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Il male degli avi
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E-book642 pagine9 ore

Il male degli avi

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Info su questo ebook

In un tempo lontano, Lios, la dea madre, delusa dall’uomo e dai suoi soprusi, sterminò la razza umana salvando solo sette popoli.
I sopravvissuti evolsero le proprie conoscenze in arti di vario tipo, per onorarla. Gli Elit, grazie alla rimozione delle emozioni negative, dominano la natura che li circonda in pace e armonia.
È tra di loro che vive Mizar, il primo che viene meno a questi insegnamenti. È irascibile, scontroso e in eterno conflitto con se stesso; nulla può contro la sua parte più oscura.
In tutto il mondo, intanto, prende vita una macabra consapevolezza: i bambini stanno nascendo senza anima. È la silenziosa maledizione di Lios per mettere fine alla razza umana.
Da qui inizia un viaggio obbligato di dominio e conquista, che porterà Mizar, assieme al suo amico Roku e alla giovane guerriera Kaila, a capire chi ha tradito la fiducia della dea, firmando la condanna dell’umanità.
Una battaglia combattuta nel turbinio delle emozioni, perché la vera guerra per stabilire l’ordine, spesso, è dentro di noi. Il male degli avi non ha ancora vinto.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788833170428
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    Anteprima del libro

    Il male degli avi - Giorgia Staiano

    Prefazione dell’autrice

    Il libro che tenete tra le mani non vuole essere solo un romanzo di intrattenimento, anche se, mi pare ovvio, spero che vi divertirete a leggerlo. La storia che racchiude tra le sue pagine ha un significato e, che voi abbiate dieci o cent’anni non ha importanza, spero che questo libro possa parlare al vostro cuore, mostrandovi qualcosa che sono certa sarà diversa per ogni lettore.

    Il mondo in cui è ambientato lo conoscete, osservando la cartina che precede questa pagina capirete di averlo osservato milioni di volte. I popoli che lo abitano poi sono ispirati a usi e costumi di molti che popolano questa terra. Ma di questo mondo, come del nostro, non si può sapere tutto.

    Io stessa che l’ho creato a volte mi ci perdo e ne scopro nuove sfaccettature. Di sicuro vi capiterà di volerne sapere di più, qualche descrizione forse sarà breve e concisa, come anche alcuni passaggi potrete trovarli veloci e non sempre spiegati nei minimi dettagli. Ma questo non è perché io voglio essere parca di dettagli, per quanto l’editrice ne sarebbe più felice, ma perché essendo una storia per lo più raccontata da un unico punto di vista, spesso il protagonista non sa più di quello che gli sta succedendo.

    In lui sappiate che ci sta molto di me e, sebbene ormai sia una donna adulta, ho iniziato la storia del Il Male degli Avi ormai dieci anni fa, quando ero poco più che adolescente. Le emozioni di cui leggerete, il percorso emotivo, le difficoltà di comprensione e di accettazione, altro non sono che una trasposizione di un vissuto molto personale.

    Anche io come il protagonista non so tutto del mondo che mi circonda, e spesso non riesco a comprendere al meglio ogni situazione, perciò citando Shakespeare: Se farete tanto di prestarvi orecchio paziente, tutto quello che ad essa manchi cercherà di rimediarlo il nostro zelo.

    In altre parole, nonostante tutto il mio impegno e le attenzioni dedicate a queste pagine, spero che sia la vostra fantasia ad arricchire questo mondo, a renderlo vostro, a colmare, se ci saranno, alcune lacune. Questo mondo è stato mio per tanti anni, e ora che lo state stringendo tra le mani, in qualche modo vi appartiene. E per chi, come me, non avrebbe mai potuto desiderare altro che scrivere le proprie storie, è un onore immenso poterlo condividere.

    Siate coraggiosi, e mettete del vostro in ogni cosa, non solo in questa lettura, ma nella vita! E il mondo che vi circonda e le avventure in cui vi troverete coinvolti, vi assomiglieranno facendovi da specchio. A volte sarà terribile, altre ancora vi permetterà di provare una gioia mai neanche immaginata, e di certo sarà un mondo che vi assomiglierà diventando, quindi, meraviglioso.

    Vi auguro una buona lettura.

    Giorgia Staiano

    Parte I

    Oltre i confini

    1

    Devo stare calmo, Mizar cominciava a innervosirsi. Adesso sentiva persino la sua voce nella testa: Rilassati, diceva.

    Era l’alba e, come tutte le mattine negli ultimi mesi, si trovava in riva al lago. Il sole non era ancora spuntato, l’aria fredda lo rinvigoriva. Con gli occhi chiusi, il nero era l’unico colore che riusciva a distinguere. Rilassati. Annulla la tua coscienza. Non sei tu. Sei solo una parte. La sua voce lo guidava nella meditazione, ripetendo le frasi che gli avevano insegnato negli anni di addestramento. Devi perdere consapevolezza del tuo corpo e percepire ciò che ti circonda. L’acqua non è semplice acqua, se ti soffermi puoi sentirne la forza e l’energia.

    Mizar cominciava a notare che il buio, che fino a poco prima riempiva la sua visione, pian piano iniziava a scemare e una serie di armoniose forme azzurre comparivano davanti ai suoi occhi disegnando morbide linee, rincorrendosi come fasci di luce giocosa. Perfetto, pensò ottimista, sto andando bene, sento l’anima del lago! Non devo distrarmi. Ma era già troppo tardi, i disegni azzurri e sinuosi che l’avevano rasserenato erano spariti e il nero dominava di nuovo.

    Una sensazione strana tornava a manifestarsi alla bocca dello stomaco. La conosceva sin troppo bene e negli anni aveva capito che gli anziani la chiamavano Rabbia o Ira. Qualunque fosse il suo nome, era un’emozione proibita.

    Fino a pochi istanti prima era rilassato e con la mente concentrata sul lago; ora riusciva solo a sentire il suo corpo e quanto ogni singolo muscolo fosse contratto. Sapeva di aver fallito, anche questa volta.

    Aprì gli occhi. Davanti a sé il panorama era bellissimo. I tenui colori dell’alba, le acque smosse solo da una lieve brezza, la superficie del lago ricoperta da una nebbiolina, mentre l’erba l’avvolgeva come una morbida coperta. Mizar si alzò di scatto, se avesse dato retta al suo istinto avrebbe lanciato sassi, preso a calci l’acqua e tutto ciò che lo circondava, avrebbe gridato verso quel maledetto lago che non gli si rivelava. Ma non lo fece. La sua formazione gli impediva di lasciarsi sopraffare dalle emozioni proibite e lo aveva obbligato negli anni a mantenere, almeno in apparenza, il controllo.

