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Canto per canto: manuale dantesco per tutti
Canto per canto: manuale dantesco per tutti
Canto per canto: manuale dantesco per tutti
E-book457 pagine9 ore

Canto per canto: manuale dantesco per tutti

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Info su questo ebook

"Canto per canto di Aldo Onorati è la prima nave che salpa dal nostro piccolo porto di Palazzo Firenze per affrontare la sfida della divulgazione della cultura italiana classica, componente fondante della nostra identità. Divulgare è un’avventura, ma in fondo anche un dovere, che vorremmo infinito, non finito, e dunque duraturo, una “enciclopedia infinita”, un’azione che non si ferma, in quanto necessaria trasmissione dei dati di generazione in generazione.
Divulgare vuol dire chiedere agli studiosi, agli accademici, agli intellettuali, ai sapienti, al maestri, agli insegnanti di offrire chiavi di lettura per tutti. E dunque i nostri sono, “manuali per tutti” ma senza perdere il contatto con l’alta cultura.
Divulgare non è tradire. Divulgare non è tradurre. È, al contrario, accogliere sulla nave tanti viaggiatori in più. Se noi non sentissimo più il dovere di divulgare, vorrebbe dire che la postdemocrazia, con il suo sottile autoritarismo, ha già vinto, vorrebbe dire che ci siamo già arresi alle identità frammentate, agli individui senza radici, scaraventati come vuole la divisione del lavoro capitalistico; in sintesi, ci saremmo già arresi a vivere in comunità spezzate e rese materia inerte [...]"
Dalla prefazione di Paolo Peluffo
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2017
ISBN9788826454757
Canto per canto: manuale dantesco per tutti

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    Anteprima del libro

    Canto per canto - Aldo Onorati

    Sommario

    Ringraziamenti

    Prefazione di Paolo Peluffo

    INFERNO

    Schema generale

    CANTO primo

    CANTO secondo

    CANTO terzo

    CANTO quarto

    CANTO quinto

    CANTO sesto

    CANTO settimo

    CANTO ottavo

    CANTO nono

    CANTO decimo

    CANTO undicesimo

    CANTO dodicesimo

    CANTO tredicesimo

    CANTO quattordicesimo

    CANTO quindicesimo

    CANTO sedicesimo

    CANTO diciassettesimo

    CANTO diciottesimo

    CANTO diciannovesimo

    I papi della vita di Dante

    CANTO ventesimo

    CANTO ventunesimo

    CANTO ventiduesimo

    CANTO ventitreesimo

    CANTO ventiquattresimo

    CANTO venticinquesimo

    CANTO ventiseiesimo

    CANTO ventisettesimo

    CANTO ventottesimo

    CANTO ventinovesimo

    CANTO trentesimo

    CANTO trentunesimo

    Schema del nono cerchio

    CANTO trentaduesimo

    CANTO trentatreesimo

    CANTO trentaquattresimo

    PURGATORIO

    Breve premessa

    CANTO primo

    CANTO secondo

    CANTO terzo

    CANTO quarto

    CANTO quinto

    CANTO sesto

    CANTO settimo

    CANTO ottavo

    CANTO nono

    CANTO decimo

    CANTO undicesimo

    CANTO dodicesimo

    CANTO tredicesimo

    CANTO quattordicesimo

    CANTO quindicesimo

    CANTO sedicesimo

    CANTO diciassettesimo

    CANTO diciottesimo

    CANTO diciannovesimo

    CANTO ventesimo

    CANTO ventunesimo

    CANTO ventiduesimo

    CANTO ventitreesimo

    CANTO ventiquattresimo

    CANTO venticinquesimo

    CANTO ventiseiesimo

    CANTO ventisettesimo

    CANTO ventottesimo

    CANTO ventinovesimo

    CANTO trentesimo

    CANTO trentunesimo

    CANTO trentaduesimo

    CANTO trentatreesimo

    Matelda

    PARADISO

    Introduzione

    I cieli

    CANTO primo

    CANTO secondo

    CANTO terzo

    CANTO quarto

    CANTO quinto

    CANTO sesto

    CANTO settimo

    CANTO ottavo

    CANTO nono

    CANTO decimo

    CANTO undicesimo

    CANTO dodicesimo

    CANTO tredicesimo

    CANTO quattordicesimo

    CANTO quindicesimo

    CANTO sedicesimo

    CANTO diciassettesimo

    Le tappe dell’esilio di Dante

    CANTO diciottesimo

    CANTO diciannovesimo

    CANTO ventesimo

    CANTO ventunesimo

    CANTO ventiduesimo

    CANTO ventitreesimo

    CANTO ventiquattresimo

    CANTO venticinquesimo

    CANTO ventiseiesimo

    CANTO ventisettesimo

    CANTO ventottesimo

    CANTO ventinovesimo

    CANTO trentesimo

    CANTO trentunesimo

    CANTO trentaduesimo

    CANTO trentatreesimo

    Cenni sulla tecnica del verso

    Biografia

    Ringraziamenti

    La Divina Commedia, questo capolavoro dei capolavori, afferra e – al tempo stesso – pone uno spazio invalicabile fra l’autore e il lettore. Perciò è inesauribile ed ogni esegesi apre nuovi problemi.

