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Addestrata per uccidere
Addestrata per uccidere
Addestrata per uccidere
E-book267 pagine3 ore

Addestrata per uccidere

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Narrativa - romanzo (204 pagine) - Una spy story ambientata in una Venezia sconvolta dai cambiamenti climatici e da un Carnevale in cui maschere e pugnali sono i veri protagonisti.


Una donna senza nome e dal passato misterioso, che trascorre il suo tempo a curare i cani sopravvissuti ai combattenti clandestini e a tuffarsi dal trampolino dei dieci metri della piscina comunale di Trieste, viene coinvolta in una corsa in auto fino a Berlino. Lì l'aspetta un appuntamento con la morte; il tutto orchestrato dai servizi segreti russi. Devang, un personaggio oscuro che lavora per i servizi segreti tedeschi clandestini, la salva costringendola ad accettare un lavoro a Venezia in compagnia di Tom Ferrari, il sicario che doveva ucciderla. Arrivati nella città lagunare, lei scopre che deve eliminare un russo che vive come un doge Veneziano e che è pronto a vendere i segreti del proprio paese ai servizi francesi e inglesi e quindi anche tedeschi. Ma lei, allora, per chi sta lavorando?


F.T. De Nardi ha iniziato a scrivere storie e racconti nella soffitta di sua nonna a Pigalle e non ha più smesso. Ha vissuto e studiato a Venezia, Londra, Chicago, Milano e Roma, impiegandosi in mille mestieri. In quest'ultima città ha conosciuto e frequentato gli uomini delle ombre di tutte le nazionalità, compresi quelli del Vaticano. Ha pubblicato guide turistiche e religiose, articoli, racconti e romanzi. Ricordiamo l'horror Venezombia (2015, Delos Digital); Il soldato di Bangkok (2018, Libromania); la guida Sulle tracce degli scrittori (2021, Brè Edizioni) e il presente romanzo finalista al Premio Sergio Altieri Segretissimo 2021.

LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2022
ISBN9788825419511
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    Anteprima del libro

    Addestrata per uccidere - F.T. De Nardi

    a Mariasophia Joséphine

    Personaggi principali

    Mattino9aMosca – La bionda

    Ex–agente del GRU

    Eugenij Belkin

    Vicedirettore del Primo Direttorato dell’FSB

    Vito Ferrari

    Sicario

    Devang Kreuzspinne

    Funzionario tedesco dell’Abteilung

    Kasia (la Polacca)

    Asset di Devang Kreuzspinne

    Lam Van Nguyen

    Console vietnamita al servizio di Mosca

    Dimitri Pasha Audi Bykov

    Amico di Chaika

    Artëm Pavlovich Belov, (Chaika)

    Miliardario russo

    Robert Wingleton (l’Inglese)

    Agente MI6

    Vincent Thibaulot (il Francese)

    Agente DGSE

    Nigel Kadesh

    Ex–S.A.S. contractor

    Aonghas

    Otto McMilner

    Daniele Corti

    Doggett

    Tops

    Higgins

    Contractors agli ordini di Kadesh

    You’ll never hear the shot that kills you

    The Bravados

    1

    Trieste

    La piscina olimpionica da là sopra sembrava una pozzanghera. Era incredibile come dieci metri in altezza non corrispondessero per nulla a dieci metri in estensione orizzontale. Si trattava di una percezione psicologica, ma non poteva chiudere gli occhi per cancellarla.

    Per quanto potesse sembrare una contraddizione, il dato di fatto era che le emozioni governavano il cervello, a prescindere dalla realtà oggettiva. Malgrado ciò, il salto dalla piattaforma dei dieci metri era il suo passatempo preferito, oltre a lanciarsi con il paracadute e fare a botte.

    La ragazza dai capelli colore del grano maturo era stata campionessa di nuoto ai Campionati Mondiali Militari, ma aveva dovuto rinunciare all'oro e fuggire per evitare di finire sui giornali a causa di quell'Avviso Rosso emesso dall'Interpol contro di lei per crimini di guerra in Cecenia, che un pedante quattrocchi funzionario aveva tirato fuori non appena le avevano messo a collo l’oro… per poi toglierglielo subito allontanandola con uno spintone. Se ci pensava, andava su tutte le furie.