    «Maledetto!», sussurrò a se stesso. Si avvicinò alla riva e si inginocchiò per bere. La superficie limpida gli restituì il suo riflesso. I capelli neri gli incorniciavano il viso ormai maturo, una sottile penombra di barba gli scuriva la mandibola e gli conferiva un’aria severa e cupa. Gli occhi allungati e di un nero intenso lo fissavano con rabbia; nel suo sguardo leggeva delusione e amarezza. L’incapacità di estirpare dalla sua vita le emozioni proibite lo aveva condotto a essere l’unico del suo popolo, nonostante avesse compiuto vent’anni, a non padroneggiare l’Ighnis. Non era in grado di sfruttare l’antica arte con cui gli esseri umani espandevano la propria coscienza per entrare in contatto con l’anima di ogni altro essere vivente.

    E di lì a due giorni, avrebbe dovuto affrontare il Sifun, il momento in cui ogni membro della comunità Elit dimostrava di saper padroneggiare l’Ighnis.

    Da tempo conviveva con la paura del fallimento.

    Solo due persone condividevano con lui questo segreto: Roku, il suo migliore e unico amico, e la persona a lui più cara, l’anziana Manà.

    Per questo era costretto a esercitarsi in orari e luoghi in cui nessuno avrebbe potuto vederlo e per lui questa diversità, questo enorme limite, erano il tormento più grande.

    Il riflesso della luce negli occhi lo fece distrarre dalla moltitudine di pensieri. Si rese conto che il sole era già abbastanza alto da specchiarsi nel lago e decise di tornare ad Amirit, la sua città.

    Dopo circa un’ora di cammino a passo svelto tra radure e boschetti, arrivò in cima alla collina che separava il lago da Amirit. Il luogo che Mizar amava di più. Dopo una ripida salita, riprese fiato all’ombra di una grande quercia, da dove poteva ammirare tutta la città e gustare quei pochi minuti di solitudine.

    Il panorama era straordinario e, per quante volte lo avesse visto, continuava sempre a stupirlo: una montagna enorme, custodita da una grande catena montuosa che si erigeva alle sue spalle, la cui punta si avvicinava più di qualunque altra cosa al confine del cielo. Alla sua base un’antica porta in roccia, ai cui lati vi erano due maestose colonne. I rilievi scolpiti su di esse, con le morbide curve e i ricami dorati, rilucevano sotto il sole. Su quelle colonne, era scolpita la storia del mondo e anche da quella distanza riusciva a scorgere alcuni motivi dorati che dividevano le diverse scene.

    Amirit era divisa in due parti, la più antica sorgeva all’interno della montagna e vi erano gli edifici originari in disuso da centinaia di anni, mentre la parte nuova si espandeva per tutta la vallata sotto l’enorme montagna.

    Da quell’altezza, il ragazzo riusciva a distinguere la scuola e i dormitori. Percepiva i movimenti delle persone per le strade nella città. Case e abitazioni, costruite in pietra e legno, erano solide e rustiche, erette con il benestare della Terra.

    Rimase a sospirare e riflettere, guardando quella grande città. Conosceva bene la parte nuova, mentre l’accesso a quella più antica era concesso solo agli anziani e ai giovani che affrontavano il Sifun.

    Sebbene ogni più piccola fibra del suo corpo gli chiedesse di non farlo, si incamminò ed entrò in città. Lo sguardo torvo e basso, il cappuccio del mantello sulla testa e i capelli che gli ondeggiavano sul collo e sul volto quasi a nasconderlo; questa era la sua andatura normale. Mentre la gente si salutava allegra e scambiava convenevoli, lui tirava dritto per la sua strada pregando che nessuno gli parlasse per qualche futile motivo.

    Decise di non tornare subito al dormitorio. Con ogni probabilità, dato l’avvicinarsi del giorno del Sifun, tutti i suoi coetanei si stavano esercitando; i loro successi lo avrebbero turbato ancora di più.

    Decise quindi di andare nell’unico posto dove poteva essere se stesso, la casa dalla vecchia Manà. Sempre a testa bassa, si mosse deciso, consapevole degli sguardi della gente su di sé.

    La casa di Manà si trovava poco distante dal centro, lungo il sentiero che conduceva alla cima della montagna. Vide una coppia che, con aria furtiva, camminava a passo svelto. La donna teneva stretto a sé un neonato avvolto da alcune coperte. L’uomo, forse il padre del bambino, aveva uno sguardo cupo, mentre la madre singhiozzava cercando di non farsi sentire. Nel passargli accanto, l’uomo urtò la spalla di Mizar, che si voltò per fare un inchino in segno di scuse, com’era consuetudine. Il ragazzo aspettò lo stesso gesto dall’uomo, ma non arrivò e la coppia si allontanò fino a sparire tra le case della città.

    Mizar rimase perplesso. Era la prima volta che qualcuno non rispettava le rigide regole di comportamento. Con un’alzata di spalle, riprese il suo cammino. Quella coppia lo insospettiva, il fare scontroso e le lacrime non erano atteggiamenti consueti per gli Elit.

    Forse, si disse, doveva essere successo qualcosa di grave al piccolo. Cercò di non pensarci, ma era scosso. Dalle sue parti era raro vedere una madre con un bambino in braccio, per gli Elit i figli erano un bene comune e per questo di rado vi era un contatto diretto fra loro e i genitori.

    I bambini potevano conoscere le loro identità solo se lo richiedevano a chiare lettere e, anche in quel caso, potevano frequentare le famiglie solo nei momenti di riposo. Per il resto, con gioia i figli erano gestiti e considerati tali da tutto il popolo. Anche in caso di morte di un bambino, i genitori trovavano serenità nella consapevolezza che la sua anima era di nuovo parte del Tutto. Mizar non sapeva chi fossero i suoi genitori, e non gliene importava, lui aveva la sua Manà.

    Ricordava bene il giorno in cui l’aveva incontrata per la prima volta. Aveva sei anni. A quell’età la maggior parte dei bambini aveva quasi imparato a gestire del tutto le emozioni negative. Potevano esserci piccole liti durante l’infanzia, ma tutti sapevano che qualsiasi altra emozione diversa dall’amore e dalla comprensione era da rimuovere.

    Più avanti, nel tempo, con lo studio e la meditazione, ogni membro degli Elit avrebbe imparato. A sedici anni, nessun Elit era più in grado di provare alcuna emozione proibita.

