Angelitos
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Questa è la storia vera di un bambino coraggioso che non diventerà mai architetto. Di un papà in cerca di giustizia e di una banda di strada pronta ad ogni eventualità tranne il rifiuto. Di un viadotto alto come il cielo e di un pagliaccio triste. Di una Città del Guatemala dove tra cani randagi, cassonetti e colla da sniffare sbocciano i sogni dei giovani che ogni giorno dicono basta alla violenza. La biografia fatta di tatuaggi e cicatrici, soprusi e amicizie liberatrici di Angelito Escalante Pérez che, a dodici anni, ha scelto di non uccidere.
Questo libro ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International Italia e del Centro per la Cooperazione Internazionale di Trento.
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Anteprima del libro
Angelitos - Martina Dei Cas
Librinmente
Copyright
Copyright © 2019 Prospettivaeditrice.
Design copertina © 2019 Prospettivaeditrice.
ISBN 9788897911715
Dedica
Alla famiglia Escalante,
A nonno Gerardo,
All’indio Tamup,
Ai ragazzi del Mojoca,
A chi ci ha aiutati a metterci
#inViaggioconAngelito,
E a tutti coloro che hanno
ancora la forza di raccontare,
anche se la Storia gli ha rubato la voce.
Quisiera ser mariposa con alitas de algodón
para entrarte en el pecho
y robarte el corazón.
Vorrei essere una farfalla con ali di cotone
per entrarti nel petto e rubarti il cuore
Detto popolare centroamericano
La mafia sarà vinta
da un esercito di maestri elementari.
Gesualdo Bufalino
Introduzione
Questo libro gode del patrocinio di Amnesty International Italia e del Centro per la Cooperazione Internazionale di Trento, concessi con le seguenti motivazioni.
Concediamo il patrocinio ad Angelitos
per il prezioso lavoro di raccolta e studio sul campo, per aver dato voce ai protagonisti di questo libro e alle loro storie offrendo un quadro duro, partecipato e allo stesso tempo non artefatto di un Paese soffocato dalla violenza e in cui resistere al sopruso può costare la vita.
Amnesty International Italia
Le vicende a cui dà voce il libro di Martina Dei Cas ci parlano della tragedia quotidiana che si vive nelle periferie urbane dell’America Latina. La potenza della parola, quella irriducibile della testimonianza sono, ancora una volta, una delle poche risorse da opporre all’indifferenza e all’ignoranza che su quelle realtà vi è nel mondo del benessere. Aprire gli occhi su queste vicende è innanzitutto un modo per ridare dignità alle vittime che rischierebbero altrimenti, finendo nel dimenticatoio, di morire un’altra volta. Aprire un varco nelle coscienze dei lettori è anche un modo per provare a scalfire quel muro immaginario, ma terribilmente rassicurante, che permette di tenere distinte, come se nulla avessero a che fare l’una con l’altra, quella realtà e la nostra. Ancorché probabilmente insufficienti, sollevare il velo dell’inconsapevolezza, rendere visibili le interdipendenze, creare le condizioni per l’empatia, sono passi imprescindibili per la costruzione di un mondo più giusto.
Per il Centro per la Cooperazione Internazionale, di cui Martina Dei Cas è amica da molti anni, è un onore e un piacere patrocinare il suo libro Angelitos
. Lo straordinario e davvero coraggioso lavoro di documentazione e di ascolto da cui nasce rappresentano, in un momento storico in cui di questi due orientamenti c’è grande bisogno, un esempio brillante e una fonte di ispirazione per tutti.
Centro per la Cooperazione
Internazionale di Trento
Come nasce questo libro
La prima volta che sentii parlare di Angelito Escalante Pérez era l’8 luglio 2015. Stavo navigando sul sito del quotidiano nicaraguense El Nuevo Diario alla ricerca di un aggiornamento sulla legge nazionale sul femminicidio per la mia tesi di laurea, quando due immagini nella parte bassa dello schermo attirarono la mia attenzione. Nella prima si intravedeva un bambino sorridente con una maglietta rossa e il disegno di un cartone animato stampato sulla pancia. Nella seconda, invece, lo stesso bambino era sdraiato a terra, stretto tra le braccia di un uomo in lacrime. Era il 2015, prima che il barcone su cui viaggiava il piccolo Aylan si ribaltasse in prossimità del porto turco di Bodrum e che la foto del suo corpicino senza vita adagiato sulla sabbia avvolto in una t-shirt cremisi facesse il giro del mondo. Prima che le fotografie dei profughi mediorientali in marcia sotto la neve dei Balcani o in fila dietro il filo spinato come la bambina col cappotto, ancora una volta rosso, di Schindler’s List diventassero talmente ordinarie da non essere nemmeno più riprese dai media. Prima che la piccola Angie Valeria annegasse nel Rio Bravo cercando di raggiungere gli Stati Uniti assieme al suo papà.