    Era stata una macchinazione per incastrarla: chi aveva pubblicato quell'avviso non sapeva come erano andate le cose in Cecenia. In seguito, la storia della sua vita si era complicata ulteriormente, perché dopo un nuovo, luminoso inizio di carriera con una missione da titolare per il GRU finita male a Chicago, lei, data per morta, era stata costretta a passare alla parte avversaria. Dopo una missione che aveva portato alla luce segreti scottanti aveva dovuto mettere nel sacco anche i suoi nuovi datori di lavoro d’oltreoceano.

    Da quel momento, viveva sotto false generalità, cambiando spesso paese e nome al punto che non si ricordava quasi più come si chiamava. Insomma, la sua vita era tutto un casino e ogni giorno si sorprendeva di essere ancora viva e che nessuno si fosse fatto avanti per stenderla in orizzontale.

    Scacciò quei pensieri per concentrarsi su quello che stava facendo. Spalancò gli occhi: quando ci si tuffa non si devono chiudere, pena la perdita della coordinazione.

    Prese la rincorsa e saltò emettendo un breve urlo roco, si librò a mezz’aria e si preparò al doppio salto mortale con avvitamento semplice. Erano pochissime le emozioni che equivalevano al tuffarsi dalla piattaforma dei dieci metri.

    Passare da una sensazione di caduta libera – avvolta negli strati d'aria – all'impatto con la massa liquida provocava una cascata di brividi che sconvolgeva i sensi senza i postumi di un’ubriacatura o di una sniffata.

    Dopo aver sfiorato il fondo risalì verso l'alto avvolta da un mare di bollicine, ruppe la superficie che aveva bucato con quel volo perfetto e respirò a pieni polmoni l’aria tiepida che sapeva di cloro. Non c’era nessuno a quell’ora in vasca o seduto sugli spalti sopra cui si riversava la luce artificiale dei lampioni stradali attraverso grandi finestroni rotondi a forma di oblò navali.

    Sentì la canzone di Mina che usava come suoneria provenire dal punto in cui aveva lasciato le ciabatte e l'accappatoio e si chiese: Chi può essere? Quasi nessuno ha questo numero.

    Si aggrappò con le mani al bordo della piscina e uscì con l’agilità di una tigre dall’abbraccio delle acque. L’acqua clorata della piscina scivolò via dal corpo statuario e gocciolò sul pavimento ruvido che girava tutt’intorno alla vasca. Indossava un costume olimpionico bianco che metteva in evidenza il suo fisico da urlo. Non aveva un filo di grasso o di muscoli oltre il necessario; il passato sportivo di alto livello non aveva tolto nulla alla femminilità. Gli unici dettagli inquietanti erano i tatuaggi: un cobra reale che si avvolgeva attorno al braccio sinistro e che sfoggiava al posto degli occhi le lettere а-d: inferno in russo. Sull’altro braccio, sfoggiava il viso di Yuri Gagarin. Fra i glutei, un pipistrello nero, simbolo della Razvedka. Quei tatuaggi se li era fatta in Cecenia, la seconda volta che c’era stata. Nel suo plotone c’era un artista tatuatore di talento. Aveva anche un paio di cicatrici di buchi di proiettile, ma un rinomato chirurgo plastico aveva fatto un così buon lavoro che si notavano solo in particolari condizioni di luce e nessuno dei suoi amanti se ne era mai accorto.

    Prese il telefono, studiò il numero ma vide che non era possibile sapere chi stesse chiamando, perché il suo ammiratore aveva schermato il numero. Si strinse nelle spalle, soffiò fuori l’aria, si guardò intorno e rispose.

    – Sì?