    Quando conobbe la midcoth Manà, la guaritrice più anziana del villaggio, Mizar era sempre stato il bambino più forte e difficile in ogni gruppo di cui aveva fatto parte. Al contrario degli altri bambini, che sembravano sempre sereni, lui si svegliava spesso con un nodo allo stomaco e il cocente desiderio di sfogare la sua energia. Per questo spesso cercava il confronto.

    A chiunque gli chiedesse un gioco o un favore, lui rispondeva con un secco no, nella speranza che l’altro reagisse male per poter litigare, ma spesso si sentiva rispondere: «Non ti preoccupare, grazie comunque», e questo lo faceva innervosire ancora di più.

    Quel giorno di tanti anni prima, però, le sue preghiere furono esaudite. Un bambino biondo dal viso dolce di nome Roku, di due palmi più alto di lui, gli si avvicinò per chiedergli la palla con cui stava giocando; al solito la risposta fu no. Questa volta, però, il bambino gli strappò con forza la palla dalle mani e gli voltò le spalle. Mosso da un arcobaleno di emozioni e con una forte energia nel corpo, Mizar lesse in quel gesto un segnale. Poteva reagire! Gli saltò alle spalle, lo afferrò al collo e, nel giro di pochi secondi, i due ragazzini erano per terra a picchiarsi urlando. Lo scontro ebbe fine per il tempestivo intervento delle educatrici.

    Mizar era ridotto male, con un dente rotto e il naso che sanguinava, ma il suo sguardo era colmo di gioia e una sensazione di pace e benessere cominciava ad espandersi alla base della nuca. Il suo avversario, sebbene non avesse neanche una ferita, aveva gli occhi bassi e singhiozzava, nello sguardo c’erano pentimento e frustrazione; il senso di colpa gli fece gridare: «Scusatemi tutti, scusa Mizar, perdonami ti prego!».

    L’altro rimase basito e si chiese perché Roku stesse così male, mentre lui si sentiva così bene. Di cosa avrebbe dovuto sentirsi in colpa?

    Per rimettergli a posto il dente, le educatrici lo portarono dall’anziana signora che viveva dietro la montagna, Manà. Solo pochi bambini c’erano stati e, dopo l’incontro con lei, tornavano come nuovi. Mizar si ricordava ancora bene la forte sensazione che provò quando vide la donna sulla veranda di quella vecchia casa. Capelli lunghi, raccolti in una treccia biondo grano, opacizzati da qualche filo bianco, il corpo esile e lo sguardo fiero. Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi. Di un marrone chiaro, lucidi e limpidi come un vento fresco, colmi di quella serenità che lo fece sentire tranquillo, non appena lei gli mise le mani sulle spalle.

    Quel giorno Manà lo fece stendere sul letto, chiedendogli di chiudere gli occhi. Mizar si ricordò solo che vide davanti a sé dei fasci di luce del colore delle pesche, caldi e morbidi ghirigori gli saltellavano davanti agli occhi e la signora che gli chiedeva se potesse entrare. Pur non capendo, il ragazzo era animato dal solo desiderio che tutte le immagini nella sua testa continuassero, e rispose di sì. A quel punto, un forte calore si generò dal dente rotto e dal naso. Poco dopo il calore passò e lui si sentì benissimo, pieno di energie e pronto per altre risse. Aprì gli occhi. Manà era seduta accanto a lui e sorrideva.

    «Come ti senti?».

    «Bene», rispose Mizar, «Ma che mi hai fatto?». Si toccò d’istinto il dente. «Sono guarito! Come hai fatto?».

    Manà continuava a sorridere con tenerezza: «Quando sarai grande, se sarai bravo imparerai anche tu!».

    Mizar continuava a toccarsi il viso con aria incredula. «Ma allora è vero che sai usare la magia?».

    Manà scoppiò a ridere, gli mise le mani sulle spalle e lo accompagnò alla porta, l’educatrice lo stava aspettando fuori. «Fai il bravo Mizar, va bene?». Con questo saluto lo congedò, dandogli una piccola spinta per invogliarlo a scendere le scale.

    Senza rispondere e, rifiutandosi di fare l’inchino di saluto, lui le voltò le spalle, dopo averle lanciato lo sguardo più determinato e imbronciato di cui fosse capace. Solo quando lei non poteva più vederlo, al posto del broncio comparve un ghigno di soddisfazione. Adesso sapeva dove avrebbe voluto vivere!

    Quella fu la prima di tante altre volte. Nei successivi due anni, Mizar peggiorò la sua reputazione. La gioia della ribellione si alternava al profondo dolore per l’esclusione che ne derivava.

    Una notte, dopo l’ennesima giornata trascorsa in solitudine, nonostante la pioggia battente, sgattaiolò giù dalla finestra, deciso ad andare nell’unico posto dove si fosse mai sentito accolto e accettato, dove non si era mai sentito diverso.

    Quando Manà gli aprì la porta, aveva l’aria spaventata. Mizar, bagnato fradicio, nell’istante in cui la vide scoppiò a piangere. Lei non disse nulla, uscì sulla veranda e lo abbracciò forte, avvolgendo il suo volto nel petto.

    Manà parlò con gli insegnanti e con il saggio Barius; da quel giorno, a Mizar sarebbe stato concesso di andare a trovare l’anziana tutte le volte che voleva e lei si impegnava a tenerlo con sé.

    E così, dodici anni dopo quella notte piovosa, in un momento di difficoltà e smarrimento, Mizar stava andando dalla sua più cara amica. Camminava sommerso dai ricordi, ma al suo arrivo rimase stupito.

    Un gruppo di dieci persone stava salutando Manà, i volti tristi e i capi chini. A uno sguardo più attento, il ragazzo si accorse che erano cinque coppie. Le donne si tenevano strette ai loro uomini, qualcuna piangeva, altre erano pallide e sudate, terrorizzate, come i loro compagni. Mizar ripensò alla coppia incontrata poco prima. Doveva essere accaduto qualcosa di strano. Appena il gruppo si fu allontanato, entrò in casa senza bussare, come al suo solito.

    «Manà sono io! Dove sei?».

    Nessuna risposta.

    Mizar cominciò a girare per quel salone così familiare. Il legno rendeva l’ambiente caldo e accogliente, ogni stanza era piena di oggetti, scaffali traboccanti di libri, stoffe colorate appese ai muri, un ampio caminetto sempre acceso e un comodo letto in paglia, dove aveva dormito innumerevoli volte.

    Manà non rispondeva. Mizar decise di entrare nella stanza da letto, anche se sapeva che di solito lei non vi trascorreva mai il tempo durante il giorno. La porta era chiusa. Lui bussò. «Sono io… posso entrare?». Appoggiò l’orecchio alla porta e sentì dei singhiozzi. Senza pensarci, l’aprì di scatto e vide l’anziana che piangeva, piegata su una culla.

