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Dieci brutali delitti
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E-book465 pagine6 ore

Dieci brutali delitti

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Info su questo ebook

«Tra i migliori libri che abbia mai letto. Impossibile interrompere la lettura.» Stephen King

Una scioccante storia vera

Per oltre dieci anni, un uomo ha compiuto più di cinquanta aggressioni nel nord della California. Successivamente, spostandosi verso sud, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue: dieci omicidi brutali. Nessuno è riuscito a catturarlo, è scomparso nel nulla sottraendosi alle massicce operazioni di polizia in tutta la zona. Trent’anni dopo, Michelle McNamara, una giornalista, ha deciso di indagare per trovare lo psicopatico che lei stessa ha soprannominato il “Golden State Killer”, termine poi adottato anche dalle autorità. Questo libro, pubblicato dopo la sua morte, è una straordinaria testimonianza del lavoro che ha compiuto e offre una prospettiva lucidissima sull’America, attraverso il racconto di tutto l’orrore che una singola mente criminale è stata capace di generare. A emergere è anche il ritratto di una donna e della sua instancabile ricerca della verità. Salutato come un classico moderno del giornalismo d’inchiesta, ha contribuito alla realizzazione del sogno della sua autrice: smascherare il Golden State Killer.

«Ciò che rende questo libro così speciale è che parla di due ossessioni, una chiara e una oscura. Il Golden State Killer è la metà oscura, Michelle McNamara quella chiara. È un viaggio in due menti, una malata e disordinata, l’altra intelligente e determinata. Ho adorato questo libro.»
Stephen King

La storia vera del serial killer che ha terrorizzato la California tra gli anni ’70 e ’80

Vincitore dei Goodreads Choice Awards 2018 per la categoria “nonfiction”

Al primo posto nella classifica del New York Times
Michelle McNamara
È stata una giornalista e scrittrice americana. Per tutta la vita si è occupata di inchieste sulla criminalità. Dieci brutali delitti, pubblicato postumo in lingua originale, racconta le sue indagini sul Golden State Killer, il nome che lei stessa ha dato a uno stupratore e assassino seriale che ha commesso crimini per oltre dieci anni. La HBO ha annunciato di aver acquisito i diritti del libro per un documentario.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2018
ISBN9788822729828
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    Anteprima del libro

    Dieci brutali delitti - MICHELLE McNAMARA

    2248

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: I’ll Be Gone in the Dark

    Copyright © 2018 by Tell Me Productions

    Crime Club reproduced from The Collected Poems of Weldon Kees,

    edited by Donald Justice, by permission of the University of Nebraska Press.

    Copyright 1975, 1962 by the University of Nebraska Press.

    Copyright 1960 by John A. Kees.

    Copyright 1954, 1947, 1943 by Weldon Kees.

    Material covered in I’ll Be Gone in the Dark was featured in the article

    In the Footsteps of a Killer published by Los Angeles magazine.

    Traduzione dall’inglese di Angela Italia Guglielmo

    Prima edizione ebook: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2982-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Michelle McNamara

    Dieci brutali delitti

    Indice

    Personaggi

    Introduzione

    Prologo

    Prima parte

    Irvine, 1981

    Dana Point, 1980

    Hollywood, 2009

    Oak Park

    Sacramento, 1976-1977

    Visalia

    Contea di Orange, 1996

    Irvine, 1986

    Ventura, 1980

    Goleta, 1979

    Goleta, 1981

    Contea di Orange, 2000

    Contra Costa, 1997

    Seconda parte

    Sacramento, 2012

    Sacramento est, 2012

    La fine dei gemelli per camicia

    Los Angeles, 2012

    Contra Costa, 2013

    Fred Ray

    Lui

    Los Angeles, 2014

    Sacramento, 2014

    Sacramento, 1978

    Terza parte

    Postfazione

    Epilogo. Lettera a un uomo anziano

    Poscritto

    Appendice. Il libro che ha contribuito. a smascherare il killer: l’arresto di Joseph James DeAngelo

    Tavole fuori testo

    Nessun maggiordomo, nessuna cameriera, nessuna macchia di sangue sulle scale.

    Nessuna zia eccentrica, nessun giardiniere, nessun amico di famiglia

    Che sorride in mezzo al ciarpame e uccide.

    Solo una casa di periferia con la porta principale aperta.

    E un cane che abbaia a uno scoiattolo, e le automobili

    Che passano. Il corpo senza vita. La moglie in Florida.