    La telefonata si aprì con uno che soffiò nel microfono e s'interruppe subito con un click. Provò a richiamare, senza successo. Fece una smorfia. Si guardò intorno, all’erta, un gusto di bruciato in bocca. Guai in arrivo, annunciò il suo sesto senso. Il silenzio intorno a lei era spettrale. Non c’era proprio nessuno nell’enorme sala che faceva da cornice alla piscina, neppure il custode zoppo, che di solito si sedeva sugli spalti a guardare le sue esibizioni dal trampolino e soprattutto le parti scoperte del suo corpo in movimento. In cambio di una mancia, il custode la lasciava entrare quando la piscina era chiusa. Avrebbe preferito un pagamento in natura, ma lei aveva rifiutato con sdegno, trattenendo la collera. Era per metà cecena, e chi conosceva le cecene sapeva che erano donne orgogliose con il sangue bollente in tutti i sensi; gli altri imparavano in fretta.

    Lei tirò su l’accappatoio, infilò la mano in tasca e strinse le dita intorno alla CZ RAMI Cal. 40. Toccare la piccola compatta la rassicurò. Fece scivolare i piedi nelle infradito e ciabattò verso gli spogliatoi. Occhi, orecchie e olfatto all’erta. Era incredibile quanti aspiranti candidati a darle la caccia si fossero fatti fregare dal puzzo di sudore o dagli effluvi del deodorante che emanavano.

    Si fermò all’imboccatura del tunnel che portava agli spogliatoi e controllò che tutto fosse tranquillo. Annusò l’aria e ascoltò il silenzio che usciva dal tunnel per un intervallo di tempo che a chiunque sarebbe risultato interminabile. Non sembrava esserci nessuno in agguato. Nessuno che respirasse, nessuno che trascinasse i piedi o scrocchiasse le ginocchia o che emanasse odori individuabili. Le luci al neon erano tutte accese. Lo percorse in fretta, girò l’angolo e controllò i cubicoli delle docce e gli spogliatoi, prima di sciacquarsi via il cloro di dosso con i sensi all’erta. Dopo la doccia, si infilò nella tuta da ginnastica e non dimenticò i guanti fatti all’uncinetto. Poi ficcò accappatoio, costume e ciabatte nel borsone e passò la RAMI nella tasca anteriore della felpa. Si guardò di nuovo intorno. Quella telefonata la preoccupava. Decise di uscire da una porta secondaria, senza passare come al solito davanti all’ufficio dove il custode dormicchiava.

    Sbucò sulla strada che costeggiava la ferrovia. Oltre c’era il porto e già sentiva l’odore fresco e salino del mare e gli stridii di un gabbiano nottambulo. Osservò le auto ferme negli stalli, illuminati a giorno dalle luci dei lampioni. Le contò e ne riconobbe i modelli. Erano le stesse di quando era arrivata. Nessun nuovo arrivo, nessuna nuova partenza. Scese i gradini e imboccò il marciapiede che costeggiava la strada. Decise di non passare davanti al distributore di benzina, ma di tornare indietro, perché così avrebbe visto le auto che sopraggiungevano, evitando che potessero sorprenderla alle spalle. Camminò sotto i pioppi spogli a grandi falcate, verso la fermata dell’autobus.

    Guardò l’ora sul Tubogas di Bulgari. Per non dare nell’occhio non si vestiva quasi mai con abiti eleganti, ma a certi accessori non era riuscita a rinunciare, tipo gli stivali di Caovilla, la Bamboo Bag di Gucci e quell’orologio costoso che si arrotolava attorno al polso come un serpente.

    Raggiunse la fermata e decise di camminare fino alla successiva per non ripetere il percorso che aveva fatto la volta precedente. Se qualcuno l’avesse seguita, magari lei lo avrebbe notato, costringendolo a cambiare tattica. Aumentò il passo. Avrebbe preso l’ultimo autobus della serata. L’avrebbe portata alle pendici del colle di San Giusto; poi da lì, con una veloce camminata su per i vicoli ripidi che percorrevano il colle, sarebbe rientrata a casa. Aveva quasi raggiunto la fermata dell’autobus quando una BMW nera rallentò, strisciò con gli pneumatici contro il bordo del marciapiede e si fermò.

    Lei fece un salto indietro, la mano sulla pistola. L’uomo che la guidava scese senza spegnere il motore, girò intorno all’auto con calma, salì sul marciapiede e le venne incontro, le mani bene in vista.