    Il cuore di Mizar ebbe un sussulto. Mai in tutti quegli anni l’aveva vista piangere. Qualche volta era stata malata o triste, ma non aveva mai pianto. Mizar si irrigidì; vedere quella donna, scossa dai singulti, gli strinse il cuore e, come se ad ogni passo spostasse centinaia di chili, le si avvicinò, si inginocchiò accanto a lei e le mise una mano sulla schiena.

    «Manà, che succede? Dimmi!». Lei alzò lo sguardo, il viso rivelava tutti i segni del tempo e le lacrime accentuavano quelle piccole rughe, che di solito erano nascoste dal sorriso. Aveva un’aria stanca e stravolta. Lo strinse forte, come mai in tanti anni aveva fatto.

    «Oh Mizar, siamo perduti», sibilò tra i singhiozzi. «Dove abbiamo sbagliato?».

    Lui l’abbracciò ancora più forte.

    «Perduti? Che vuoi dire?». Ma era presto per fare domande, il pianto andava accolto, doveva dimostrare di essere all’altezza degli insegnamenti che aveva ricevuto e aiutare Manà a ritrovare il suo equilibrio. La lasciò sfogare e, dopo poco, il pianto diminuì, i singhiozzi divennero lenti respiri, finché lei non fu pronta a staccarsi dall’abbraccio.

    Lo guardò negli occhi, era più tranquilla. Gli accarezzò il viso come solo una madre poteva fare, le mani magre e nodose mostravano i segni del tanto lavoro. Solo allora Mizar si accorse che dentro la culla c’era una neonata. La piccola era sdraiata supina, le mani e le gambette raccolte, respirava tranquilla e non emetteva suoni. Quando la guardò, il cuore e la mente si fermarono.

    Gli occhi della bambina, spalancati e fissi, erano vacui, opachi, grigi come il fumo e senza l’iride. La piccola non si muoveva.

    Manà si alzò di scatto, prese Mizar per mano e lo portò davanti al fuoco acceso nell’altra stanza. Cominciò a preparare un infuso, continuando a tirare su col naso.

    «Piangi per lei?». L’osservava mentre era intenta a mescolare fiori secchi, da anni ormai era molto più bassa di lui.

    «Sì».

    «Ma… non è morta, sta respirando, è forse cieca?». Mizar sentì lo sguardo della donna su di sé.

    «Ti sembra che io possa piangere per una bambina cieca? Cercherei di guarirla, piuttosto!».

    «Che cos’ha allora? Perché i suoi occhi sono bianchi?».

    «È quello che non capiamo, Mizar. Da diversi anni, ormai, stanno nascendo bambini così. Sono sani, il loro corpo sta bene, svolgono le normali attività fisiologiche, ma è come se non fossero… vivi!».

    «Cosa intendi?». Lo sguardo del ragazzo era rapito da Manà, ma lei continuava a pensare alla bambina nella culla.

    «Vuol dire che mangiano e dormono, il loro fisico cresce per un po’, ma non hanno volizione, è come se…». L’anziana si interruppe, era in cerca di parole che non voleva pronunciare.

    «Come se?», incalzò l’altro.

    «Come se… non avessero l’anima!».

    Mizar era scioccato, mentre gli occhi di Manà si stavano riempiendo di nuovo di lacrime.

    «Come senza anima, com’è possibile?».

    «Non farmi domande, non lo so. Centinaia di coppie hanno portato da me i loro figli chiedendo di salvarli o guarirli. All’inizio pensavo fosse una malformazione, poi con l’aumentare dei casi, ho pensato a una malattia, però… quando cerco di espandere la mia coscienza e di toccare la loro, io non trovo niente!». Nuove lacrime le solcavano il viso.

    «Non è possibile!».

    «Tu sai bene che quando guarisco le persone, entro in contatto con il loro spirito. Un neonato normale, seppur malato, ha una coscienza forte che si avverte subito, è un’energia pura e sfavillante. Questi bambini non hanno alcun tipo di energia, è come se non avessero l’istinto alla vita!»

    Mizar era senza parole. La donna, con gesti svelti, aveva preparato l’infuso e gliene aveva dato una tazza, ora erano seduti vicini a sorseggiarlo. Il ragazzo non l’aveva mai vista così stanca. «Perché non ti riposi?».

    Lei, lo guardò con dolcezza. «Magari potessi, caro, ma devo correre da Barius per aggiornarlo su questo nuovo caso».

    «Posso aiutarti in qualche modo?», Mizar sperava di poter soffocare il dolore che provava per lei aiutandola, ma la donna scosse la testa e portò il bicchiere alle labbra. «Piuttosto dovresti esercitarti! Come vanno le prove al lago? Sei riuscito a stabilire un contatto?»

    Per poco non gli andò di traverso un sorso. «Diciamo che potrebbe andare meglio».

    Mizar non ce la fece a sostenere il suo sguardo. Se, con tutto il resto del mondo era il cattivo da tenere isolato, con Manà si sentiva sempre come un bambino di otto anni sotto la pioggia.

    «Allora», incalzò lei, «forse potresti esercitarti di più!»

    «Ma Manà, io…»,

    «Niente scuse», disse severa. «Oggi, più che mai, il destino del nostro popolo dipende da questo», lo guardò con durezza e Mizar non ebbe il coraggio di ribattere. «Ora vai, ci vediamo più tardi».

    La salutò con gentilezza, cercando di non aggiungere ulteriori preoccupazioni ai pensieri della donna e si diresse al dormitorio. Era andato da Manà per cercare conforto ma, per la prima volta da quando la conosceva, andava via ancora più preoccupato e con la sensazione che qualcosa di grave stesse per accadere.

    2

    Il senso di incertezza gli attanagliava lo stomaco, la voce di Manà gli risuonava nella mente come un’eco lontana. Mizar doveva trovare Roku, desiderava confrontarsi con lui, raccontargli quanto aveva appena visto. Corse attraverso la città per arrivare al dormitorio, una grande struttura circolare in pietra e vetro, contornata da boschi e prati lussureggianti. Qui vivevano i giovani Elit fino al giorno del Sifun.

    L’edificio era arricchito da piante enormi con fiori di mille colori che si ergevano da tutte le parti; ragazzi e ragazze, arrampicati su esse, si esercitavano nell’arte del contatto, ciascuno a modo suo.