    Si valutano le prove: lo schiacciapatate in un vaso,

    La fotografia strappata di una squadra di pallacanestro della Wesleyan,

    Disseminata insieme agli scontrini lungo il corridoio;

    La lettera di un fan mai spedita a Shirley Temple,

    La spilla di Hoover sul bavero del defunto,

    L’annotazione: Mi va bene essere ucciso in questo modo.

    Non c’è da stupirsi se il caso rimane irrisolto,

    O se il detective, Le Roux, è ora inguaribilmente folle,

    E se ne sta seduto da solo in una camera bianca con un camice bianco,

    Urlando che tutto il mondo è pazzo, che gli indizi

    Non portano da nessuna parte, oppure a muri di cui non si vede la sommità;

    Urlando tutto il giorno della guerra, urlando che nulla può essere risolto.

    Weldon Kees, Il club del crimine

    393308.png

    Aggressioni dell’East Area Rapist

    (giugno 1976 – luglio 1979) Nord della California

    Aggredì 50 donne in 7 contee

    1. 18 GIUGNO 1976, RANCHO CORDOVA

    Una donna di ventitré anni (Sheila* nel libro) viene stuprata nel suo letto da un estraneo con il volto coperto. È la prima di decine di aggressioni a opera di un uomo che diventerà noto alle forze dell’ordine e alla stampa come East Area Rapist.

    2. 5 ottobre 1976, citrus heights

    L’East Area Rapist colpisce per la quinta volta; la sua vittima è la casalinga trentenne Jane Carson. Lo stupratore aspetta che il marito della donna esca per andare al lavoro e dopo pochi minuti s’introduce in casa. Il figlio di tre anni della vittima resta nella camera da letto durante l’intero dramma.

    3. 28 MAGGIO 1977, PARKWAY, SACRAMENTO SUD

    La ventottenne Fiona Williams* e suo marito Phillip si trovano di fronte all’

    EAR

    nel suo ventiduesimo attacco noto, il settimo in cui durante l’episodio è presente anche un uomo.

    4. 28 ottobre 1978, san ramon

    La conta ufficiale delle aggressioni arriva a 40 quando l’

    EAR

    prende di mira un’altra coppia: la ventitreenne Kathy* e suo marito David*.

    5. 9 dicembre 1978, danville

    Nella notte, Esther McDonald*, trentadue anni, viene svegliata, legata e stuprata; è la vittima numero 43 dell’

    EAR

    .

    I furti e le sparatorie del Saccheggiatore di Visalia

    (aprile 1974 – dicembre 1975)

    6. visalia

    Si esamina un possibile nesso tra vari casi di furti con scasso e l’omicidio di Claude Snelling.

    La furia dell’Original Night Stalker

    (ottobre 1979 – maggio 1986)

    7. primo ottobre 1979, goleta

    L’Original Night Stalker aggredisce una coppia durante un’invasione domestica fallita; i due scappano.

    8. 30 dicembre 1979, goleta

    L’

    ONS

    uccide il dottor Robert Offerman e Debra Alexandria Manning.

    9. 13 marzo 1980, ventura

    L’

    ONS

    uccide Charlene e Lyman Smith.

    10. 19 agosto 1980, dana point

    L’

    ONS

    uccide Keith e Patrice Harrington.

    11. 6 febbraio 1981, irvine

    L’

    ONS

    uccide Manuela Witthuhn.

    12. 27 luglio 1981, goleta

    L’

    ONS

    uccide Cheri Domingo e Gregory Sanchez.

    13. 5 maggio 1986, irvine

    L’

    ONS

    uccide Janelle Cruz.

    * Pseudonimi.

    Personaggi

    Vittime

    Vittime di stupro

    Sheila¹ (Sacramento, 1976)

    Jane Carson (Sacramento, 1976)

    Fiona Williams* (Sacramento sud, 1977)

    Kathy* (San Ramon, 1978)

    Esther McDonald* (Danville, 1978)

    Vittime di omicidio

    Claude Snelling² (Visalia, 1975)

    Katie e Brian Maggiore† (Sacramento, 1978)

    Debra Alexandria Manning e Robert Offerman (Goleta, 1979)

    Charlene e Lyman Smith (Ventura, 1980)

    Patrice e Keith Harrington (Dana Point, 1980)

    Manuela Witthuhn (Irvine, 1981)

    Cheri Domingo e Gregory Sanchez (Goleta, 1981)

    Janelle Cruz (Irvine, 1986)

    Inquirenti

    Jim Bevins, investigatore, dipartimento dello sceriffo della contea di Sacramento

    Ken Clark, detective, ufficio dello sceriffo di Sacramento

    Carol Daly, detective, dipartimento dello sceriffo della contea di Sacramento

    Richard Shelby, detective, dipartimento dello sceriffo della contea di Sacramento