    In tale percorso, ho cercato di esporre con chiarezza non solo l’itinerarium mentis in Deum, ma alcune delle possibili interpretazioni di molti passi ambigui, tentando di spostarmi al tempo dell’Alighieri per spiegare anche i fatti a lui coevi e l’innesto di mitologia e testi sacri nella logica dantesca e del suo periodo.

    Lo spazio concesso a una sinossi critica è sempre poco; il materiale è infinito. Spero soltanto, però, di essere riuscito a interessare i lettori all’approfondimento ulteriore di quello che Borges definisce il massimo di tutte le letterature, e di avere sottolineato l’inimitabile forza espressiva del Padre della civiltà contemporanea italiana, europea e non solo.

    Questo manuale può essere di aiuto agli studenti, perché soprattutto a loro ho pensato scrivendolo, edotto dai lunghi anni di insegnamento, nonché dalle continue conferenze.

    Voglio ringraziare, per aver pubblicato il libro, la Società Dante Alighieri e il suo Presidente Andrea Riccardi, al quale va intera la mia stima.

    Mi onora l’attenzione del Vice Presidente Paolo Peluffo, per l’acume con cui ha saputo cogliere anche gli spunti meno prevedibili del mio testo; talvolta le parole non sono sufficienti a esprimere la gratitudine; e questo lo dico anche nel grazie particolare indirizzato al Segretario Generale della Dante, Alessandro Masi, il quale ha creduto nel mio lavoro fin da principio: lo stimolo da parte sua è stato fondamentale sotto ogni aspetto.

    Durante il procedimento di sistemazione, ho avuto accanto Valeria Noli, precisa e perspicace rilettrice, con la quale sono stati possibili le correzioni e i confronti concordati su alcuni ripensamenti.

    Andrea Ciarlariello ha seguito le operazioni di stampa del volume e valutato le proposte del grafico.

    Esprimo un’anticipata riconoscenza ai lettori, di fronte ai quali mi pongo con quest’ umile speranza: che si ami sempre di più tale miracolo (il Poema Sacro) fin ora insuperato: e irripetibile.

    Aldo Onorati

    Prefazione di Paolo Peluffo

    Canto per canto di Aldo Onorati è la prima nave che salpa dal nostro piccolo porto di Palazzo Firenze per affrontare la sfida della divulgazione della cultura italiana classica, componente fondante della nostra identità. Divulgare è un’avventura, ma in fondo anche un dovere, che vorremmo infinito, non finito, e dunque duraturo, una enciclopedia infinita, un’azione che non si ferma, in quanto necessaria trasmissione dei dati di generazione in generazione.

    Divulgare vuol dire chiedere agli studiosi, agli accademici, agli intellettuali, ai sapienti, al maestri, agli insegnanti di offrire chiavi di lettura per tutti. E dunque i nostri sono, manuali per tutti ma senza perdere il contatto con l’alta cultura.

    Divulgare non è tradire. Divulgare non è tradurre. È, al contrario, accogliere sulla nave tanti viaggiatori in più. Se noi non sentissimo più il dovere di divulgare, vorrebbe dire che la postdemocrazia, con il suo sottile autoritarismo, ha già vinto, vorrebbe dire che ci siamo già arresi alle identità frammentate, agli individui senza radici, scaraventati come vuole la divisione del lavoro capitalistico; in sintesi, ci saremmo già arresi a vivere in comunità spezzate e rese materia inerte.

    Divulgare equivale a tentare di alimentare, rinnovare, le identità nazionali e questo, a sua volta, vuol dire resistere alla deriva oscura, fangosa, degradata del nostro tempo. È dunque una piccola, umile, azione eroica. Noi della Dante cercheremo di dare un contributo a questa opera di resistenza. E lo faremo divertendoci come Aldo Onorati in questo primo manuale che non poteva non essere dantesco, come dantesco è Onorati stesso, il primo dantista che mi abbia convinto che l’autore del gran rifiuto non fosse il povero monaco strappato alla preghiera e fatto papa, Celestino V, ma la gigantesca, sinistra figura di Ponzio Pilato, ovvero il potere romano.

     Questa nuova prospettiva di divulgazione, in Italia, l’ha aperta Vittorio Sermonti che ci ha appassionato alla lettura continua della Commedia, con le sue coltissime, ma comprensibili esplicazioni, anch’esse canto per canto. Le generazioni del secolo XXI hanno avuto in Sermonti un percorso alternativo, potente, alto e colto, alla lettura spezzettata e interrotta delle note a piè di pagina della nostra giovinezza.

