nota a Salvadore Landi

    Dalla Svizzera ristampata una celebre ode cilena alla tipografia

    Ips, il tipografo amico

    Un raro campionario di caratteri della tipografia di Subiaco

    Paolo Ricci: da pittore a tipografo

    La casa dei torchi e dei caratteri. Una visita alla Tipoteca Italiana Fondazione di Cornuda

    La Bibliografia delle edizione di Alberto Tallone

    Lo stampatore della Domenica

    Addio, stampittore

    Zanella e l’amore per il torchio

    Volevo stampare perché mi pareva necessario La felicità tipografica di Franco Riva.

    Senza più macchiarsi le dita d’inchiostro

    Impallinare i refusi

    Dal basilico al basilisco. La lunga battaglia (perduta) di D’Annunzio contro i refusi

    L’Arte Tipografica di Angelo Rossi. La missione culturale di una famiglia di stampatori napoletani

    Guido Modiano e la nuova tipografia italiana (*) di Mauro Chiabrando

    Nota del curatore

    Luoghi di stampa

    Ringraziamenti

    a Letizia

    Intanto piano piano, mi sono drogato con quel

    piacere speciale che uno può avere a stampare

    libri, a depositare un po’ della vita propria o di

    chiunque altro sulla carta stampata, a far girare

    tra la gente un po’ della vita, a suscitare vita,

    suscitare pensieri, emozioni, odio, disprezzo,

    allegria, conoscenza, forse anche a trovare la

    propria reale posizione sul pianeta. Se il libro non

    si vende, restano in magazzino metri cubi di carta

    stampata: non importa molto. Il libro si è fatto,

    il poco o il tanto della vita è stato depositato sulla

    carta stampata e resta la speranza che la carta

    sia buona. Nel frattempo la vita c’è stata.

    Ettore Sottsass

    Prefazione di Edoardo Barbieri

    Martin Boghardt (1936-1998), il grande storico del libro e bibliotecario della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, amava chiamare il proprio campo d’indagine col termine di archeologia del libro, tanto che la postuma raccolta dei suoi scritti curata da Paul Needham si intitola proprio Archäologie des gedruckten Buches (Wiesbaden, Harrassowitz, 2008). Anche l’amico belga Jean-François Gilmont accetta questa definizione della nostra disciplina, perché ritiene che sia un’espressione che permette anche ai non addetti ai lavori di capire intuitivamente ciò di cui ci occupiamo. Invece io resto perplesso su tale uso, perché mentre l’archeologo toglie dall’oggetto che ha recuperato gli strati della storia per giungere al livello il più vicino possibile all’originale, lo storico del libro, invece, studia l’oggetto distinguendo le stratificazioni ma esaminandole sincronicamente. Però, se si accetta che l’uso di archeologia sia metaforico, allora possiamo essere tutti d’accordo.

    In effetti quella di archeologia della tipografia del Novecento potrebbe essere un’ottima indicazione circa il contenuto di quest’ultimo ricco volume di Massimo Gatta, bibliotecario all’Università degli Studi del Molise nonché prolifico autore. Il suo metodo di lavoro (di scavo, verrebbe da dire) si basa infatti spesso sul recupero di un testo introvabile (ma se poi l’hai trovato, ci avverte l’autore, allora la definizione è imprecisa...), sull’individuazione di un’edizioncina rarissima, sull’acquisto presso un antiquario di un opuscolo ignoto persino a SBN. E allora ecco dispiegarsi davanti agli occhi i paesaggi ignoti dell’opera dei piccoli e grandi tipografi creativi del Novecento.

    Quella presentata è infatti la raccolta di una quarantina di interventi (già sparsamente pubblicati: da qui qualche parziale sovrapposizione) dedicati a vari aspetti della storia tipografica italiana: si va dal saggio di più ampio respiro alla semplice scheda (si leggano alcuni commossi ricordi di amici scomparsi), dal pezzo vicino alla critica letteraria (e la presenza di Pablo Neruda o Guido Ceronetti tra i co-protagonisti aiuta), alla ricerca con tanto di note bibliografiche a piè di pagina. Lo stile non banale della scrittura, l’amore per la citazione sapida, la varietà degli argomenti posti sul tappeto ne fanno un libro piacevole e interessante.