    C’era chi stava inginocchiato a occhi chiusi davanti a qualcosa, che all’improvviso si animava, chi era seduto su un ramo e faceva muovere l’acqua in una brocca, chi sfiorava un bocciolo e in un attimo quello si apriva rispondendo alla sua richiesta. Tutti avevano gli occhi chiusi e il silenzio si alternava alle risate degli studenti, che si complimentavano tra di loro per i risultati.

    E poi c’erano dei bambini che, uniti in un piccolo gruppo, osservavano emozionati un ragazzo. Mizar era sicuro che fosse Roku. Era sempre stato il più bravo, distinguendosi fin dall’infanzia.

    Roku era anche diventato un punto di riferimento per tutti i suoi compagni. Era alto, ancora oggi superava Mizar di un paio di palmi, aveva i capelli corti biondo scuro e gli occhi grandi marroni. I suoi lineamenti, non perfetti, erano comunque armonici, il naso aveva una leggera gobba che gli donava un volto fiero e pulito. Lo sguardo dolce e i modi eleganti erano il suo segno distintivo, tutti nella comunità lo conoscevano e lo ammiravano perché riusciva sempre a gestire le situazioni più complicate. Era anche molto portato nelle arti di contatto, l’unico che sapesse padroneggiare l’Ighnis anche a occhi aperti e con una tale naturalezza da superare quasi tutti insegnanti.

    Mizar trovò l’amico appoggiato ad un albero. Si avvicinò al gruppo, cercando di non mostrare l’agitazione che lo stava dominando. I bambini lo notarono subito e si scansarono per lasciarlo passare; avevano tutti timore del suo sguardo torvo e dei suoi modi bruschi.

    Roku stava tenendo un piccolo spettacolo, facendo assumere ai rami dell’albero forme diverse, su richiesta. In pochi secondi un ramo prendeva le sembianze di un cane, una rondine, un fiore e un pesce.

    Un bimbo piccolo, che non si era accorto del silenzio che era calato attorno a sé, continuava entusiasta a gridare: «Fai una rana, dai, una rana!»; poi si guardò intorno, alzò lo sguardo e vide Mizar che lo fissava serio, fece per scansarsi impaurito, ma inciampò cadendo su se stesso.

    Mizar lo prese al volo, evitandogli la caduta e lo rimise in piedi. La folla cominciò a bisbigliare, stupita nel vederlo compiere un gesto gentile.

    Roku lo guardò con un mezzo sorriso, il bimbo aveva un’espressione sbigottita, come se lo avesse appena afferrato un mostro, ma senza mangiarlo.

    «Vuoi una rana?».

    Il bimbetto riportò la sua attenzione su Roku, annuendo.

    Il ragazzo guardò i rami, che presero la forma di una rana gigante. La folla applaudì e riprese a chiacchierare tranquilla.

    Mizar si avvicinò a Roku con passo svelto.

    «Ti devo parlare». Lo afferrò per un braccio e lo portò via dal gruppo, ma l’amico si divincolò dalla presa.

    «Aspetta!». Si girò verso i bambini per congedarsi con il saluto della comunità; la folla glielo restituì.

    «Ora andiamo».

    Si fermarono in prossimità del bosco, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Mizar si appollaiò su un albero basso e appoggiò la testa al tronco, sospirando.

    «Che succede?». Roku lo guardava seccato e preoccupato allo stesso tempo.

    «Poco fa sono stato da Manà», il ragazzo fece una pausa.

    Roku lo incalzò: «E allora? Sta male? È successo qualcosa?».

    «No, in realtà lei sta bene è che sta succedendo una cosa strana. L’ho trovata che piangeva davanti a una culla, dentro c’era una neonata».

    Mizar fece una pausa e guardò l’amico. «Non immagini gli occhi di questa bambina. Erano vacui, come ricoperti dalla nebbia. Manà mi ha detto che già da anni stanno nascendo bambini così, mangiano e respirano, ma vedi… lei dice che non hanno l’anima».

    Roku era vicino, lo sguardo basso, una mano sul tronco e l’altra dietro al collo. Rimase in silenzio.

    «Non dici niente?».

    L’amico gli voltò le spalle. Mizar sentì il battito del suo cuore accelerare. Gli stava nascondendo qualcosa, Roku non sapeva mentire. «Che hai? Possibile che non rispondi? Ti racconto una cosa simile e tu non hai niente da dire?». Sentì l’ondata di nuove emozioni. «Vuoi rispondermi?!». A questo punto stava urlando.

    «Stai calmo! E non urlare…». La voce di Roku era profonda e seria, svuotata di ogni dolcezza. «So di cosa stai parlando, sto studiando per diventare midcoth e ho già visto questi bambini».

    Mizar rimase per un attimo in silenzio.

    «Ne sono a conoscenza da quando ho iniziato il mio tirocinio. Abbiamo provato in molti modi a guarirli. Anche Barius ha lavorato con noi, senza risultati. Ne sono morti a centinaia».

    «Perché non mi hai detto niente?».

    Roku si girò e fissò l’amico con uno sguardo serio, con una determinazione che Mizar non gli aveva mai visto. «Si tratta di preservare la tranquillità del nostro popolo. Una notizia del genere sconvolgerebbe gli animi di tutta la comunità, per questo dobbiamo evitare di parlarne».

    «Ma come? Non ci dovrebbero essere segreti!».

    «Intanto, non è un segreto, sono già in molti a esserne al corrente. Tutti coloro che hanno procreato, da poco più di quattro anni a questa parte, gli insegnanti e quanti hanno a che fare con i più piccoli. Eppure, stiamo riuscendo a mantenere la calma, altrimenti non procreerebbe più nessuno e, soprattutto, non possiamo rischiare che si diffonda qualche sorta di preoccupazione generalizzata, va bene?». Anche la voce di Roku si stava alzando.

    Mizar scorse negli occhi dell’amico una profonda stanchezza. «Ma avete qualche idea sul perché questi bambini nascano così?».

    «No, non riusciamo a trovarne la causa. Barius è preoccupato, come tutti gli anziani. I guaritori stanno lavorando giorno e notte per il sostegno alle coppie e alle madri, ma a quanto ho potuto capire la ragione di quello che sta accadendo è più grande di noi».

    «E quindi, che facciamo? Non possiamo rimanere con le mani in mano, ad aspettare. Dobbiamo fare qualcosa!». Mizar aveva alzato la voce, i pugni chiusi, lungo il corpo, tremavano.

    Roku lo guardò «E invece no! La cosa più importante è proseguire nella ricerca del Sifun, dimostrare il nostro contatto con gli esseri viventi, purificare le nostre menti e le nostre anime diventando dei veri Elit, è questo il nostro compito, ora».