    La Dante ha preceduto questo primo manuale con un’opera mai tentata da altri, ovvero un film di 21 ore di tutta la Divina Commedia: In viaggio con Dante di Lamberto Lambertini. Forse è più giusto dire che si tratta di 100 film di 12 minuti ognuno, per ogni canto. Ma il succo è che questi cento film accompagnano la lettura di ogni canto con un viaggio a tappe che si porta, o meglio, ci immerge in un luogo della nostra straordinaria Italia, un’Italia fragile e potente, l’Italia del lavoro degli uomini, delle arti e delle tecniche che stanno scomparendo, ma anche delle grandi opere, monumenti del passato, rovine, infrastrutture, città, treni, navi, macchine, arte contemporanea, luoghi misteriosi e quasi segreti. È una immersione nel fiume Lethe che si restituisce intera la nostra molteplice identità italiana nella sua ricchezza infinita, e nelle sue diffuse imperfezioni.

    Leggere finalmente questa breve, ma allo stesso tempo monumentale sinossi critica di Onorati, ci consente di guardare il poema dantesco nel suo insieme, senza la sensazione di perdersi nella sua complessità.

    Vedendola completa nei suoi tre cammini successivi, ebbene, la Commedia mi spaventa. Di fronte ad essa resta un senso di sgomento, che però non trae origine soltanto dalla sua grandezza: c’è qualcosa di più forte, di più arcano. Si tratta dell’ombra d’una sconosciuta disarmonia. È lo stesso sgomento che si prova vedendo da lontano, per la prima volta, il profilo isolato di Castel del Monte sulle colline brulle della Murgia. Che cosa è, davvero, Castel del Monte? Che cosa è, davvero, la Commedia? Sono domande più serie di quanto appaia a prima vista, perché continuiamo a non sapere esattamente e completamente che cosa siano questi due giganteschi monumenti. Sappiamo, peraltro, quanto discredito i dantisti abbiano riservato a Gabriele Rossetti e a Giovanni Pascoli per aver indugiato molto sui lati oscuri della Commedia.

    Tuttavia è paradossale che l’Italia come nazione nasca da una costruzione di cui ci sfugge il senso compiuto. O forse siamo in presenza di un tratto profondo, strutturale, costitutivo della identità italiana, che è la sua natura tragica, più forte di ogni altro elemento superficiale e che segna la nostra storia nazionale in ogni momento importante. Il carattere tragico di costruzioni come la Commedia è rappresentato dal fatto che esse sono il frutto di un progetto, di una intenzionalità storica che è già morta, distrutta, quando esse nascono. L’idea imperiale di ricostruzione dell’Europa finisce con la catastrofe degli Hohenstaufen e Dante completa la Commedia mentre la tragica fine del Templari segna la fine della repubblica monastico cristiana e la nascita degli stati nazionali e dei comuni. La stessa teologia gerarchica, complessa e dettagliata del teologo Dante appare come il frutto articolato di un’era storica già passata, un’utopia già sconfitta dalla Storia che spingeva, al contrario, verso i modelli pulviscolari, dinamici, delle città e delle nascenti nazioni europee, mercantili, industriali, guelfe, non imperiali. Anche la Commedia, dunque, appare come una di quelle costruzioni di effimeri infinitamente duraturi, fantasmi che non scompaiono, che anzi danno origine a un mondo doppio rispetto alla realtà storica. È curioso che gli italiani abbiano scelto come libro identitario proprio un’opera che condanna le caratteristiche fondanti dell’Italia comunale, del suo straordinario sviluppo moderno, della sua stessa ricchezza.

    La giustizia cristiana come graduale sentiero di verità iniziatica che giunge alla filosofia somma appare quasi emanazione da un mondo che non si è compiuto, è la luce permanente di un corpo dissolto. Ma quella luce ha generato noi, gli italiani. E qui sta il problema. L’ elemento tragico è dunque a mio parere consustanziale alla nascita degli italiani, che da una parte tendono sempre a confrontarsi con qualcosa di immenso, irrecuperabile o irrealizzabile. Il ricordo della grandezza dell’Impero romano, per esempio; la disperazione per la sua caduta; o il progetto fallito di costruzione dell’impero cristiano, o la nuova religione universale e filosofica che attraversa il Rinascimento e che viene travolta dalla Riforma e dalla reazione cattolica ad essa. Queste immense ombre, in parte irreali, creano tuttavia realtà, ma si tratta di una realtà tragica per la presenza dell’ignoto, che tende a svilire la realtà presente a un modesto relitto, una rovina di fronte alle cattedrali alla quali saremmo stati destinati.

    L’utopia politico-filosofica di Dante, la costruzione federiciana, la ricostruzione classica del Rinascimento, l’architettura platonica palladiana, che si sviluppa in piena Controriforma, lo stesso Risorgimento intriso di nostalgie dell’antichità romana sono manifestazioni nella nostra storia di progetti che vivono una impossibile affermazione integrale ma che, purtuttavia, muovono nel profondo i comportamenti e le aspirazioni degli italiani, condannati a realizzazioni sempre insoddisfacenti.

    INFERNO

    Schema generale

    L’Inferno è la prima delle tre cantiche in cui si struttura il Poema Sacro. Contiene 34 canti, uno in più delle altre, perché il primo è considerato una sorta di introduzione a tutto l’itinerarium mentis in Deum che Dante percorre insieme a Virgilio (ma sopraggiungerà Stazio nei canti gemelli del Purgatorio, XXI e XXII, quindi Beatrice, dal Paradiso Terrestre alla visione di Dio).