    Lei spalancò gli occhi appena lo riconobbe e il sangue le andò alla testa. Tirò fuori dalla tasca la RAMI, fece un balzo in avanti e lo colpì con la canna della pistola al basso ventre e al naso.

    Lui urlò di dolore, si appoggiò al fianco dell’auto per non cadere a terra e alzò le mani in segno di resa.

    – Capisco la tua rabbia, ma sono qui perché Mosca ha bisogno di te – disse tutto d’un fiato Leonida Lermov.

    Lei si fermò e lo fissò, tenendo la pistola ad altezza anca, pronta a un tiro istintivo. Avrebbe voluto sparargli subito. Si guardò intorno incredula che non sbucassero dalle auto parcheggiate uomini vestiti come maratoneti in allenamento per non dare nell'occhio, e magari un furgone per rapirla. – Cosa ci fai qui? Hanno mandato te per uccidermi?

    – No, se avessero voluto farlo avrebbero mandato una squadra di specialisti, lo sai bene. Soprattutto in un posto come questo. Posso fumare? – Fece una pausa, le fece vedere che in mano aveva un accendino d’oro Dupont e un pacchetto di sigarette. Visto che lei non diceva nulla, con molta calma ne tirò tirò fuori una e l’accese.

    Lei non sapeva bene se era un segnale o no, ma lo lasciò fare. Improvvisamente si sentiva stanca: stanca di fuggire, di nascondersi, di essere sola e di non potersi fidare di nessuno.

    Era vero, negli ultimi tempi non era più stata attenta a molte cose, altro che guardarsi alle spalle come aveva sempre fatto. Per esempio era stato un errore venire a Trieste, la città dove aveva vissuto quando lavorava per Mosca. L’aveva scelta perché era un buon posto per nascondersi, e poi la conosceva bene e c’erano i suoi cani.

    Leonida accese la sigaretta, tirò due, tre boccate e non successe nulla. La guardò negli occhi e fece un sorrisetto.

    – Come ti ho trovato io, ti avrebbero trovato loro e ti avrebbero ucciso senza che tu potessi rendertene conto.

    – Ci hanno già provato e non ci sono riusciti.

    Lui alzò le mani in segno di resa. – Perché hanno mandato degli scalzacani, ma forse non volevano veramente ucciderti, solo farti capire che devi loro qualcosa. Io sono qui per offrirti il perdono di Mosca.

    – Il perdono? Sei tu il traditore. A Chicago mi hai rovinato la carriera, la mia prima missione come titolare.

    Lui annuì con una solennità untuosa, e abbassò la testa.

    Lei scosse la testa. – In cambio di cosa? Nessuno fa niente per niente.

    Lui fece una risatina chioccia, prima di rispondere. – In effetti vogliono da te un piccolo favore. Loro sono ben intenzionati a porgerti la mano, ma anche tu devi dimostrare la tua buona volontà.

    Lei lo guardò senza sapere bene cosa dire, poi ci pensò, scosse la testa, strusciò i piedi e lo guardò di nuovo. – Parla, ti ascolto. Per iniziare potresti dirmi cosa c’entri tu in tutta questa storia.

    Lui annuì, si raddrizzò senza fare movimenti bruschi, e continuò a parlare e a fumare senza sfilare la sigaretta dalle labbra. – Mosca ha mandato me perché ci conosciamo. Sì, lo so, sembra una contraddizione, ma se avessero mandato un altro tu non gli avresti creduto e saresti scappata senza neppure ascoltarlo, magari dopo avergli fatto due buchi in testa. Vedendo me, invece, avresti avuto ottimi motivi per fermarti.

    Lei sbuffò e fece un cenno brusco con la pistola. – Finora non hai detto nulla di sensato. Ti avverto che se mi annoi me ne andrò senza aspettare che tu abbia finito. Dopo averti sparato, ovviamente.