    Tra i due calò un silenzio pesante, pieno di troppe cose non dette. Mizar sentì una breccia penetrare nella sua corazza, una paura si insinuava come un serpente nella sua mente. «Roku, io non ci riesco. Non riesco a entrare in contatto con niente, sto andando al lago tutte le mattine da mesi e ogni volta fallisco».

    Il ragazzo biondo si sedette sull’erba; l’amico rimase in piedi lì vicino.

    «Tu sei troppo agitato e arrabbiato, sei sempre distratto e nervoso, non ci riuscirai mai fin quando sarai così negativo».

    «Forse non hai capito, io non posso fare altrimenti, non riesco a non provare queste emozioni, per te sarà facile, ma io mi sento scoppiare! Sento come se una parte di me fosse in gabbia». Camminava nervoso avanti e indietro. «Qualcosa qui», indicò con la mano aperta la base del collo, «sta urlando e non può venire fuori. Appena mi rilasso, qualcosa alla bocca dello stomaco comincia ad agitarsi. Non sempre è negativa, anzi, a volte è pura gioia, ma comunque mi distrae».

    Roku sembrò voler intervenire, ma lo fece proseguire.

    «Appena riesco a intravedere delle luci e qualche colore, altre cose invadono la mia testa e tutto si dissolve».

    L’altro sorrise. «Beh, il fatto che tu abbia cominciato a intravedere, è un passo avanti, prima non riuscivi a vedere nemmeno quello».

    Mizar lo fissava furioso. Come faceva Roku a trovare sempre un lato positivo in tutto? Lui si odiava per i suoi fallimenti e l’amico lo lodava per quei risultati nulli.

    «Smettila, non è neanche vicino a un risultato, guarda quello che riesci a fare tu!».

    «Ma io mi guardo! E mi va bene così. Tu invece ti critichi troppo, chiedi sempre troppo a te stesso e ti giudichi ogni secondo. È qui che sbagli». Con quell’ultima affermazione aveva attirato la sua attenzione; ora lo guardava dritto negli occhi. «Quando maturerai la consapevolezza che tu non devi imparare, ma solo renderti conto che già lo sai fare, vedrai che ci riuscirai. Tu sei sempre pronto ad accusarti, ti senti carente e non c’è nulla che ti renda orgoglioso, perché? Sei diverso perché hai tempi diversi rispetto a quelli che hanno tutti gli altri. E allora? Che cosa cambia? Niente! Ti odi perché sei ancora condizionato delle emozioni proibite, ma da questo odio scaturiscono solo altra rabbia e altro odio. Metti un punto. Amati, accettati, guardati per quello che sei».

    Mizar lo ascoltava, non gli aveva mai parlato in modo tanto duro e diretto: «Parli bene, tu. Sei un modello per tutti. Hai vent’anni e già insegni, qualunque cosa tu faccia ti riesce bene, per te è facile accettarti».

    Roku si alzò. «La pensi davvero così? Ti sei mai domandato perché, sebbene io sia perfetto, come dici tu, non abbia altri amici oltre te? Perché mi ostini a migliorare? Eppure, da quello che dici dovrei essere la persona più ben voluta di tutta Amirit, appagato e soddisfatto per quello che sono, ma non è così».

    «Che stai dicendo? Ma se tutti ti lodano e ti cercano».

    «Nessuno va mai oltre questa mia immagine, il nostro popolo non giudica Mizar e non approfondisce, si limita a guardare e accettare ognuno di noi per quello che è ed è sempre stato, per il resto se non sei uguale alla maggioranza, sei tagliato fuori, e tu lo sai bene».

    Roku fece una piccola pausa e proseguì. «Anche io ho molti limiti, magari non a livello accademico, ma a livello personale non sono superiore a nessuno, men che meno a te». Si avvicinò all’amico e lo guardò negli occhi. «Puoi farcela. Il Sifun è dopodomani, passiamo questi due giorni a esercitarci, poi quando sarà passata penseremo al resto».

    I due ragazzi si sentivano vicini, sotto l’ombra degli alberi, uniti come non mai, come quando erano piccoli, nelle diversità e nelle somiglianze. Roku diede una spinta a Mizar.

    «Andiamo, torniamo al lago, lì saremo tranquilli», e si allontanò dando le spalle all’amico. Mizar lo guardò per pochi secondi e sorrise pensando all’affetto per quel ragazzo, che tante volte lo aveva aiutato.

    Trascorsero i successivi due giorni ad allenarsi. Roku faceva meditazione ed esercizi di concentrazione, cercando di guidare con la voce l’amico per non fargli perdere l’attenzione.

    «Ma come ci riesci?», Mizar domandò la sera prima del Sifun. Erano sdraiati sotto le stelle in attesa di dormire, avvolti dai suoni della natura.

    «A far cosa?».

    «Ma sì, voglio dire, cosa vedi? Che c’è oltre i colori?».

    Roku girò la testa verso l’amico, rivolgendogli un’espressione ironica; ne seguì qualche istante di silenzio imbarazzato.

    «Sai bene che a lezione sono distratto», tagliò corto Mizar.

    L’altro cominciò a sghignazzare.

    «Perché ridi?».

    «Niente, niente», rispose, continuando a ridere.

    L’amico fece per colpirlo sulla pancia. In due secondi, Roku si trovò con le mani bloccate senza possibilità di rispondere all’attacco. «Hai vinto. Basta, basta!». Entrambi risero soddisfatti e tornarono a guardare le stelle.

    «Non mi hai più risposto. Che cosa si vede dopo?».

    «È difficile da descrivere; all’inizio riesci a vedere solo il colore dell’essere con cui vuoi entrare in contatto. Sono solo alcuni fasci di luce che, a poco a poco, crescono e si evolvono in disegni luminosi di tante sfumature, si muovono a ritmi diversi seguendo l’anima dell’essere vivente. Un lago è tranquillo e ha disegni morbidi, mentre in genere uno scoiattolo ha tutte linee rette e spigolose».

    Mizar ascoltava cercando di visualizzare. «E poi?».

    «A quel punto significa che hai individuato l’Imiral, l’anima dell’essere, la sua essenza, a cui devi chiedere di entrare. Devi proiettare l’immagine di te stesso e mostrare le tue intenzioni in modo che l’anima possa abbassare le proprie difese e lasciarti accedere, se vuole. Se non sei abbastanza chiaro nell’esprimere il tuo intento, può rifiutarti e interrompere il contatto».

    «E se ti lascia entrare?».