    Larry Crompton, detective, ufficio dello sceriffo della contea di Contra Costa

    Paul Holes, criminologo, ufficio dello sceriffo della contea di Contra Costa

    John Murdock, capo del laboratorio della scientifica dello sceriffo della contea di Contra Costa

    Bill McGowen, detective, dipartimento di polizia di Visalia

    Mary Hong, criminologa, laboratorio della scientifica dalla contea di Orange

    Erika Hutchcraft, investigatrice, procura distrettuale della contea di Orange

    Larry Pool, investigatore, Countywide Law Enforcement Unsolved Element, autorità giudiziaria nazionale per i casi irrisolti (

    CLUE

    ), dipartimento dello sceriffo della contea di Orange

    Jim White, criminologo, dipartimento dello sceriffo della contea di Orange

    Fred Ray, detective, ufficio dello sceriffo della contea di Santa Barbara

    ¹ Pseudonimi.

    ² Mai attribuiti definitivamente al Golden State Killer.

    Introduzione

    Prima del Golden State Killer ci fu la ragazza. Michelle vi parlerà di lei: la giovane trascinata nel vicolo fuori da Pleasant Street, assassinata e lasciata lì come immondizia. La ventenne fu uccisa a Oak Park, Illinois, a pochi isolati da dove Michelle era cresciuta in un’affollata casa di cattolici irlandesi.

    Michelle, la più piccola di sei figli, firmava le annotazioni nel suo diario Michelle, la scrittrice. Lei stessa confessò che fu quell’omicidio a innescare il suo interesse per la cronaca nera.

    Saremmo state una bella coppia (strana, forse). Anche io, durante la prima adolescenza, a Kansas City, Missouri, ero un’aspi­rante scrittrice; però nel mio diario io mi ero data un appellativo più arrogante: la Grande Gillian. Come Michelle, anche io sono cresciuta in una famiglia irlandese numerosa, ho frequentato una scuola cattolica e ho coltivato la passione per il mistero. Lessi A sangue freddo di Truman Capote quando avevo dodici anni, un acquisto economico, di seconda mano, e questo avrebbe inaugurato la mia eterna ossessione per il true crime.

    È un genere che adoro, ma sono sempre stata consapevole del fatto che, come lettrice, scelgo consciamente di essere una consumatrice del dramma altrui. Perciò, come ogni consumatore responsabile, cerco di fare attenzione alle mie scelte. Leggo solo il meglio: scrittori che siano ostinati, arguti e umani.

    Era inevitabile che mi imbattessi in Michelle.

    Ho sempre pensato che la caratteristica meno apprezzata dei grandi scrittori di true crime sia l’umanità. Michelle McNamara aveva la prodigiosa abilità di entrare nella mente non solo degli assassini, ma anche dei poliziotti che davano loro la caccia, delle vittime distrutte e della scia di parenti in lutto. Da adulta, sono diventata un’utente abituale del suo fantastico blog, True Crime Diary. «Dovresti scriverle due righe», m’incoraggiava mio marito. Lei era di Chicago, io vivo a Chicago, entrambe mamme che passavano una malsana quantità di tempo a cercare sotto ogni roccia il lato oscuro del genere umano.

    Ho resistito agli incoraggiamenti di mio marito; penso che il momento in cui sono arrivata più vicina a Michelle sia stato quando conobbi una sua zia alla presentazione di un libro: lei mi prestò il suo telefono e io le scrissi un messaggio con qualcosa che si addiceva ben poco a una scrittrice, tipo: Sei la migliore!!!.

    La verità è che non ero certa di voler incontrare questa scrittrice: mi sentivo sopraffatta da lei. Io creo dei personaggi; lei doveva fare i conti con fatti veri, andare dove la portava la storia. Lei dovette guadagnarsi la fiducia di investigatori diffidenti, esausti; affrontare le montagne di scartoffie in cui forse si nascondeva quell’informazione cruciale, e convincere familiari e amici devastati a riaprire vecchie ferite.

    Lei fece tutto questo con un garbo particolare, scrivendo di notte, mentre la sua famiglia dormiva, in una stanza disseminata di cartoncini colorati della figlia, su cui scarabocchiava con i pastelli il codice penale della California.

    Sono una rivoltante collezionista di assassini, ma non conoscevo l’uomo che Michelle soprannominò Golden State Killer fino a quando lei non iniziò a scrivere di questo incubo, responsabile di cinquanta abusi sessuali e almeno dieci omicidi in California durante gli anni Settanta e Ottanta. Era un caso irrisolto vecchio di decenni; vittime e testimoni erano andati via, erano venuti a mancare o avevano voltato pagina; la questione chiamava in causa più giurisdizioni, sia nel Sud che nel Nord della California, e implicò una miriade di fascicoli penali ai quali mancavano i vantaggi del test del

    DNA

    o delle analisi di laboratorio. Sono davvero pochi gli scrittori che accetterebbero questa sfida; ancora meno quelli che lo farebbero con successo.