    La Divina Commedia si articola in cento canti, 33 per cantica, più – come detto – uno introduttivo per l’Inferno. Non approfondiremo la numerologia del Poema Sacro, ma un cenno necessario bisognerà farlo. Dante usa la terzina incatenata (numero tre, come la Santissima Trinità), e i tre regni dell’oltretomba vengono descritti ognuno in 33 brevi poemi concatenati, e 33 è il multiplo di 3; così il numero cento, che è la cifra dell’intera opera, è 33 moltiplicato tre, più uno: la Trinità e l’Unità di Dio, Uno in Tre Persone.

    Il viaggio provvidenziale (cfr. il XVII del Paradiso nella dichiarazione di Cacciaguida ispirata da Dio) si svolge nell’anno del Signore 1300, partendo dalla notte del giovedì santo, 7 aprile. Nella selva oscura, Dante rimane dunque la notte fra il 7 e l’alba dell’8 aprile. La narrazione è fortemente allegorica, in questo preludio. L’imbuto del regno senza fine amaro è posto, nella cosmologia dantesca, sotto Gerusalemme, dove si apre la porta inferi sulla quale campeggia una scritta di significato oscuro. Poi c’è l’Antinferno, con gli ignavi, e il fiume Acheronte. Fra questo e lo Stige vi sono quattro cerchi, onnicomprensivamente sistemati, nella nomenclatura, col titolo generale dei peccatori incontinenti. Nella mota dello Stige si picchiano fra loro gli iracondi e gli accidiosi. E qui termina l’Antinferno. La città di Dite, turrita e infuocata, è l’Inferno vero e proprio, nel quale Virgilio è ammesso grazie alla venuta del Messo Celeste.

    Nel cerchio sesto, interno alle mura, ci sono le tombe incese degli eretici ed epicurei (il X canto narra l’incontro con Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti), poi il grande burrato e i tre gironi dei violenti. Un’immensa ripa scoscesa separa questa zona infernale dalle Malebolge, dieci in tutto, contenute nell’ottavo cerchio dei fraudolenti (dai seduttori fino ai falsari). Poi il pozzo dei Giganti e il nono cerchio in cui sono puniti i traditori: dei parenti, della patria, degli ospiti e dei benefattori. Lucifero, incastrato fino all’ombelico, maciulla nelle sue tre bocche Giuda, Bruto e Cassio, vale a dire i traditori del fondatore della Chiesa (Gesù) e dell’Impero (Cesare). Poi c’è la natural burella, al centro della Terra, che i due viandanti percorrono in salita, perché dal punto estremo ed infimo dell’imbuto infernale si passa a un altro emisfero, quello australe, e quindi il percorso è inverso: dalla discesa si procede all’ascesa fino alla montagna del Purgatorio.

    CANTO primo

    Nella notte fra il giovedì santo, 7 aprile 1300, e l’alba del venerdì santo, 8 aprile, Dante si perde in una selva oscura. Egli ha 35 anni, è a metà della vita, se si considera la durata di essa (per la Bibbia: 70 anni i forti). È a questo punto cruciale dell’esistenza che si smarrisce in una valle tenebrosa, quella del peccato; è pieno di sonno (l’indifferenza morale), a causa del quale Dante non riesce a spiegare come entrò in quella selva dalla quale solo la Grazia divina può salvarlo (purché l’uomo si apra all’opera della Provvidenza). Ed ecco il colle dilettoso apparire ai suoi occhi proprio nel momento della disperazione, ma tre fiere si frappongono tra lui e la salvezza: una lonza, un leone e una lupa, rispettivamente allegorie della sensualità, della superbia e dell’avidità. La terza belva, causa di tutti i mali del mondo, quindi peggiore e più pericolosa della stessa superbia e dei sensi, gli fa perdere la speranza dell’altezza. Ma ecco la Bontà divina accorrere in suo aiuto, perché il pentimento di Dante è sincero.

    Appare, sulla cima del colle, Virgilio (che Dante sceglie a emblema della ragione, ma anche perché nel Medioevo il poeta latino era ritenuto un profeta della venuta di Cristo: e si leggano i versi 64-73 del XXII canto del Purgatorio). Virgilio indica nella cupidigia un pericolo mortale per l’essere umano, perché dalla brama di possesso nascono altri mali («molti son li animali a cui s’ammoglia», v. 100). Ma giungerà infine il Veltro, che la scaccerà lontano, fino a rimetterla nell’Inferno da cui Lucifero (l’invidia prima) la fece uscire. Su questo enigmatico Veltro si sono versati fiumi di inchiostro onde individuare il grande protagonista della restaurazione morale. Fuori di metafora e di riferimenti indimostrabili, bisogna pensare a una forza di rinnovamento evangelica, spirituale, che è – secondo Dante – prossima a venire.