    Più volte Gatta osserva come i percorsi da lui indicati siano estranei all’ormai abbondante produzione di storia dell’editoria novecentesca. Da un lato occorre dargli perfettamente ragione perché c’è un certo interesse (molto à la page) sostenuto da pubblicazioni, mostre, convegni che resta retoricamente ancorato a un canone ormai stabilito che pone l’axis mundi nel mito einaudiano. Dall’altro, però, occorre dire che Gatta comunemente non si interessa del nesso specifico dell’editoria, cioè il fenomeno di una produzione culturale dotata di rilevanza economica. I suoi protagonisti sono piuttosto artisti del libro (non nel senso però del libro d’artista, se non altro perché producono un numero sia pur limitato di multipli), ovvero virtuosi del torchio e del carattere tipografico.

    Quella di Gatta è l’inedita mappatura di un universo parallelo all’editoria comunemente intesa: ecco allora spiegato il termine usato nel sottotitolo del libro, quello di cultura tipografica, che indica appunto l’insieme delle conoscenze e delle riflessioni intorno alla produzione tipografica. E su questo mondo viene offerta un’articolata indagine, basata anche su una solida (e talvolta peregrina) bibliografia, come già era avvenuto nell’altra fatica dell’autore che avvicinerei a questa, il bel volumetto Le Pagine di arte tipografica di Angelo Marinelli, pubblicato da Olschki di Firenze nel 2003, accolto nell’autorevolissima collana Storia della tipografia e del commercio librario diretta da Luigi Balsamo. Anzi, in questo caso le ricerche di Gatta, uscendo dall’ambito del collezionismo e del modernariato librario in cui rischierebbero di restare confinate, si dispiegano non solo su un insieme variegato di vicende e temi, ma individuano un metodo, che è innanzitutto quello di focalizzare dei veri maestri delle singole specialità, offrendone degli acuti e mai ovvi ritratti: con il che meglio si intende la reiterata attenzione mostrata all’esperienza dei Tallone e dell’officina di Alpignano.

    Quanto al titolo del libro, Dalle parti di Aldo, esso ammicca, evidentemente, al pubblico dei connoisseurs che sapranno subito individuarvi un riferimento a Manuzio: c’è da dubitare, invece, che anche i lettori colti di oggi siano in grado di fare tale associazione, ma sarei lieto di essere smentito. È peraltro l’alter ego Dionigi Colnaghi, curatore del volume, a ricordare che Ezra Pound definì Venezia the city of Aldus... Se si volesse però fare una battuta, si potrebbe dire che forse l’Aldo a cui si allude è invece più propriamente Aldo Novarese, il grande disegnatore novecentesco di caratteri, cui si accenna nel libro stesso: infatti Gatta, posizionatosi a metà strada tra le vicende della grafica (peraltro ben indagata per esempio nel contributo su Nicola D’Arcangelo e il linguaggio pubblicitario) e quelle propriamente dell’editoria italiana, tratteggia un percorso verso territori, come si diceva, fin qui inesplorati o malnoti.

    Credo che lo studioso rimasto curioso, ma anche il bibliotecario colto, il libraio raffinato o il collezionista scaltrito non meno che lo studente smaliziato (tutte categorie, ahimè, in via di estinzione), possano qui trovare pane per i loro denti. Buon appetito.

    Edoardo Barbieri

    Sul correttore di bozze. Pompeo Bettini: dalla cassa del tipografo al Manifesto del Partito Comunista

    Domenica. Nella tipografia, deserta e grigia,

    i profili neri delle macchine,

    silenziose e solenni.

    La libertà di stampa dorme sulla scrivania

    del correttore di bozze.

    Leo Longanesi, 1957

    Lontani anni luce ci appaiono i tempi in cui i famosi stampatori Estienne, passati giustamente alla storia della tipografia per la correttezza dei testi stampati, istituivano premi per chi trovasse errori o refusi nelle loro edizioni.