    La caparbietà di Michelle nel seguire questo caso era stupefacente. Un esempio emblematico: ritrovò un paio di gemelli per camicia che erano stati rubati da una scena del crimine a Stockton, nel 1977, sul sito web di un negozio vintage in Oregon. Ma non è tutto; lei poteva anche dirti che "i nomi maschili che iniziano per

    N

    erano relativamente rari, e comparvero solo una volta nella classifica dei primi cento nomi degli anni Trenta e Quaranta, il periodo in cui più o meno era nato il proprietario originario dei gemelli. In ogni caso, questo non è nemmeno un indizio che conduce all’assassino; è un indizio che conduce ai gemelli che l’assassino aveva rubato. Questo zelo per i dettagli era peculiare. Michelle scrive: Una volta passai un pomeriggio a scovare ogni dettaglio che potevo su un membro della squadra di pallanuoto della Rio Americano High School del 1972, perché nella foto dell’annuario scolastico sembrava magro e con i polpacci grossi" (un possibile tratto fisico del Golden State Killer).

    Molti scrittori che hanno versato sangue e sudore nella raccolta di tutta questa documentazione rischiano di perdersi nei dettagli: statistiche e informazioni tendono a prendere a gomitate l’umanità. Le qualità che rendono meticoloso un ricercatore sono spesso in contrasto con le sfumature della vita.

    Ma Dieci brutali delitti, oltre a essere un ottimo lavoro di reportage, è allo stesso tempo un’istantanea dell’epoca, del posto e dell’individuo. Michelle dà vita ai rioni della California che rimossero gli aranceti; le nuove aree urbane lustre che resero le vittime protagonisti dei loro stessi orribili thriller; le città che vivevano all’ombra delle montagne e che prendevano vita una volta all’anno, quando migliaia di tarantole correvano in cerca dei loro compagni. E le persone, santo cielo, le persone: ex hippie pieni di speranza; novelli sposi pieni di aspirazioni; una mamma e la figlia adolescente che discutono per le libertà, per le responsabilità, e per il costume da bagno, per quella che non sanno che sarà l’ultima volta.

    Io mi appassionai fin dall’inizio, e anche Michelle, a quanto pare. La sua pluriennale caccia all’identità del Golden State Killer le ha richiesto un pesante tributo: Adesso ho un urlo piantato definitivamente in gola.

    Michelle si spense nel sonno all’età di quarantasei anni, prima che potesse terminare il suo incredibile libro. Troverete appunti dei suoi colleghi sul caso, ma l’identità del Golden State Killer resta ignota. A me non importa un fico secco della sua identità. Io voglio che lo prendano, non m’importa chi sia. Cercare il volto di un uomo simile è frustrante, appiccicargli un nome ancora di più. Sappiamo ciò che ha fatto, qualsiasi informazione al di là di questo risulterebbe inevitabilmente mediocre, scialba, un luogo comune, in un certo senso. «Mia madre era crudele. Odio le donne. Non ho mai avuto una famiglia…», e così via. Io voglio saperne di più sulle persone vere, complete; non sudici rottami di esseri umani.

    Voglio sapere di più su Michelle. Così come lei ha descritto la sua caccia a questo losco individuo, io stessa mi sono ritrovata a cercare informazioni su questa scrittrice che ammiro così tanto. Chi era la donna di cui mi sono fidata al punto da seguirla in questo incubo? Com’era? Cosa l’ha fatta diventare così? Cosa le ha dato questo garbo? Un giorno d’estate, feci venti minuti di macchina dalla mia casa di Chicago a Oak Park, il vicolo in cui fu trovata la ragazza, dove Michelle la Scrittrice scoprì la sua inclinazione. Finché non arrivai, non mi resi conto del perché ero lì: ora io stavo seguendo la mia indagine, alla ricerca di questa straordinaria cacciatrice delle tenebre.