    Io ritengo, per il tuo meglio, spiega Virgilio, che tu debba seguirmi in un viaggio in cui ti sarò guida sicura, dove tu vedrai le genti dolorose ch’hanno perduto il ben dell’intelletto (in Inferno) e quelle che sono contente di purgarsi nel fuoco perché le attende, dopo l’espiazione nella speranza (il Purgatorio), il premio della letizia eterna in Paradiso.

    Il poeta latino avverte Dante che per il terzo regno gli sarà maestra un’anima più degna di lui (Beatrice). Il Pellegrino acconsente, chiedendogli, proprio in nome di quel Dio che Virgilio non conobbe, di salvarlo dal male presente e da quello peggiore che aveva alle spalle, ancora minaccioso attraverso le tre belve. Il Maestro si incammina, e Dante, in silenzio, ma pieno di speranza, lo segue.

    CANTO secondo

    È il venerdì santo, verso il tramonto del giorno. La scena si delinea sul pendio lieve del colle della Grazia. Dante si prepara, unico fra i vivi, a fare il periglioso ma inevitabile viaggio nel regno dei morti, agli inferi. I primi 6 versi descrivono il calare della sera, quando l’oscurità toglie dal lavoro gli esseri viventi, mentre lui soltanto si «apparecchiava a sostener la guerra/ sì del cammino e sì della pietate,/ che ritrarrà la mente che non erra» (vv. 4-6).

    Il lettore si dovrà abituare alle invocazioni da parte del Poeta alle Muse (e poi alla stessa divinità impersonata da Apollo nel I canto del Paradiso), affinché lo assistano a tenere a mente quanto vedrà di eccezionale, per poterlo narrare ai contemporanei e ai posteri. Si viene man mano delineando una missione speciale, che Dante pellegrino ancora non intende, né forse sospetta. Infatti, rivolge a Virgilio alcuni dubbi per venire rassicurato da lui sui pericoli e le possibilità di compiere un viaggio insolito, realizzato soltanto da uomini eccezionali quali Enea e san Paolo, ma essi perseguivano fini superiori: politici il troiano, religiosi Paolo di Tarso. «Ma io, perché venirvi? O chi ‘l concede?/ Io non Enea, io non Paulo sono;/ me degno a ciò né io né altri crede» (vv. 31-33), dice Dante, indirettamente ponendo le basi della sua importanza provvidenziale, perché a lui sarà affidato il compito di mettere per iscritto la propria esperienza al fine di salvare l’umanità dai rischi del peccato (Gioachino da Fiore parla dell’Età dello Spirito, infatti).

    È dunque necessario che Virgilio, a questo punto, parli chiaro. Mentre si trovava nel Limbo, giunse a pregarlo personalmente Beatrice, mossa da un trepido amore, affinché il grande saggio antico – che Dante ammirava quale Maestro – ponesse i suoi servigi e le capacità di persuasione finalizzati alla salvazione del Fiorentino. Inoltre Virgilio rincara la dose, stringendo il Poeta smarrito dentro un cerchio da cui non può fuggire: la Vergine Maria, e Santa Lucia cui Dante era devotissimo in seguito a una grave malattia agli occhi, avevano persuaso Beatrice a correre in aiuto del suo amico che l’aveva così tenacemente amata in vita.

    La volontà di entrambi è una: procedi – afferma l’Alighieri, rivolto alla Guida, al Signore e al Maestro.

    Appena Virgilio si mosse, il discepolo entrò con lui nel cammino arduo e selvaggio.

    CANTO terzo

    Questo è il vero inizio della discesa agli inferi. È la sera del venerdì santo, 8 aprile 1300. I canti precedenti, sostanzialmente esplicativi e didascalici, lasciano il posto a un’improvvisa dilatazione della conoscenza dell’Alighieri attraverso la visione dei primi dannati, benché si stia all’Antinferno.

    Un piccolo adito introduce al regno del dolore senza speranza. Le scritte sulla porta sono ammonizioni che quel luogo di castigo è eterno: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» (v. 9). Ecco: l’Inferno è il regno dell’assenza d’ogni speranza di salvezza.

    Dante non comprende il significato recondito delle parole e ne chiede spiegazione a Virgilio, il quale lo esorta a non aver paura né sospetto, perché vedrà genti dolersi del proprio meritato castigo. Tuttavia lo prende per mano, come un fanciullo, e gli spiega le arcane regole di quel mondo tanto popolato di morti. Un improvviso scenario di pianti, urla, sospiri, maledizioni, bestemmie, in lingue diverse, perché il mondo intero si riversa lì dopo la morte se si è in peccato, turba profondamente – e senza preparazione alcuna – il viandante, il quale, da vivo, entra nell’oltretomba.

    C’è un vento impetuoso che alza nugoli di polvere come la rena quando il turbo spira, in quella totale assenza di tempo. È naturale e commovente il continuo chiedere a Virgilio, da parte di Dante, il motivo di tanto dolore. Egli vuol sapere chi è quella gente «nel duol sì vinta». Sono gli ignavi, che vissero senza infamia e senza lode, scacciati dai cieli per non esser men belli, e rifiutati dai diavoli perché la loro vita amorfa non accrescerebbe alcuna gloria al loro orgoglioso male.