    Ancora più lontani ci appaiono gli anni della nostra migliore tradizione tipografica, anni nei quali stampatori come Aldo Manuzio potevano contare su correttori-umanisti quali Pietro Alcionio, Scipione Forteguerri e addirittura Erasmo da Rotterdam (che lavorò anche per Froben). Anche Gianbattista Bodoni, nella sua Stamperia Reale, commentava e correggeva le opere che intraprendeva a stampare. Balzac, Alfieri, Manzoni, erano correttori non mai sazi (…) Gioberti soleva dire che certe correzioni non si possono far bene che nelle bozze di stampa (Pozzoli, 1882). Altri famosi stampatori, oltre gli Estienne, come gli Elzevir, Froben, Feyerabend, ebbero al loro servizio importanti correttori (Fabritius, Heiland, Gelenio, Modius, Michelet, Thiers, Béranger), tutti ricordati da Pompeo Bettini nel testo di cui parlerò. Fondamentale resta poi la differenza indicata da Tomaso Garzoni nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo (Venezia, Somasco, 1585) tra correttore (il moderno editor) e scontratore (il vero e proprio correttore di bozze). E, ancora tra i prototipografi tedeschi, come non ricordare la figura di Giovanni Andrea Bussi che fu revisore di testi, correttore e prefatore alle edizioni romane di Sweynheym e Pannartz.

    Oggi la figura, un tempo determinante, del correttore di bozze fa ormai parte dell’archeologia tipografica, rintracciabile solo in qualche vecchio manuale di composizione e stampa oppure in opere letterarie, come nel bel romanzo di George Steiner Proofs del 1992 (trad. it. Il correttore, 1992, II ed. 1999) oppure nello scritto di Goffredo Bellonci del 1952 dedicato proprio al mestiere-arte del correttore di bozze: (…) Da quanti anni nel suo giornale romano egli si incontrò di notte in tipografie fumose e accecanti con quei pazienti, attentissimi, lavoratori?

    La moderna tecnologia informatica garantisce (o dovrebbe garantire) testi quasi perfetti, privi di refusi o errori. Solo che spesso questi testi sono tutt’altro che immuni da clamorose sviste (come ricordato da Umberto Eco in una sua gustosa Bustina di Minerva del 1997). L’intero processo, delicatissimo, della correzione delle bozze di stampa (stamponi), un tempo indice della fama o della superficialità di intere generazioni di tipografi, è oggi demandato al word processor. L’occhio dell’uomo non serve più, troppo costoso e lento; un occhio elettronico lo ha del tutto esautorato. Ma dietro lo sguardo, spesso miope e stanco come ci ricorda Bettini, dell’operaio tipografo c’è sempre un cervello, una sensibilità, passione, gusto; dietro l’occhio elettronico ci sono freddi e asettici microchips. L’arte dell’editing – ha scritto Eco – (e cioè la capacità di controllare e ricontrollare un testo in modo che non contenga, o contenga entro limiti sopportabili, errori di contenuto, di trascrizione grafica o di traduzione, là dove neppure l'autore se ne era accorto) versa in cattive condizioni (Eco, 1997, rist. 1999). E forse anche gli errori non sono più quelli di un tempo; ou sont les neiges d’antan, verrebbe da dire con Rimbaud; c’erano una volta i paleoerrori: erano refusi, blocchetti che si spostavano, caratteri che facevano le bizze a spese di quel fine editore, che avendo la sede in via Cino del Duca, a Milano, si trovò segnalato sull’elenco telefonico a tutt’altro indirizzo (…) Oggi c’è il neo errore, che è quello che passa le maglie di un correttore automatico. (Bartezzaghi).

    Oggi, sempre di più, assistiamo alla ormai cronica trasandatezza di un’editoria che non sente più tra i suoi compiti primari quello di rivedere un testo, curarlo, migliorarlo, ripulirlo. E questo è un peccato mortale (Battista). Un compito primario, quello della correzione formale dei testi prima della stampa definitiva, sentito come un dovere etico, un rispetto nei confronti del lettore. Delegare alla macchina questo momento di cura finale, significa, forse, delegittimare secoli di tradizione tipografica. Solo gli ultimi tipografi contemporanei al torchio, come sparuti cavalieri, continuano nella correzione manuale delle bozze di stampa, giustamente fieri di un’arte e una pratica che ha radici antichissime e che arricchisce la bellezza e l’importanza di un testo.