Ricordo che mi morsi le labbra, pensando che di magliette rosse ne avevo viste a migliaia, mai però addosso a un bambino morto da poco. A dire il vero, prima di quella mattina, il corpo di un bambino morto da poco probabilmente non lo avevo nemmeno mai visto, perché in Italia il diritto di cronaca incontra precisi limiti normativi nella tutela dell’immagine e della dignità altrui.
Così aprii l’articolo e scoprii che il bambino con la maglietta rossa che aveva catturato la mia attenzione si chiamava Ángel Escalante Pérez, aveva 12 anni, sognava di diventare architetto ed era stato scaraventato giù dal ponte più alto di tutto il Guatemala, il Belice, da sei coetanei. La sua colpa era quella di essersi rifiutato di sparare a un autista che i ragazzini, affiliati a una banda di strada, volevano costringerlo a uccidere come rito d’iniziazione per reclutarlo a forza tra le loro fila. Probabilmente si trattava della Barrio 18, la stessa mara¹ i cui membri qualche mese dopo, in Italia, alla fermata della metropolitana di Milano Rho, avrebbero quasi mozzato con il machete il braccio di un ferroviere che li aveva avvicinati per controllare i loro biglietti.
Per giorni sperai che i media occidentali raccontassero la storia di Angelito, contribuendo con penne e microfoni a spezzare la logica del "mata o mueres, dell’
uccidi o muori". Che impugnassero l’arma di cui i mareros, gli affiliati delle bande, hanno più paura, ovvero la testimonianza, la parola sussurrata che, facendosi protesta di quartiere e di classe, squarcia il velo dell’omertà. Purtroppo, però, la storia di Angelito, a differenza delle bande e dei loro traffici, sembrava destinata a rimanere confinata oltreoceano. Di fronte a quest’eventualità, sentii qualcosa morirmi dentro, come sempre succede quando ci accorgiamo che – anche se là fuori, nel mondo, è morto un bambino – noi adulti dobbiamo continuare a lavare i piatti, timbrare il cartellino e pagare le bollette, soffocando l’impotenza e l’amarezza nella quotidianità.
Ricordo che mi arrabbiai e cominciai a raccontare la storia di Angelito alle persone che amavo. Era un modo confuso e tutto mio di rendergli giustizia, ma ancora non sapevo che presto si sarebbe strutturato fino al punto da cominciare una vera e propria indagine per mettermi in contatto con la sua famiglia. Per un anno cercai informazioni sugli Escalante, ma tutto ciò che scoprii fu che a Città del Guatemala un bambino su due aveva paura di andare a scuola, perché proprio lì era più alto il rischio che venisse notato dagli affiliati di una banda di strada e costretto ad arruolarsi tra i loro ranghi².
Finalmente, un venerdì d’inverno, Wilih Narváez, cronista del Periodico Hoy, rispose al mio appello. Originario del dipartimento nicaraguense di Somotillo – come il padre di Angelito, Luis Escalante – era riuscito a intervistare per il suo giornale la nonna paterna del bambino, doña Milipina, la quale viveva in una piccola fattoria nella valle natia. Wilih mi disse che non la vedeva dal giorno del funerale e che, anche se di storie brutte ne aveva coperte tante, quando ripensava alla composta rassegnazione della famiglia Escalante, faticava ancora ad addormentarsi. Mi spiegò poi che nel frattempo gli avevano hackerato il computer e che l’unico file che era riuscito a salvare era una breve video-intervista rilasciata dalla mamma di Angelito, la signora Claribel Pérez, all’Agenzia delle Nazioni Unite in Guatemala. Rinfrancata, mi rimisi al lavoro e nel febbraio 2017 riuscii a mettermi in contatto con suo marito Luis. La prima cosa che mi disse, al telefono, fu che il tragico lutto che aveva colpito la sua famiglia non aveva niente di speciale, perché purtroppo era uguale a quello dei vicini e dei vicini dei vicini. Poi, aggiunse che il suo bambino l’avevano ucciso due volte: la prima buttandolo dal ponte Belice e la seconda non iscrivendo nessuno nel registro degli indagati per la sua morte. Infine, annunciò che se avessi accettato di mettermi #InViaggioconAngelito mi avrebbe accompagnata, per impedire che lo uccidessero una terza volta, con l’oblio. E così fecero anche i miei genitori Lorena e Marco, i miei vicini Maria Luisa e Pier Giorgio Scarin, gli amici Franco Crescini, Matteo Bizzotto, Flavia, Mario e Debora De Cillia, Dario e Lisa Dossi, Dario e Nicoletta Piconese assieme ad un gruppo di associati della onlus Spagnolli-Bazzoni, Alan Torresani, Feliciana ed Elisa Zendri e i soci del Gruppo culturale di Chizzola, del Lions Club Re Teodorico di Verona Nord e del collettivo LiberArti di Roma che – con una straordinaria maratona di solidarietà – mi aiutarono a partire per il Guatemala assieme al regista Luca