    Hanno forse – nel senso etico di Dante – la peggiore condanna: il mondo non serba fama di loro. Virgilio, con larvato disprezzo, esorta il Pellegrino a non ragionar della loro sorte. Ma Dante è attratto da quel mondo nuovo e incredibile; guarda e vede un’insegna che girando correva talmente veloce da sembrare indegna d’ogni posizione (allegoria degli ignavi: non prendono mai un atteggiamento esatto, non stanno né in cielo né in terra, né con Dio né col diavolo). Le anime sono così numerose che il Poeta si stupisce al pensiero «che morte tanta ne avesse disfatta» (v. 57). Ma riconosce qualcuno nella turba affollata, nella ressa in movimento: è l’ombra di un uomo celebre che ha fatto il gran rifiuto.

    La critica non è concorde nell’identificarlo con Celestino V; molti già degli antichi pensavano a Ponzio Pilato, decisivo protagonista della morte di Gesù.

    Le pene sono fastidiose, più che atroci. Punzecchiature di vespe, mosconi, sangue colato dalle guance che si mescola alle lacrime, le quali vengono raccolte ai loro piedi da fastidiosi e schifosi vermi. E Dante smania dalla voglia di sapere chi sia quella gente in tal modo punita. Virgilio lo obbliga ad avere pazienza per la risposta: gliela fornirà sull’altra riva dell’Acheronte. Ed ecco, con un colpo di scena potentissimo, apparire il traghettatore Caronte con gli occhi di bragia. Le anime giunte dalla morte vengono fatte salire sulla navicella a suon di remi. I colori sono violacei, rosso cupo, indaco.

    Ma Caronte è un demone e si accorge che Dante è vivo. Gli dice di allontanarsi, perché egli dovrà salire su legni più leggeri (la barca che conduce al Purgatorio dalla foce del Tevere). Virgilio azzittisce Caronte rassicurandolo che tutto è voluto dal Cielo. Quindi una potente descrizione delle anime spaventate – e stranamente desiderose di conoscere la propria pena – fa di questo canto uno dei più drammatici e belli dell’intera cantica.

    Le similitudini con gli alberi che vedono a terra tutte le loro spoglie (le anime che scendono dal barcone stracarico e pesante a causa dei peccati mortali); la corale psicologia dei dannati che bestemmiano, tremano, maledicendo il giorno, il luogo e il seme «di lor semenza e di lor nascimenti» (v. 105) mescolano la liricità al dramma.

    Ormai sono al di là dell’Acheronte. Virgilio decide di svelare a Dante il motivo del suo silenzio: Siccome i cattivi convengono qui da ogni paese, Caronte non pensa che possa esservi un’anima buona: per questo ti ha rampognato.

    Così parla la Guida, ma subito dopo la terra trema in un terremoto spaventoso, scatenando un gran vento dalle grotte infernali. Un lampo vermiglio acceca Dante, causandogli uno svenimento.

    CANTO quarto

    Venerdì santo, 8 aprile. È sera. Un tuono fortissimo ridesta il Pellegrino, che cerca di orientarsi nel nuovo luogo in cui si trova. È buio fondo. Virgilio stesso è pallido, perché sta per rientrare nel Limbo (primo cerchio), in cui egli stesso è posto. Vi sono le anime di coloro i quali sono vissuti prima di Cristo e quelli morti senza battesimo. Ma la terra non trema né si odono lamenti di dolore. Dante domanda al Maestro se qualcuno mai sia uscito dal Limbo, e Virgilio narra la discesa di Cristo dopo la morte e resurrezione: Egli liberò i Patriarchi e gli Ebrei dell’Antico Testamento, i quali credettero nella venuta del Messia.

    A un certo punto, l’Alighieri vede un fuoco che vince un emisfero di tenebre, intuendo che lì dimorano persone degne di onore. Infatti una voce esclama: «Onorate l’altissimo poeta;/ l’ombra sua torna, ch’era dipartita» (vv. 80-81). Quattro ombre si avvicinano: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano. Virgilio presenta loro Dante, che entra, per un attimo solo, nella schiera («sì ch’io fui sesto tra cotanto senno»: è la dichiarazione inequivocabile secondo cui egli si immette nella scia della classicità, quale continuatore fra l’antico e il moderno). Quindi procedono fino alla lumera, un nobile castello «sette volte cerchiato d’alte mura,/ difeso intorno d’un bel fiumicello» (vv. 107-108). Nonostante le difese logistiche, entrano, scorgendo su un prato verde i grandi spiriti che si sono distinti per il coraggio, in antico, e per altezza d’ingegno: Elettra, Ettore, Enea, Cesare con gli occhi grifagni (nell’XI del Paradiso lo descriverà così: «colui ch’a tutto il mondo fe’ paura»), e tanti altri, fra cui Camilla e Lavinia, Lucrezia e Marzia (di cui si parlerà a Catone Uticense nel I del Purgatorio), quindi Socrate, Platone e Aristotele («Il maestro di color che sanno»), Seneca, Tolomeo, Avicenna, Averroè, Euclide, Galieno e tanti altri. Ma la compagnia si scioglie, e i due giungono in un luogo in cui non c’è luce.