    Questo compito primario, di cui ha scritto Battista, fu molto sentito da Pompeo Bettini, poeta crepuscolare, scrittore autodidatta, socialista della prima ora, tipografo e correttore di bozze prezzo l’editore Sonzogno, docente di correzione alla Scuola Professionale Tipografica di Milano, nato a Verona (ancora lei, la città tipografica per eccellenza) nel 1862 e morto a Milano, giovanissimo, nel 1896.

    Strano personaggio questo Bettini; oggi figura letteraria di secondo piano del nostro secondo Ottocento, ma agli inizi del secolo considerato un letterato di tutto riguardo, precursore di un certo crepuscolarismo, se Benedetto Croce, nel 1911 e più ampiamente nel 1942, gli dedicherà le sue attenzioni di raffinato critico militante curandone, presso Laterza, l’edizione critica delle poesie e delle prose. Perché mi è caro il Bettini? – scrive infatti Croce nel ’42 – Si sarà già compreso dalle cose finora dette: perché la sua è poesia necessaria, come è sempre quella genuina. Nel saggio del ’42 Croce si dimostra affascinato da Bettini, dalla sua etica del lavoro, in parte anche dalla sua onestà intellettuale. Scrive a proposito Eugenio Garin Non a caso Croce, così sensibile alla realtà dei processi produttivi, ebbe sempre un’attenzione puntigliosa per la veste tipografica, per l’aspetto ‘fisico’ del libro o della rivista, e, insomma, per la stampa, rendendosi conto di quanto la forma cosiddetta esteriore, e materiale, incidesse sui processi espressivi. Anche per questo, forse, ebbe tanto interesse e affetto per i tipografi, come dimostrò nel patetico profilo di Pompeo Bettini, correttore di bozze per Sonzogno, poeta socialista e, nel 1893, traduttore del Manifesto (Garin, 1991). Bettini, infatti, è stato anche il primo traduttore italiano de Il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels (Milano, Uffici della Critica Sociale, 1896), versione completa eseguita sulla quinta edizione tedesca (Berlino, 1891): Il suo più efficace contributo alla pubblicistica del socialismo fu, veramente, l’ottima traduzione italiana che egli (che conosceva bene la lingua tedesca come la inglese) dié, nel 1892, del Manifesto dei comunisti (Croce, 1942).

    Ma ciò che in questa sede ci interessa di Pompeo Bettini è una sua conferenza dal titolo Il correttore di bozze nella tipografia moderna, da lui tenuta il 28 giugno 1891 presso la Scuola Professionale Tipografica di Milano, pubblicata lo stesso anno, dove egli era docente della scuola di correttori (scuola professionale nella quale era anche docente il bibliografo Giuseppe Fumagalli). Bettini si era subito posto il problema della correttezza formale dei testi e, frutto di questo insegnamento dal quale non volle mai ricavare alcun compenso, è anche un secondo scritto dal titolo L’unità ortografica nella tipografia italiana pubblicata a Milano dalla Tipografia degli Operai.

    Intanto – scrive Croce – aveva preso ad esercitare il mestiere, da cui trasse i mezzi di sussistenza in tutta la sua vita, del correttore di bozze nello stabilimento tipografico del Sonzogno. Una sua conferenza, tenuta nel 1891 alla scuola professionale tipografica, dice delle sue esperienze in quell’ufficio; una seconda fa alcune proposte tecniche circa la desiderata unità della ortografia italiana. E correggendo, tra le altre, le bozze della Biblioteca romantica tascabile del Sonzogno, gli accadde di provarsi a mettere insieme un romanzo da appendice, La toga del diavolo, che fu stampato in quella collezione. (Croce, 1942).