    Gillian Flynn

    Prologo

    Quell’estate diedi la caccia al serial killer di notte, dalla stanza dei giochi di mia figlia. Simulavo in buona parte la routine dell’ora di andare a letto di una persona normale. Lavare i denti, mettere il pigiama. Ma una volta che mio marito e mia figlia si addormentavano, io mi ritiravo nel mio ufficio improvvisato e accendevo il mio portatile, quel boccaporto di quindici pollici che apriva infinite possibilità. Il nostro quartiere, a nord-ovest del centro di Los Angeles, è incredibilmente tranquillo di notte. A volte l’unico rumore che si sentiva era il clic mentre ingrandivo sempre di più i vialetti d’accesso di casa di persone che non conoscevo, su Google Street View. Mi sono spostata raramente, ma ho saltato decenni premendo pochi tasti. Annuari scolastici, certificati di matrimonio, foto segnaletiche. Ho passato al setaccio migliaia di pagine di fascicoli della polizia degli anni Settanta. Ho letto attentamente i referti delle autopsie. Che dovessi farlo circondata da una mezza dozzina di animali di peluche e una serie di bonghi rosa in miniatura non mi sembrava strano. Avevo trovato il mio luogo di ricerca, segreto come la tana di un topo. Ogni ossessione ha bisogno di una stanza tutta sua. La mia era disseminata di fogli da disegno su cui avevo scarabocchiato con i pastelli colorati i codici penali della California.

    Era più o meno mezzanotte, il 3 luglio 2012, quando aprii un file in cui avevo stilato un elenco di tutti i singolari oggetti che lui rubò nel corso degli anni. Avevo messo in grassetto poco più di mezza lista: vicoli ciechi. L’oggetto successivo da cercare era un paio di gemelli per camicia, rubati a Stockton a settembre del 1977. A quel tempo, il Golden State Killer, come l’avevo ribattezzato, non aveva ancora la licenza di uccidere. Era uno stupratore seriale, conosciuto come East Area Rapist, che aggrediva donne e ragazze nelle loro camere da letto. Iniziò nella parte orientale della contea di Sacramento, poi si mosse furtivamente verso i rioni della Valle centrale e nei dintorni della East Bay. Era giovane, qualcosa tra i diciotto e i trent’anni, bianco, atletico, in grado di sfuggire alla cattura scavalcando alte recinzioni. Il suo bersaglio perfetto era una casa a un solo piano, la seconda a partire dall’angolo, in un tranquillo quartiere borghese. Aveva sempre il volto coperto.

    I suoi tratti distintivi erano precisione e autoconservazione. Quando sceglieva una vittima, spesso prima s’introduceva in casa, quando non c’era nessuno, per esaminare le foto di famiglia, studiare la disposizione delle stanze. Disattivava le luci del portico e sbloccava le porte scorrevoli. Toglieva i proiettili dalle pistole. I proprietari di casa, sereni, chiudevano cancelli che erano rimasti aperti, le fotografie che spostava venivano rimesse al loro posto, e tutto era attribuito al disordine della vita quotidiana. Le vittime dormivano indisturbate fino a quando il fascio di luce della torcia elettrica non le costringeva ad aprire gli occhi. La cecità le disorientava. Le menti ancora assonnate si muovevano pesantemente, poi iniziavano a correre. Una figura che non riuscivano a vedere brandiva la luce, ma chi, e perché? La loro paura trovava una direzione quando sentivano la voce, descritta come un sussurro gutturale emesso a denti stretti brusco e minaccioso; tuttavia, alcuni notarono uno sporadico inciampo in un tono più alto, un fremito, un balbettio, come se l’estraneo mascherato nel buio nascondesse non solo il volto, ma anche una naturale instabilità che non sempre riusciva a celare.

    Il caso di Stockton, a settembre del 1977, in cui rubò i gemelli, era il suo ventitreesimo colpo e si verificò dopo un periodo di pausa che coincise con le vacanze estive. Il rumore dei ganci che sfregavano contro il bastone delle tende svegliò una donna di ventinove anni nella sua camera da letto, nella zona nord-ovest di Stockton. Sollevò la testa dal cuscino. Da fuori, le luci del patio incorniciarono una sagoma sulla soglia. L’immagine svanì quando la luce di una torcia investì il suo viso e l’accecò; una carica di forza si avventò sul letto. La sua ultima aggressione era stata durante il weekend del Memorial Day. Era l’1:30 di notte, il martedì dopo il Labor Day. L’estate era finita. Lui era tornato.

    Ora andava a caccia di coppie. La vittima cercò di spiegare all’agente in servizio il tanfo nauseabondo del suo aggressore. Fece fatica a identificare l’odore. Non aveva a che fare con la cattiva igiene, disse. Non veniva dalle ascelle o dall’alito. Il meglio che la vittima riuscì a dire, scrisse l’agente nel suo rapporto, fu che sembrava come un odore nervoso che emanava non da una zona specifica del suo corpo, ma da ogni singolo poro. L’agen­te le chiese se poteva essere più precisa. Non ci riusciva. Il fatto era che non aveva mai sentito un odore simile prima di allora.