    Abbiamo incontrato, grazie a Virgilio e a Dante, spiriti magni relegati in questa zona dove sono esclusi dalla visione di Dio, quel Dio che non conobbero – e non per colpa loro. E tuttavia bramano Dio. Insomma, «al tempo degli dèi falsi e bugiardi» gli uomini o mancarono di una fede, o credettero in modo errato. Ma poi, dopo la venuta di Cristo, i peccatori furono renitenti alla Fede vera.

    CANTO quinto

    Ultime ore del venerdì santo, 8 aprile. Siamo al II cerchio, il cui custode è Minosse (figlio di Giove e di Europa, re di Creta, personaggio mitologico famoso grazie alle leggi scritte date al suo popolo), giudice che ascolta le sincere confessioni dei peccatori; dopo di che, avvolge la sua coda intorno al corpo, «quantunque volte vuol che giù sia messa» l’anima dannata.

    È il luogo in cui sono puniti i lussuriosi, «che la ragion sommettono al talento». Tornano i lamenti, il dolore. Minosse ringhia orribilmente, ma sospende un attimo il suo alto uffizio appena si accorge che Dante è vivo. La prima cosa di cui lo avverte è di non fidarsi di Virgilio che (secondo il commento di Boccaccio) non è stato capace di salvare nemmeno sé stesso. Ma le parole decise e maestose rivolte per placare l’ira di Caronte vengono ripetute con ottimi risultati anche qui («vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare», vv. 23-24).

    Per la legge del contrappasso, i peccator carnali, che la ragion sottomettono alla forza dei sensi, sono travolti dal turbine, rappresentazione concreta della passione che li vinse. Ma essi sono posti in alto rispetto al digradare nell’imbuto man mano che le pene si fanno più gravi; di contro, nel Purgatorio, i lussuriosi vengono messi poco prima del Paradiso Terrestre, chiaramente a dimostrare che la lussuria è una colpa meno pesante delle altre esaminate da Dante attraverso continui exempla.

    Una schiera di anime, portate dalla «bufera infernal che mai non resta», incuriosisce il Pellegrino, che, naturalmente, si rivolge al Maestro per sapere qualcosa. Tutto rappresenta una sorpresa senza limite per lui. Questa volta il poeta latino risponde subito, nominando alcuni lussuriosi morti in maniera violenta. I paralleli fra le anime sbattute dal vento e gli uccelli migratori nel freddo cupo del cielo danno un tono di mestizia alla narrazione. Le ombre castigate dall’aura nera sono soprattutto donne. Infatti questo è il canto in cui la presenza femminile è massiccia, quasi a significare che l’amore, la passione, il dolce tormento dell’ardente inclinazione ad amare, sia preponderante (e tipico) nella donna. La prima nominata è Semiramide, la quale fu così portata alla lussuria, da rendere lecito il vizio con una legge, per assolvere sé stessa e tutti gli altri come lei. Poi viene Didone, la quale si suicidò, dopo aver rotto il giuramento fatto a Sicheo. Quindi Cleopatra, definita lussuriosa, in rima, però in antitesi logica, con la Didone amorosa. Fra questi protagonisti di un passato che sfocia nella mitologia, non potevano mancare Elena di Troia e Paride, Achille, fino a Tristano, popolare attore dei romanzi del Ciclo bretone di re Artù. Ma poi Dante sintetizza così il resto della lunga schiera: «…più di mille/ ombre mostrommi e nominommi a dito,/ ch’amor di nostra vita dipartille» (vv. 67-69).

    Ed ecco che il nostro Poeta dichiara la sua pietà verso quei peccatori antichi e meno antichi, tanto da sentirsi smarrito. Nella tecnica narrativa è un espediente letterario per giustificare la richiesta di un colloquio con Francesca da Rimini: appaiono nel grigio spazio di quel breve cielo infernale (sembra una sineciosi, ma la realtà è questa) due ombre: un uomo e una donna, che vanno insieme, e paiono tanto leggeri all’ala del vento. Si tenga a mente che un accorgimento simile Dante lo inventa nel XXVI canto, per Ulisse e Diomede, i quali attirano l’attenzione del Fiorentino proprio perché sono gli unici fuochi a stare insieme in una medesima pira.

    Virgilio non nega al suo allievo il piacere (e il dolore) di parlare coi due amanti, ma lo consiglia di attendere il momento propizio (per i Greci, nel fiume nero in cui sono puniti i consiglieri di frode, dirà lo stesso: «Quando parve al mio duca tempo e loco»). E il parallelo con i colombi, quindi sempre con esseri che volano, e che rappresentano la dolcezza, la bellezza, la fragilità, l’imprevisto delle ali affidate all’aere, sembra riprendere quello delle lamentazioni delle gru, quasi una didascalia del destino dei lussuriosi, sopraffatti da un’insana passione, ma della quale Dante uomo ha comprensione, perché spiritus promptus, sed caro infirma est. Da qui il pathos altamente lirico nel resto del canto, scaturito dal racconto di Francesca da Polenta, abbracciata per fatale decisione dell’Amore al suo Paolo Malatesta, il cognato bello e avvincente, tanto diverso dal marito Gianciotto (nome che significa: Gianni lo zoppo). Tutti i versi, intrisi di dolce e triste rimembranza d’un tempo fermo nel sogno, per statuto delle umane passioni sottolineano l’impossibilità di sfuggire all’attrazione misteriosa, perché l’amore, che subito divampa nei cuori gentili, non permette, a chi è amato, di non ricambiare: ma lo stesso amore li condusse alla morte.