    La conferenza del Bettini del 1891 è tutta pervasa da un leggero orgoglio per questa professione (come ama definirla, non mestiere), del quale spesso si sapeva poco e male. Orgoglio di classe, ma anche rispetto per un lavoro paziente, faticoso, umile, mal retribuito. Scrive Bettini: Nove volte su dieci, declinando la mia professione di correttore di stampe, vedo disegnarsi un punto interrogativo sulla faccia dell’interlocutore, il quale mi chiede gentilmente che razza di occupazione sia la mia. Mi affretto a spiegarglielo, e allora l’interlocutore fa segni d’assenso, e quasi di deferenza, immaginandosi che io, incaricato correggere gli spropositi altrui, sia un pezzo grosso della tipografia. Come smaliziare tanta ingenuità? Come dire a questo benevolo che la fatica di purgare una bozza a colpi di penna è stimata su per giù come quella di ripulire una stanza a colpi di scopa?

    Le domande che Bettini si pone sono rivolte in primo luogo all’identità specifica del correttore, del posto che egli occupa nella moderna tipografia: Il correttore è tuttora una x incognita in molte tipografie; uno spostato in altre; un impiegato di funzioni non ben definite nelle tipografie migliori. Il correttore, dove la sua personalità è meno larva che altrove, è un anello di congiunzione fra il revisore letterario e il leggitore delle prime bozze. Talvolta sostituisce il proto; tal altra, l’autore letterato; spesso, l’autore tecnico; in qualche caso, tutta la responsabilità di una edizione pesa su di lui. Per Bettini, poi, le edizioni scorrette, malfatte, immorali, non sono certamente colpa degli editori, o degli stampatori e ancor meno dei correttori; responsabile è invece il pubblico che acquista, legge e incoraggia l’editore a stampare tali opere. Un giudizio che appare modernissimo se si pensa che fu espresso cento anni fa.

    Il testo di Bettini offre anche una precisa descrizione delle diverse figure professionali che operavano all’interno di una tipografia a fine secolo scorso (compositori, pacchettisti, correttori, proti, funzionisti, ecc,) e della loro specifica funzione lavorativa. Egli è sempre molto attento alla problematica compositiva del testo, alla sua strutturazione, e ai complessi meccanismi che ne determinano la resa ottimale. Tali problematiche erano all’epoca molto vive e giustificano l’istituzione di specifiche scuole professionali tipografiche, all’interno delle quali molto seguiti erano proprio i corsi di composizione e correzione. Molti tipografi, come Paolo Galeati ad Imola, Valdemaro Vecchi a Trani e Raffaello Bertieri a Milano, avvertivano la necessità di una svolta qualitativa nell’arte della stampa. Si spiega così il fiorire di corsi di formazione professionale specifici e di scuole tipografiche di grande prestigio (come quelle di Torino e Milano). Scrive infatti Bettini: Il fatto di avere instituito qui un corso di correzione tipografica, e altrove un corso di tecnica libraria, basterebbe a dimostrare come i migliori sentano il bisogno di portar qualche perfezionamento all’arte della stampa.

    Collegata alla funzione di correttore nella moderna tipografia c’è, per Bettini, la problematica del disordine ortografico e la necessità, quindi, di giungere ad una unità ortografica nazionale: Il primo e più insidioso nemico è il disordine ortografico. L’anarchia che regna nella nostra lingua si riflette naturalmente nella tipografia, che la subiscono con una completa passività, giacchè per disgrazia i proti non hanno alcuna competenza letteraria. Tali riflessioni troveranno completa sistemazione teorica nello scritto L’unità ortografica nella tipografia italiana, pubblicato a Milano dalla Tipografia degli Operai. In altre nazioni, come ad esempio la Germania, nota Bettini, gli editori hanno invece imposto ai loro autori un regolamento ortografico della loro stamperia. Perché non fare lo stesso in Italia? Non certo per questioni di costi; gli è che – continua Bettini – in questo nostro benedetto paese, l’apatia regna sovrana, e quando le attività si pongono in moto, lo fanno disordinatamente. Anche le condizioni lavorative degli operai nelle tipografie, vengono da Bettini prese in serio esame. Il suo spirito critico nutrito dagli ideali del socialismo, pone l’accento sui disagi di un lavoro duro e mal pagato. La parte finale della conferenza è, infatti, tutta dedicata a questa analisi, che Bettini mantiene su toni pacati e mai violenti: Il correttore, per le paghe che riceve, non è necessariamente mangione e beone. Se lo fosse, potrebbe rinunciare all’arte sua per il maggior bene di tutti. L’occhio che meno vede non è l’occhio del presbite o del miope; è quello di chi ha lo stomaco aggravato. Il correttore combatte col sonno, colla distrazione, con la stanchezza visiva. Eppure che cosa si fa nelle tipografie moderne per dargli un ambiente adatto al suo lavoro? Spesso gli si lascia mancare perfino la luce, che è tutto dire. Qui mi si affollano alla mente molti piccoli suggerimenti che sarebbero del caso…Ma è bene che mi fermi a tempo.