    Come in altri casi, a Stockton lui sbraitò che aveva bisogno di soldi, però quando ce li aveva davanti li ignorava. Voleva oggetti di valore affettivo per le persone che violentava: fedi nuziali incise, patenti di guida, monete ricordo. I gemelli per camicia, un cimelio di famiglia, erano di un insolito stile anni Cinquanta e decorati con le iniziali

    NR.

    L’agente incaricato ne aveva fatto uno schizzo a margine del verbale. Mi incuriosiva quanto fossero singolari. Da una ricerca su internet ho appreso che i nomi maschili che iniziano per

    N

    erano relativamente rari, e comparvero solo una volta nella classifica dei primi cento nomi degli anni Trenta e Quaranta, il periodo in cui più o meno era nato il proprietario originario dei gemelli. Inserii una descrizione su Google e premetti il tasto

    INVIO

    .

    Bisogna essere presuntuosi per pensare di poter venire a capo di un complesso caso di omicidio seriale che una squadra speciale rappresentante cinque giurisdizioni della California, con il contributo dell’

    FBI

    , non è stata in grado di risolvere, soprattutto quando il tuo lavoro investigativo è, come il mio, fai da te. Il mio interesse per il crimine ha radici personali. Il misterioso omicidio di una vicina di casa quando avevo quattordici anni accese una passione per i casi irrisolti. L’avvento di internet trasformò il mio interesse in un’occupazione attiva. Una volta che i registri pubblici furono messi online e che vennero inventati motori di ricerca all’avanguardia, scoprii come una testa piena di dettagli sui delitti potesse intersecarsi con una barra di ricerca vuota. Nel 2006 lanciai un sito web intitolato True Crime Diary. Quando la mia famiglia va a dormire, io viaggio nel tempo e ricostruisco vecchie prove utilizzando la tecnologia del

    XXI

    secolo. Inizio a cliccare, a spulciare su internet in cerca di indizi digitali che le autorità potrebbero essersi lasciate sfuggire, esamino elenchi telefonici digitali, annuari scolastici e vedute dei luoghi del delitto su Google Earth: un pozzo senza fondo di possibili tracce per il detective del portatile che oramai esiste nel mondo virtuale. Condivido le mie teorie con i frequentatori fedeli e abituali che leggono il mio blog.

    Ho scritto di centinaia di crimini irrisolti, dagli assassini del cloroformio ai preti omicidi. Il Golden State Killer, tuttavia, mi ha consumata più di tutti. Oltre ai cinquanta stupri nel Nord della California, fu responsabile di dieci efferati omicidi nel Sud del Paese. Questo caso attraversò un decennio, e alla fine cambiò le leggi dello Stato sul

    DNA

    . Né il Killer dello Zodiaco, che terrorizzò San Francisco tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, né il Cacciatore della notte, che costrinse gli abitanti del Sud della California a sprangare le finestre negli anni Ottanta, furono così attivi. Eppure, il Golden State Killer è poco conosciuto. Non aveva un nome d’effetto finché non ne coniai uno io. Colpì in varie giurisdizioni della California, che non sempre condivisero informazioni o comunicarono bene tra di loro. Quando il test del

    DNA

    rivelò che crimini che non si era mai pensato fossero collegati erano opera di un solo uomo, erano passati più di dieci anni dal suo ultimo delitto conosciuto, e la sua cattura non era una priorità. Teneva un profilo basso, era a piede libero e viveva nell’anonimato.

    Però continuava a terrorizzare le sue vittime. Nel 2001, a Sacramento, una donna rispose al telefono, nella stessa casa in cui era stata aggredita ventiquattro anni prima. «Ti ricordi quando abbiamo giocato?», sussurrò un uomo. Lei riconobbe immediatamente la voce. Le sue parole riecheggiarono qualcosa che aveva detto a Stockton, quando la figlia di sei anni della coppia si alzò per andare in bagno e lo incontrò in corridoio. Era a circa sei metri di distanza, un uomo con un passamontagna marrone e delle muffole nere fatte a maglia; non indossava i pantaloni. Portava una cintura con una specie di spada infilata. «Faccio degli scherzetti a mamma e papà, vieni a guardarmi», disse.