    L’anafora triplice che apre ben tre terzine (vv. 100-108), è di stampo stilnovistico, guinizelliano, cavalcanteo, e dantesco (Vita Nuova). Il Sommo Poeta vibra con le parole di Francesca. Paolo è muto, ma piange. La protagonista assoluta è lei, la donna. Dante si assimila a Malatesta, e forse proprio le lacrime di costui decidono, più che le parole di lei, il venir meno dell’uomo che, ancora nella carne mortale, fragile e mendace, ma spinta da passioni irrefrenabili, non regge alla pena inflitta da Dio ai lussuriosi, e alla pietà che scaturisce dall’osmosi degli inseparabili aspetti della passione: amore e morte.

    Se, nel terzo canto, erano stati l’improvvisa immersione nel dolore dei dannati e il terremoto spaventoso a provocare lo svenimento del Pellegrino, qui è la partecipazione di Dante alla dolorosa vicenda dei due infelici amanti a rendere il Poeta simile a un corpo che, morto, cade. Un protagonista è anche l’Alighieri, dietro le quinte, perché in lui coesistono il dramma interiore e l’irresolutezza dell’uomo che vuole, con la sola ragione (la quale viene sommessa dal talento, cioè dall’impulso della passione), tendere al trionfo dello spirito.

    CANTO sesto

    È il venerdì santo, 8 aprile. Circa la mezzanotte. Siamo nel III cerchio, quello dei golosi, di cui è custode Cerbero, mostro vorace e chiassoso. Tanto i golosi quanto i lussuriosi, e poi gli avari e prodighi nonché gli iracondi, appartengono al grande gruppo degli incontinenti; ma i primi due hanno ceduto, in vita naturalmente, a uno smodato senso del godimento fisico, mentre i secondi due hanno il sovrappeso di un diletto altrettanto fisico ma unicamente per sé stessi.

    I golosi sono puniti attraverso una battente pioggia di acqua, neve e grandine che li colpisce riversi a terra. Inoltre, il demonio Cerbero li «iscoia ed isquatra» (v. 18). C’è un fetore di acquitrinio che disturba l’odorato, così come la pioggia rende insipidi i sapori al palato: è la legge del contrappasso.

    Il guardiano dalle tre gole, appena scorse i due, aprì le bocche e mostrò le zanne, ma Virgilio non parlò, bensì «distese le sue spanne,/ prese la terra, e con piene le pugna/ la gittò dentro a le bramose canne» (vv. 25-27).

    Il paesaggio è grigio, freddo, untuoso. Dei dannati, solo uno riesce ad alzarsi dalla mota. È il fiorentino Ciacco, che Dante non riconosce a causa dell’aspetto fangoso. È il dannato noto in Firenze per la sua ingordigia (e del quale tratta anche Boccaccio in Decameron, IX-8) a ravvisare l’Alighieri, parlandogli con un’allitterazione («tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto»), bisticcio di parole che il Sommo Poeta ha caro, e lo userà spesso, specie nella parlata aulica di Pier delle Vigne. Per il suo concittadino, Dante prova un sentimento angoscioso; si scusa di non rammentarne la fisionomia, però il motivo c’è, ed è la sofferenza che il dannato sente al punto di farla affiorare nei lineamenti del volto.

    Ma Ciacco si apre a un’amara descrizione dei fiorentini: invidiosi oltre ogni limite. Quelli lo soprannominarono Ciacco per il vizio della gola (Boccaccio fa derivare il nome da ciens, colui che chiede, riferendosi alla sua voracità; per altri è una deformazione di Jacopo, cioè di Jacques). Come una difesa non richiesta, o forse per smorzare la dolente meraviglia del Pellegrino, Ciacco afferma che non è il solo ad essere punito, lì, per quel peccato. Quindi tace.

    Ora è necessario puntualizzare una riflessione di fondo. Il sesto canto dell’Inferno, come tutti gli altri sesti delle prossime cantiche, è d’importanza capitale nell’economia politica del Poema.

    Per la prima volta l’autore parla di Firenze. Nel sesto del Purgatorio tratterà dell’Italia e nel sesto del Paradiso dell’Impero. A crescendo. Quindi Ciacco è un’occasione per un discorso di ordine politico legato alla città-stato. Perché mai Dante chiede al concittadino il futuro politico di Firenze?

    Le anime penitenti non vedono nel presente, ma hanno chiaro il domani (cfr. i versi 100-103 del X canto di questa stessa cantica). E Ciacco predice i tempi avvenire, prossimi: le fazioni si combatteranno, finché i

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