    «Beh, a quel punto tutto diventa involontario, come se volessi muovere una mano o un piede. Ti basta pensare a ciò che vuoi fare e, se l’anima è d’accordo, puoi farlo. In linea di massima questo è valido per la gestione degli elementi, che è più semplice. Con gli animali è diverso, noi ci limitiamo a percepire il loro Imiral e al massimo stabilire un contatto, ma non ci permettiamo mai di dar loro ordini o cercare di fargli fare cose che non siano implicite nella loro stessa natura. Negli animali ci sono volontà e identità personali, difese difficili da abbattere. Ma, soprattutto, è proibito farlo».

    «Perché proibito?», lo incalzò Mizar.

    «Rifletti, cosa succederebbe se un essere umano potesse controllarne un altro? Se eliminasse le sue difese per condizionarne la volontà?».

    Il ragazzo rimase in silenzio, afferrando la pericolosità della cosa.

    Roku proseguì: «Diventerebbe un burattinaio, disponendo della vita altrui. Questo è proibito. Il contatto con un essere vivente, animale o umano, può essere fatto solo in pochi casi: per migliorarne il vissuto, per curarlo o per rafforzare il legame tra uomo e mondo, come nel caso delle esercitazioni. Tranne che per questi motivi, mai e poi mai si possono abbattere le barriere di un altro essere vivente».

    Mizar aveva capito. «Proprio come quando vieni guarito».

    «E funziona così», ribatté l’amico. «Più importante è il danno e più saranno le energie necessarie per porvi rimedio. Con gli elementi è diverso, più semplice gestire qualcosa di circoscritto, come un fiore o dell’acqua».

    L’altro era un po’ confuso, voleva tenere a mente tutto, ma stava già pensando alla vastità dell’Ighnis.

    «Tu per ora limitati a entrare in contatto con il lago o con una pianta, per il Sifun vanno bene entrambe. La maggior parte del gruppo fa piccole cose, quindi puoi farcela. Provaci!».

    Mizar rimase in silenzio sotto il cielo stellato. Quella distesa blu scuro, con tutte le sue infinite luci, lo faceva sentire sempre così piccolo. Poi sorrise beffardo e rispose più a se stesso che all’amico: «No… io domani non ci provo, io domani ci riesco».

    3

    I primi tiepidi raggi di sole illuminarono la riva del lago e Mizar ne avvertì il calore sul viso. Era sdraiato e, ai suoi piedi, c’era la cenere del fuoco acceso la notte precedente.

    Roku non era accanto a lui.

    Si mise a sedere di scatto e, guardandosi intorno, scorse l’amico seduto di spalle sulle sponde del lago. Tre enormi colonne d’acqua, ciascuna alta quanto una casa, si muovevano in armonia sulla superficie. Mizar rimase in silenzio ad ammirare l’opera. Ma lo spettacolo durò solo pochi istanti, le tre colonne ripiegarono su loro stesse, andando a ricongiungersi con la superficie del lago, senza sollevare nemmeno un’onda. Roku si voltò verso l’amico come se sapesse che lo avrebbe trovato a bocca aperta.

    «Beh…», disse Mizar alzandosi, «se il tuo scopo era di farmi partire con ottimismo ci sei riuscito»; il sarcasmo era smorzato da un largo sorriso.

    Il ragazzo biondo gli venne incontro ridendo. «Mi stavo riscaldando, ma diciamo che il Sifun non mi preoccupa». Si mise a raccogliere le coperte del loro piccolo accampamento.

    L’altro era indeciso se ridere o prenderlo a pugni. La sua modestia a volte gli dava proprio sui nervi.

    Finirono di raccogliere le cose in silenzio, entrambi assorti nei loro pensieri, ma nel cuore un po’ dispiaciuti per la fine di quei due giorni di fuga. Si incamminarono verso i dormitori per prepararsi, la cerimonia si sarebbe tenuta quando il sole avrebbe raggiunto il suo punto più alto.

    Mizar rimase sdraiato sul letto a osservare il cielo che cambiava colore, nella camera in cui era cresciuto, respirandone l’aria resa antica e accogliente dal legno scuro, un armadio, il letto al centro, una piccola scrivania e un’infinità di oggetti che raccontavano tutta la sua vita.

    Il disordine regnava sovrano, ma lui riuscì comunque a distinguere ciò a cui era più affezionato: la fionda, una pianta appassita che Roku gli aveva donato per esercitarsi, ma che era morta poco dopo, un fascio di funi che spuntava da dietro l’armadio, amiche fidate delle fughe notturne; e ancora libri di storie, quaderni con i pensieri che annotava quando era piccolo. Tutti preziosi alleati, che tante volte lo avevano salvato dal sentirsi un perfetto estraneo nel suo mondo.

    Fuori dalla stanza sentiva i passi frettolosi e agitati dei suoi compagni, urla, richiami e risate. Sapeva che il suo momento di solitudine non sarebbe durato a lungo. Doveva andare incontro a ciò che più aveva temuto negli ultimi anni, con la mente ai bambini dagli occhi vitrei e senza anima, che lo perseguitavano.

    Poi, il corno suonò per richiamare i ragazzi nel salone centrale e Mizar si mise a sedere sul letto. Prese in mano la morbida e colorata tunica da cerimonia: il rosso dalla base sfumava in arancione per poi passare al giallo all’altezza del ventre, tutta la schiena aveva infinite sfumature di verde fino alle spalle. Il grande cappuccio invece era decorato di azzurro che sfumava nei colori del cielo fino all’indaco della punta. Ogni colore armonizzava la parte del corpo corrispondente, donando la giusta vibrazione.

    Indossò il mantello senza pensare e vide allo specchio un’immagine nuova che non gli risultava familiare; un uomo, dal volto scuro e dallo sguardo fiero che stava andando incontro al suo destino. Vedere poi dall’angolo più nascosto della sala tutti i ragazzi con i quali era cresciuto riuniti e vestiti allo stesso modo gli fece impressione. Ragazzi che si abbracciavano, che si scambiavano vigorose pacche sulle spalle per congratularsi. Per cosa poi?, Mizar pensava tra sé e, di nuovo, il fuoco dell’animo si accese. I suoi coetanei sembravano sereni e felici, forse era questo a innervosirlo ancora di più.

    Quando le porte si aprirono, tutti si misero in fila per muoversi, e lui stette ben attento a confondersi tra la folla. La cerimonia si sarebbe tenuta nella parte più antica di Amirit, dentro la montagna, accessibile solo nel giorno del Sifun, sotto la guida del vecchio Barius. Il percorso era delimitato da luminose fiaccole e i cittadini si tenevano ai lati della strada e si univano in cori di gioia e buon auspicio. Cantando insieme, accompagnati dai tamburi, infondevano forza e coraggio ai loro fratelli e sorelle che stavano per unirsi a loro come Elit.