    Lui sorrise con i suoi denti rotti. A lei venne la nausea, ma la ricacciò in gola e strinse forte la CZ Rami .40. Non sopportava proprio quell’individuo grasso e untuoso. Oltretutto era uno schifoso: a Chicago aveva cercato di metterle le mani addosso ventilando che ciò le avrebbe favorito la carriera. Si ricordava ancora quelle mani grassocce tra le cosce. In più, glielo leggeva in faccia cosa pensava di lei, quel solito pensiero orizzontale che vedeva quelle come lei piegate a novanta gradi o in ginocchio, nessun’altro punto di vista.

    Sempre con la sigaretta stretta fra le labbra, lui alzò l’altra mano e le mostrò la chiave dell’auto. – Nel baule c’è una valigetta che mi hanno detto di consegnarti. Dentro ci sono centomila euro, una busta e un telefono satellitare con cui Mosca ti chiamerà fra… trenta secondi – disse sbirciando l’ora sul Rolex d’oro che gli brillava al polso.

    Lei gli fece cenno di prenderla. – Apri tu, ma senza fare movimenti bruschi.

    – Ti ho detto che non hai nulla da temere.

    Lei fece una smorfia e non disse nulla.

    Lui fece spallucce, aprì il baule, riapparve con una ventiquattrore di alluminio e gliela porse con calma, senza nascondere le mani.

    – Aprila tu – disse lei.

    Lui sorrise. – Come ti ho già detto, se avessero voluto ucciderti saresti già morta.

    Lei si strinse nelle spalle e fece una smorfia. – Non mi fido di loro. Non mi fido di te. Non mi fido di nessuno.

    Lui sghignazzò. – Come vuoi.

    Lei sbuffò. Quell’uomo era sempre il solito leccapiedi sornione, pronto al peggior tradimento pur di soddisfare il potente di turno. In più era un uomo senza carattere. Sua madre diceva sempre che non ci si poteva fidare di una persona senza carattere, perché era pronta a tradirti alla prima occasione.

    Lermov aprì la valigetta e vedendo quello che c’era dentro fece una smorfia di ammirazione. La girò verso di lei tenendola contro il petto come fosse un'icona vecchia di secoli dipinta dal famoso Andrej Rublëv. Lei vide che conteneva banconote, come lui aveva detto, e sopra c’erano un telefono satellitare e una busta. Il telefono si mise a squillare proprio in quel momento.

    Prima di prendere il satellitare, lei lo studiò per capire se non fosse stato spruzzato con qualche gelatina impregnata di VX o del più recente Novichok A234, memore delle abitudini dei suoi colleghi russi per spedire i traditori al creatore. Ma poi comprese che sarebbe stata una sciocchezza: Lermov aveva ragione, avrebbero potuto ucciderla con facilità in ogni momento, se avessero voluto. Portò il cellulare all’orecchio e premette il pulsante di ricevimento chiamata.

    Lermov, nel frattempo, aveva chiuso la valigetta, l’aveva appoggiata a terra ed era indietreggiato di qualche passo, per farle capire che non aveva nulla da temere da parte sua.

    Io sono solo un semplice emissario, lesse lei sulla sua faccia porcina.

    – Buongiorno, Mattino9aMosca. Guarda il signor Lermov, per favore – disse una voce familiare attraverso il microfono del satellitare.

    Lei guardò l'infame, che continuava a tirare dalla sigaretta che stringeva tra le labbra. La testa di Lermov per un attimo parve gonfiarsi, poi esplose in una fiammata di carne, ossa e liquidi in tutte le direzioni, come se fosse scoppiata dall’interno.

    Lermov era stato ucciso da un colpo penetrato nella tempia sinistra con un suono simile a un risucchio fangoso preceduto dal rumore secco, familiare, di un fucile Zastava M93 Black Arrow calibro 50 BMG.

    Un attimo prima che succedesse, lei aveva visto gli occhi di Lermov diventare grandi come palloni e dentro vi aveva letto un mare di incredulità.

    Lei si buttò dietro l’auto guardandosi attorno e cercando di individuare il cecchino.

    La voce nel telefono continuò: – Non preoccuparti, non vogliamo spararti. Questo per dimostrarti che abbiamo sempre saputo chi era il traditore. Adesso sei disposta ad ascoltarmi?