    Non saremo mai abbastanza riconoscenti al caro Vanni Scheiwiller per tutto quello che ha fatto per il Libro. Anche questo ricordo di Pompeo Bettini è un modo per ricordare Scheiwiller e rendere così omaggio alla sua memoria. Fu lui, infatti, che con la consueta sensibilità e intuito decise di ristampare, per il Natale del 1961, il raro opuscolo bettiniano del 1891. Lo fece con la sobrietà di cui era maestro, stampandolo da un raffinato tipografo quale Allegretti di Campi. Edizione piacevolissima che ebbe, come unico difetto, quello di essere fuori commercio; fu l’ennesimo omaggio che il piccolo-grande editore fece al mondo degli stampatori, di ieri e di oggi.

    Bibliografia

    P. Bettini, Il correttore nella tipografia moderna. Conferenza, Milano, Scuola Professionale Tipografica, 1891.

    P. Bettini, Il correttore nella tipografia moderna, a cura di Vanni Scheiwiller, con un suo scritto Elogio del correttore di bozze e una notizia bliografica, Milano, Scheiwiller, 1961. Edizione fuori commercio stampata in 350 esemplari dalla tipografia U. Allegretti di Campi.

    P. Bettini, L’unità ortografica nella tipografia italiana. Conferenza, Milano, Tipografia degli Operai, s.a.

    B. Croce, Intorno alla vita e agli scritti di Pompeo Bettini, in Id., Le poesie di Pompeo Bettini, Bari, Laterza, 1942, pp.5-24.

    Libreria Antiquaria Pontremoli, catalogo n.15, Milano, 1998, I libri di Carlo Dossi – Ottocento Italiano, pp.16-17.

    G. Carena, Vocabolario d’arti e mestieri, Torino, Stamperia Reale, 1856, p.109.

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    Manuale Enciclopedico della Bibliofilia, ad vocem, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 1997, p.179.

    L. Longanesi, La sua signora. Taccuino di Leo Longanesi, Milano, Rizzoli, 1957, p.139.

    G. Bellonci, Il correttore di bozze, in Arti e Mestieri, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1952, pp.14-20.

    P. Battista, Questo Lutero provoca lo scisma dal libro, in La Stampa.

    S. Bartezzaghi, Il correttore del PC non fa differenza tra Bonino e boxino, in La Stampa.

    U. Eco, Giovanni il Battezzatore? (1997), in Id., La bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 1999, pp.273-274.

    A. Baldini, L’arte di perdere il tempo, in Id., Le scale di servizio. Introduzione al libro e alla lettura, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1971, pp.26-27.

    M. Ferrari Bandini-Buti, La meravigliosa storia del libro esposta ai giovani, Milano, Hoepli, 1935, pp.140-150.

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    G. Pozzoli, Nuovo manuale di tipografia, Milano, Gaetano Brigola, 1882.

    P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991.

    G. Steiner, Il correttore. Romanzo, Milano, Garzanti, 1992.

    V. Candiani, Caro lettore, non ti offendano i refusi. L’avventura dello svarione, in Il Sole 24 Ore.

    G.C. Ferretti, Libro spacciato editore impunito, in Belfagor, n.3, maggio 1996, pp.352-354.

    L. Braida, Il correttore in tipografia, in: Ead., Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo, Ro,a-Bari, Laterza, 2000, pp.74-78.

    T. Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Torino, Einaudi, 1996.

    M. Miglio (a cura di), Le prefazioni di Giovanni Andrea Bussi alle edizioni romane di Sweynheym e Pannartz, Milano, Il Polifilo, 1978.