    A tenermi all’amo era il fatto che il caso sembrava risolvibile. Il suo campo di detriti era allo stesso tempo troppo grande e troppo piccolo. Seminò tante vittime e svariati indizi, ma in comunità relativamente contenute, rendendo più semplice l’estra­polazione di dati sui potenziali sospetti. Il caso mi coinvolse subito. La curiosità si trasformò in smania di catturarlo. Gli davo la caccia, assorbita da un cliccare febbrile che connetteva il mio propulsivo pigiare a una scarica di dopamina. Non ero sola. Trovai un gruppo di ricercatori irriducibili che si riunivano su un forum online e si scambiavano informazioni e teorie sul caso. Misi da parte ogni giudizio e seguii i loro discorsi, tutti i ventimila e rotti messaggi. Filtrai i commenti di ruffiani con fini dubbi e mi concentrai sui veri inseguitori. A volte sul forum compariva un indizio, per esempio l’immagine di un adesivo su un veicolo sospetto avvistato vicino al luogo di un assalto. Era una sorta di crowdsourcing di detective oberati di lavoro ma che comunque cercavano di risolvere il caso.

    Io non lo consideravo un fantasma. Avevo fiducia nell’errore umano. Doveva aver commesso uno sbaglio da qualche parte lungo il percorso, ragionavo.

    La notte d’estate in cui cercai i gemelli per camicia ero ossessionata dal caso da quasi un anno. Prediligevo i taccuini a righe gialli, soprattutto le prime dieci pagine più o meno, quando tutto sembrava ordinato e ispirava ottimismo. La stanza dei giochi di mia figlia era disseminata di taccuini usati solo in parte, un’abitudine da sprecona che rispecchiava il mio stato d’animo. Ogni taccuino era un filo che iniziava e poi andava in stallo. Chiesi consiglio agli ispettori che avevano lavorato sul caso, ormai in pensione. Finii per considerarne molti amici. La loro presunzione si era prosciugata, ma questo non impedì che incoraggiassero la mia. La caccia per scoprire il Golden State Killer, nell’arco di quasi quarant’anni, era diventata non tanto una staffetta, quanto la scalata a una montagna impossibile da parte di una cordata di fanatici. La vecchia guardia dovette arrendersi, ma insistette perché io andassi avanti. Una volta, parlando con uno di loro, mi lamentai perché mi sentivo come se stessi raschiando il fondo.

    «Il mio consiglio? Raschia il fondo», mi disse. «Funziona, con gli avanzi».

    Per me sul fondo c’erano gli oggetti rubati. Non ero molto ottimista. La mia famiglia e io saremmo andati a Santa Monica per il weekend del 4 luglio. Non avevo ancora preparato i bagagli. Le previsioni del tempo facevano schifo. Poi la vidi: una singola immagine tra le centinaia che si caricavano sullo schermo del computer, lo stesso tipo di gemelli abbozzati nel dossier della polizia, con le stesse iniziali. Controllai e ricontrollai il disegno del poliziotto, confrontandolo con l’immagine sul computer. Erano in vendita per otto dollari in un negozio vintage, in un piccolo paese in Oregon. Li comprai immediatamente, e pagai quaranta dollari per un corriere notturno. Attraversai il corridoio fino alla camera da letto. Mio marito era steso sul fianco, dormiva. Mi sedetti sul bordo del letto e lo guardai finché non aprì gli occhi.

    «Credo di averlo trovato», dissi. Mio marito non ebbe bisogno di chiedermi di chi parlassi.

    Prima parte

    Irvine, 1981

    Dopo aver esaminato la casa, il poliziotto disse a Drew Witthuhn: «È tutta sua». Tolsero il nastro giallo. Chiusero la porta. La precisione fredda degli agenti aveva aiutato a distogliere l’attenzione dalla macchia. Adesso non c’era modo di evitarla. La camera da letto di suo fratello e sua cognata era proprio oltre la porta d’ingresso, dritta di fronte alla cucina. In piedi davanti al lavello, Drew doveva solo girare la testa verso sinistra per vedere la chiazza scura sulla parete bianca, sopra il letto di David e Manuela.

    Drew si faceva un punto d’orgoglio di non essere schifiltoso. All’accademia di polizia li avevano addestrati a gestire la tensione e a non impallidire mai. L’emotività di ghiaccio era un requisito per ottenere il grado. Non pensava che avrebbe avuto bisogno di usare quelle capacità – l’abilità di tenere la bocca chiusa e di guardare dritto davanti a sé mentre tutti gli altri andavano con gli occhi fuori dalle orbite e urlavano – così presto, o in una situazione così personale. Poi però, quel venerdì sera del 6 febbraio 1981, la sorella della sua fidanzata si presentò al suo tavolo al Rathskeller Pub a Huntington Beach e disse senza fiato: «Drew, chiama tua madre».