    – Che proiettile avete usato?

    – Un proiettile esplosivo depotenziato Raufoss NM140 MP. L’aver ucciso quell’individuo davanti ai tuoi occhi ti basta come prova di fiducia? E il fatto che stai respirando ancora non ti basta? Sai che potremmo ucciderti in qualunque momento, ora che ti abbiamo trovato.

    Lei deglutì, perché aveva già sentito quella voce, ma non riusciva a crederci, perché era la voce di un fantasma. Un dubbio atroce le attraversò il cervello come il proiettile che aveva ucciso Lermov.

    – Belkin…?

    Lui rise. – Pensavi di avermi ucciso a Londra, vero? Ci sei quasi riuscita, ma io sono così brutto che quando il diavolo mi ha visto mi ha risputato fuori come un pallino di piombo finito sotto ai denti per sbaglio. Non ti porto nessun rancore. Ti ripeto di nuovo che se avessi voluto ucciderti saresti al posto di Lermov, adesso.

    Lei fece una smorfia. – Non mi hai ucciso, perché sai che ho preso le mie precauzioni. Se mi succede qualcosa, quello che mi hai detto a Londra, trascritto per filo e per segno fino all’ultima parola, arriverebbe in un battibaleno sulle scrivanie dei tuoi vicini di poltrona. Colleghi che non vedono l’ora di salire di grado facendoti le scarpe, grazie a quello che io potrei offrirgli.

    Sentì che aveva colpito nel segno, perché l’uomo indugiò qualche attimo prima di replicare.

    – Stai bluffando. So che non avresti il coraggio di tradire la Russia, altrimenti lo avresti già fatto.

    – È la mia assicurazione sulla vita. Tu o i tuoi scagnozzi non potete uccidermi per quello che so, e se gli americani mi trovano, con quello che so su di te mi offriranno l’immunità.

    – E perché sei scappata da loro con quello che sai? Questo mi rincuora, vuol dire che ami ancora la vecchia santa madre Russia.

    – Vaffanculo, stronzo, cosa vuoi da me? – Urlò lei.

    Lui fece di nuovo quel suo solito risolino e sibilò: – Ho capito che sei molto astuta, piccola cecena, ma stai attenta, perché la tua fortuna potrebbe finire ben presto.

    – Allora, cos'hai da dirmi? – tagliò corto lei.

    – Intanto alzati, carica nel baule quella immondizia sforacchiata, parti e poi richiamami – disse Belkin e riagganciò.

    Lei guardò il satellitare, lo mise in tasca, si guardò intorno cercando ancora di capire da dove poteva aver sparato il cecchino. Poi sospirò. Era un esercizio inutile e pericoloso. Raccolse la valigetta con i soldi, l'appoggiò sul sedile del passeggero davanti, poi girò intorno a Lermov, facendo attenzione a non mettere i piedi nel sangue e nella materia cerebrale che era uscita dalla testa dell’uomo. Le venne da vomitare. L’odore di carne, ossa e cervella bruciate era intenso e nauseante e lei non ci era più abituata. Si coprì bocca e naso con il collo alto del maglione che indossava sotto la felpa e lo trascinò fino al baule dell’auto, ancora spalancato. Caricarlo senza sporcarsi fu laborioso, ma alla fine ci riuscì. Notò che sul fondo del baule qualcuno aveva già steso un foglio di nylon, attaccandolo lungo tutto il perimetro con del nastro adesivo. Un lavoro preciso, fatto con grande cura. Arricciò la bocca in una smorfia. Ecco perché Lermov aveva fatto quella smorfia di sorpresa quando il proiettile gli era entrato in testa. Doveva aver steso lui quel foglio nel baule, magari gli avevano anche spiegato con cosa l’avrebbero colpita.

    Prima di chiudere il baule, guardò se c’era qualcos’altro da infilarci dentro. Scorse qualcosa che luccicava sul bordo del marciapiede, si chinò e vide che era l’accendino d’oro di Lermov. Un Dupont francese in oro massiccio. Lo fece scattare. Funzionava. Si strinse nelle spalle e lo

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