    E. Peres, Bastò un refuso per mettere sotto sequestro i seni di Isa, in La Stampa, 20 maggio 2000.

    un raro opuscolo sulla tipografia stampato a campobasso

    Se interpelliamo la ragione etica

    veniamo a sapere che: bisogna continuare a capire,

    a cercare di capire, e foggiare strumenti nuovi,

    e perseverare nel rifiuto di ciò che con ogni evidenza è male,

    e disegnare progetti di futuro non importa se lontani e utopici

    purché attivi già oggi.

    Giulio Bollati

    Cominciamo dal dire che le persone del mestiere –

    quelle veramente del mestiere pratiche - sanno che un libro,

    per essere un bel libro, deve possedere come coefficiente necessario

    quello che è la parte sostanziale della sua natura di libro:

    ha da essere cioè bene impresso, con carattere netto,

    rotondo, ben colorito e … ben corretto.

    Salvadore Landi

    «Sibi suis et amicis: per questi e non per altri si ristampano qui alcuni miei scritti, che erano dispersi qua e là nelle riviste grafiche, con qualche altro inedito.

    Forse parrà cosa inutile; ma essa, anche se tale, servirà a dimostrare il grande amore che nutro per l’arte tipografica, alla quale ho consacrato tutto me stesso (Campobasso, Ferragosto del 1918)». Così Angelo Marinelli introduceva il suo raro opuscolo, stampato a Campobasso nel 1918 dalla Casa Editrice Cav. Uff. Giov. Colitti e Figlio di Raffaele Colitti. Un opuscolo che invano si cercherà nelle grandi e piccole biblioteche italiane, comprese le due nazionali centrali di Firenze e Roma, e di cui, tranne rare eccezioni, non vi è traccia nella recente, e meno recente, letteratura su tipografia e editoria in Italia tra Otto e Novecento. Ciò dimostra forse che la sua tiratura fu limitata e la circolazione ristretta, appunto, sibi suis et amicis.

    Anche dell’autore si sa poco; diresse prima lo stabilimento editoriale di Scipione Lapi a Città di Castello, quindi dal 1915 circa quello della Casa Editrice Colitti di Campobasso. L’esperienza tecnica maturata presso Lapi, una certa sensibilità per l’arte del libro e i suoi studi dedicati all’editoria e alla tipografia («E’ uno dei pochi tipografi che non si limitano a maneggiare il piombo per gli altri, ma che amano ogni tanto allineare linee proprie», come elegantemente scrisse di lui Angelo Fortunato Formìggini ¹), furono elementi importanti che contribuirono ad accrescere, anche fuori dei confini regionali, il prestigio dell’editore molisano; anche la grafica editoriale divenne più accurata e così le tecniche generali di stampa; in concomitanza con l’arrivo del Marinelli, infatti, l’editore molisano aveva provveduto ad acquistare nuove attrezzature tipografiche, all’avanguardia per l’epoca, e la casa editrice si era appena trasferita in Piazza Andrea d’Isernia (l’attuale Piazza della Repubblica), in nuovi locali più spaziosi, che offrivano migliori condizioni lavorative alle maestranze.

    Ma l’importanza storica del volume in questione, al di là della sua intrinseca rarità, risiede nel fatto che due degli scritti in esso raccolti, in particolare Del bisogno di una scuola professionale per il proto (1908) e Per una scuola tipografica nel Mezzogiorno (1918) si inserivano pienamente, e naturaliter, nel più vasto ed articolato dibattito che proprio in quegli anni animava il mondo della tipografia italiana, stimolato da personalità di indubbio prestigio come Salvadore Landi (1831-1911), Raffaello Bertieri (1875-1941), Cesare Ratta (1857-1939), Giuseppe Isidoro Arneudo (1866-1927) e Gianolio Dalmazzo (1863-1927).

    Costoro vivevano, insegnavano e operavano, in centri tipografico-editoriali di primaria importanza, come Milano, Bologna e Torino. Gianolio Dalmazzo, ad esempio, era direttore, oltre che docente, della prestigiosa Regia Scuola Tipografica Giuseppe Vigliardi-Paravia di Torino ², dove veniva anche stampata la rivista L’Arte Tipografica. Rivista tecnica annuale delle arti grafiche; aveva inoltre pubblicato l’importante volume La Tipografia, un corposo saggio di nozioni professionali che fu aggiornato e ampliato fino al ‘26 quando, a sue spese!, sarà ripubblicato col titolo Il Libro e l’Arte della Stampa ³.