    David e Manuela vivevano al 35 di Columbus, in una casetta di un solo piano nel quartiere di Northwood, la nuova zona residenziale di Irvine. Il quartiere era una ramificazione della periferia che si sviluppava in quello che era rimasto del vecchio ranch di Irvine. Gli aranceti dominavano ancora i sobborghi, delimitando il cemento e l’asfalto invadenti con file di alberi incontaminati, un’industria conserviera e un campo per la raccolta. Il futuro del territorio che cambiava poteva essere calibrato in base al rumore: il getto dei camion che rovesciavano cemento sovrastava i trattori, sempre meno numerosi.

    Un’aria di eleganza mascherava il nastro trasportatore del cambiamento di Northwood. Le file di eucalipti svettanti, piantati negli anni Quaranta dai contadini come protezione contro i forti venti di Santa Ana, non vennero abbattute, ma riadattate. I costruttori utilizzarono gli alberi per dividere in due parti le strade principali e i quartieri di periferia. Il rione di David e Manuela, Shady Hollow, era un’area di centotrentasette case con quattro planimetrie a disposizione. Loro scelsero il progetto 6014, The Willow, il salice: tre camere da letto, centoquaranta metri quadri. Alla fine del 1979, quando la casa fu terminata, si trasferirono.

    A Drew la casa sembrava da adulti in maniera impressionante, anche se David e Manuela erano solo cinque anni più grandi di lui. Prima di tutto, era nuova di zecca. I mobili della cucina splendevano per il mancato utilizzo. L’interno del frigorifero profumava di plastica. Ed era spazioso. Drew e David erano cresciuti in una casa grossomodo delle stesse dimensioni, ma c’erano sette persone strizzate dentro: aspettavano con impazienza il loro turno per la doccia e si picchiavano i gomiti sulla tavola da pranzo. In una delle tre camere da letto David e Manuela depositavano le biciclette; nell’altra stanza vuota David teneva la sua chitarra.

    Drew cercò di ignorare la gelosia che lo pungeva, ma la verità era che invidiava suo fratello maggiore. David e Manuela erano sposati da cinque anni ed entrambi avevano un lavoro stabile. Lei era responsabile dei prestiti alla California First Bank; lui lavorava nelle vendite presso la House of Imports, una concessionaria della Mercedes-Benz. L’aspirazione borghese li aveva uniti.

    Per molto tempo avevano considerato se costruire o meno un recinto di mattoni nel cortile di casa e avevano discusso su quale fosse il posto migliore per trovare dei tappeti orientali di qualità. Il 35 di Columbus era una cornice in attesa di essere riempita. Il suo vuoto ispirava promessa. Drew si sentiva immaturo e scarso al confronto.

    Dopo la prima visita, Drew aveva passato pochissimo tempo in casa loro. Il problema non era tanto una questione di rancore, ma più che altro di scontento. Manuela, l’unica figlia di immigrati tedeschi, era brusca, a volte in maniera sconcertante. Alla California First Bank era conosciuta perché diceva alle persone che avevano bisogno di un taglio di capelli, oppure faceva notare quando facevano qualcosa di sbagliato. Teneva un elenco personale di errori dei colleghi, scritto in tedesco. Lei era magra e carina, con gli zigomi marcati e le protesi al seno, un’operazione che si era fatta fare dopo il matrimonio, perché era poco dotata e David sembrava preferire il seno grosso; così aveva detto a una collega, con una mezza alzata di spalle sgradevole. Non ostentava la sua nuova figura. Al contrario, preferiva i dolcevita e teneva le braccia conserte contro il busto, come se prevedesse una zuffa.

    Drew vedeva che per suo fratello la relazione funzionava. Lui poteva essere introverso e insicuro, e il suo modo di parlare era più obliquo che diretto. Ma troppo spesso lasciava che i loro ospiti si sentissero calpestati, mentre la forza delle alterne recriminazioni di Manuela mandava in corto circuito ogni stanza in cui entrasse.

    All’inizio di febbraio del 1981, Drew venne a sapere dal passaparola in famiglia che David non stava bene e che era in ospedale, ma lui non vedeva suo fratello da un po’ e non programmò di andare a fargli visita. Lunedì 2 febbraio, Manuela portò David al Santa Ana-Tustin Community Hospital, dove fu ricoverato per un grave virus gastrointestinale. Da allora, per molte sere, lei seguì la stessa routine: andava a cena dai suoi genitori, poi alla stanza 320 dell’ospedale per vedere David. Parlavano al telefono ogni mattina e ogni sera. Nella tarda mattinata di venerdì, David chiamò alla banca per cercare Manuela, ma i suoi colleghi gli dissero che non si era presentata al lavoro. Provò a chiamarla a casa, ma il telefono continuava a squillare, e la cosa lo

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