    Mizar avrebbe voluto fuggire via.

    Quando il corteo arrivò alla grande porta, i canti si intensificarono e i tamburi accelerarono il ritmo. I giovani varcarono la soglia della montagna, dove Barius li attendeva.

    Il ragazzo non aveva avuto occasione di vedere spesso il vecchio saggio; sapeva della sua veneranda età, la vita media del suo popolo era di circa centocinquanta anni e lui doveva esservi vicino. La pelle scurita dal primo sole, gli occhi allungati erano neri e profondi. Le folte sopracciglia gli davano un tono severo, mentre i capelli radi sulle tempie erano raccolti in una lunga coda.

    Da che Mizar aveva memoria, Barius non era mai cambiato, ma in quel momento, conoscendo i recenti avvenimenti, notò che il tempo e le preoccupazioni si erano abbattuti anche su di lui.

    Il canto delle migliaia di persone che li avevano accompagnati diventò profondo e soprannaturale, poco dopo le enormi porte si chiusero, celando i giovani all’interno della montagna.

    A un tratto l’anziano iniziò a parlare, la voce profonda e lo sguardo freddo erano rivolti all’intera platea. «Questo mondo non è nostro, ci è stato dato da coloro che ci precedono per condurlo alle generazioni future, come dono, impegno, missione», il silenzio tra gli spettatori era palpabile.

    «Ci fu un tempo, lontano quasi cinquemila anni, in cui gli uomini si sentivano superiori a tutto. Tra gli Avi aleggiava la convinzione che la Terra fosse di loro proprietà e che potesse essere controllata. Così, per migliaia di anni, annientarono tutto ciò che cresceva su di essa. Dopo millenni di sofferenza, quando il male divenne superiore al bene, la Madre Lios, che fino ad allora si era rivelata attraverso pochi uomini saggi, si mostrò al mondo intero e, l’uomo che tanto si credeva potente e incontrastabile, soccombette sotto la sua ira».

    Barius gesticolava mentre parlava e la sua voce, forte e calda, arrivava al cuore di quei giovani assorti, portando loro la storia degli Avi e del male che essi avevano procurato.

    «Ai più poveri, gli umili, gli esclusi, Lios si rivelò. Essi lessero i suoi segnali ed ebbero l’umiltà di crederle. Così, solo una manciata di popoli lavorò in segreto per centinaia di anni, costruendo, generazione dopo generazione, saldi rifugi nelle montagne. Ignari di quanti stessero facendo altrettanto. È così che nacque la nostra Amirit».

    Le braccia di Barius indicarono la città antica, che si erigeva davanti a loro come una costruzione stupefacente.

    «Nel giorno in cui Lios si ribellò, fuori da quelle poche montagne, non vi fu altro che morte».

    Alcuni ragazzi avevano gli occhi pieni di lacrime, nel ricordare la violenza perpetrata dagli Avi.

    «La Madre parlò ai cuori di tutti coloro che sopravvissero e oggi tramando a voi, nuovi Elit, le sue parole: Io sono Lios, Io sono voi e voi siete me. Ho scelto di donarvi la possibilità di continuare un cammino che chi vi ha preceduto non ha saputo perseguire. Ricordatevi le mie parole, perché mai più verranno ripetute. Sappiate trovare il modo che più vi conviene per rimanere in contatto con me, con l’energia di cui il tutto è fatto. Perdetemi anche solo una volta, e non ci sarà più nessun futuro».

    Barius fece una pausa, aveva il fiato corto.

    «Da quel momento i primi Elit, quei pochi uomini e donne dai quali noi discendiamo, pregarono, studiarono e si esercitarono dentro questa montagna, fino a che non perfezionarono l’Ighnis. Cominciarono a insegnarlo ai loro figli e videro che la terra dava più frutti e che le piante erano più rigogliose. Percepite l’importanza dei nostri comportamenti? Di come anche un solo anello mancante possa spezzare la catena della nostra forza e il contatto con la Madre?».

    Quello che in Mizar era stato dapprima panico, si stava tramutando in disperazione. Roku lo guardò, gli occhi seri e scuri portavano un messaggio all’amico: Non sta parlando di te!, ma Mizar non gli credette. Si accorsero del silenzio di Barius troppo tardi. L’uomo li fissava, richiamando la loro attenzione per proseguire.

    «Seguitemi, figli degli Elit, nel luogo più sacro e antico di Amirit, dove la Madre si rivelò e dove venne affinata l’arte dell’Ighnis. Coraggio dunque, andate incontro al vostro destino».

    Con queste ultime parole, voltò le spalle al suo uditorio e tutti si alzarono e iniziarono a seguirlo in un vociare fitto ed energico, ma non nervoso. Mizar non si sentiva più padrone del suo corpo, era come se il fuoco che sentiva ardere dentro si fosse pietrificato, sentiva le giunture pesanti e rigide, le orecchie fischiare.

    Roku era al suo fianco. Si misero in fila insieme agli altri, Mizar faceva di tutto per nascondersi dentro il cappuccio, avrebbe voluto scomparire. Non parlarono, non ce n’era bisogno.

    4

    L’antica Amirit, situata nel cuore di una montagna, appariva un luogo magico e fuori dal tempo. Davanti ai giovani iniziati erano arroccate migliaia di case, circondate da vie e piazze; tutto era attorniato da una volta splendente, dove la roccia della montagna riluceva calda, riflettendo il calore e la luce tipici di quell’ora del giorno.

    Barius li condusse in una piazza sulla vetta della città e dal promontorio poterono ammirare la surreale estensione dell’antica Amirit, troppo vasta per essere celata dalla roccia.

    L’anziano, stanco e accaldato, disse: «Da questo momento ponete attenzione al cuore e alla mente. Siate protesi a cogliere il Tutto». Intorno a loro, dalle statue al pavimento, vi erano infiniti ornamenti raffiguranti i volti della natura.

    Sul fondo vi era un unico oggetto, una grande statua, di un materiale freddo e cangiante come le perle; era meravigliosa. Il gruppo si immobilizzò nel guardarla, Barius fece un profondo inchino e tutti lo imitarono.

    Mizar vi si avvicinò senza pensare, voleva guardarla da vicino e capire cosa raffigurasse. Era una donna nuda che protendeva le braccia verso il cielo, mantenendo il contatto col terreno florido con le sole punte dei piedi. Dalla terra partiva un vortice d’acqua, che avvolgeva la donna in una spirale, fino a entrare in contatto con le sue mani e, da lì l’acqua si trasformava, diramandosi come un albero in fiore. I rami a loro volta tornavano verso il

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