    Accanto a Dalmazzo un’altra figura centrale del mondo tipografico del tempo fu quella di Giuseppe Isidoro Arneudo, anch’egli docente alla Regia Scuola di Torino e autore, nel ‘17, del Dizionario esegetico tecnico e storico per le Arti grafiche – con speciale riguardo alla Tipografia (ampliato poi nel ‘25) ⁴. E’ interessante notare come a Torino, l’allora capitale del Regno, si registrasse la contemporanea presenza della Società Nebiolo, la maggiore fonderia italiana di caratteri da stampa.

    Gianolio Dalmazzo diresse la Regia Scuola Tipografica dal 1902 al 1927, la tipografia interna alla Nebiolo e, dal 1901 al 1914, l’importante rivista Archivio Tipografico, house organ della Nebiolo, fondata nel 1889, e che dal ‘19 verrà poi diretta dallo stesso Bertieri. La scelta di affidare a quest’ultimo la direzione della rivista della fonderia torinese era motivata, oltre che dal suo indiscusso prestigio in campo tipografico-editoriale, anche dal fatto che Bertieri possedeva una vasta conoscenza della storia dei caratteri; aveva anche disegnato, nel ‘26, il carattere Paganini (ispirato a schizzi di calligrafia del primo Ottocento), e perfezionato altri caratteri, come l’antico Ruano (tratto da modelli del calligrafo Ferdinando Ruano del 1540), l’umanistico Sinibaldi (da un codice vergato da Antonio Sinibaldi nel 1400) e il Landi, curandone personalmente la fusione presso le stesse officine Nebiolo. Notevole esempio della competenza acquisita nello studio e nella storia dei caratteri sarà l’elegante volumetto 20 Alfabeti brevemente illustrati, dallo stesso Bertieri stampato in poche copie ⁵.

    La pubblicazione di Archivio Tipografico fu interrotta durante il periodo bellico per riprendere nel ‘23 affidata ad altro direttore; dal ‘66 al ‘72 la testata verrà sostituita dalla rivista Qui Nebiolo. All’interno della fonderia torinese, e sempre ad opera di Bertieri, verrà creato nel ‘33 un importante laboratorio per la progettazione dei caratteri da stampa: lo Studio Artistico Nebiolo, diretto prima da Giulio Da Milano, poi da Alessandro Butti e infine, dal ’52 fino alla metà degli anni Settanta, da Aldo Novarese. Questo connubio progettuale ed estetico, indispensabile collegamento tra industria e creatività, e tipica della personalità degli studiosi di cui sopra, andrà però affievolendosi negli anni. Da un punto di vista strettamente grafico, poi, le riviste di settore che abbiamo citato erano di una bellezza e di una cura editoriale senza precedenti; chi abbia sfogliato anche un solo numero de Il Risorgimento Grafico avrà subito notato quanta cura vi fosse nella scelta della carta, dei caratteri di stampa, nell’impaginazione, nella scelta delle copertine; avrà ammirato gli specimens allegati ad ogni numero, gli esempi di carte da lettere, i dépliants pubblicitari, le locandine, le buste, sempre di grande suggestione grafica, e inseriti nella rivista per integrare visivamente il contenuto degli articoli.

    In anni successivi, dopo l’esperienza dei 66 numeri di Campo Grafico (rivista fondata nel ’33 da Attilio Rossi e da lui diretta fino al ’35, l’ultimo numero è del ‘39), la morte di Bertieri e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il dibattito sulla nuova tipografia e lo studio grafico del carattere, verrà ripreso da due associazioni, nate a Milano nel 1945 ed ancora oggi attive: il Centro di Studi Grafici (oggi presso l’Istituto Rizzoli), che ebbe tra i fondatori il grande storico della tipografia Piero Trevisani, e la Associazione Italiana Artisti Pubblicitari – AIAP.

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